Basquiat e il lato oscuro degli Anni Ottanta. A Roma

Chiostro del Bramante, Roma – fino al 2 luglio 2017. Dopo l’antologica milanese conclusasi a febbraio, Jean-Michel Basquiat è di scena nella Capitale, con una retrospettiva focalizzata sulla poetica urbana: New York, la cultura nera, il jazz, attraverso un centinaio di opere appartenenti alla Collezione Mugrabi.

Razionale o sarcastica, la storia si ripete, e gli anni dell’edonismo reaganiano ricordano i paradossi della Belle Époque, perché in entrambi i casi all’utopia successe il pragmatismo: soppiantati i romantici prima e gli hippy un secolo dopo, sorse una società votata all’estetica e al piacere, che fondava i suoi valori, e la sua ricchezza, sulla forza dell’economia. Come Toulouse-Lautrec a Parigi, Jean-Michel Basquiat (New York, 1960-1988) è stato il “cantore maledetto” di una New York scintillante, arrabbiata, opulenta, esaltata, a colori e in bianco e nero, esattamente come la Ville Lumière di cento anni prima. Con il suo tratto incendiario, ha riscoperto gli arcobaleni di benzina di Robert Pinsky, ma dietro i colori forti si nasconde la cupezza di un malessere che è quello di Basquiat così come quello di un’America che stava consumando con troppa spregiudicatezza le sue risorse.

LA STRADA E LA TELA

Il suo rapporto con la città è viscerale, e non casualmente il suo primo “atelier” furono i vicoletti dell’East Village, dove, già a quindici anni, alternava i graffiti alla prostituzione. Dei suoi esordi come writer restano tracce nelle sue grandi tele, a metà fra pittura e graffito; il suo tratto incendia l’asfalto e le coscienze, la sua narrativa spazia dai grandi personaggi della storia (Napoleone, Leonardo) ai simboli del benessere economico: il dollaro e i listini di borsa; c’è un’amara ironia in quel suo rappresentarli con tratto “infantile”, vicino all’Art Brut di Dubuffet, e mischiati ad animali e strane figure: New York è una giungla, e come la New Economy ingoierà i piccoli risparmiatori, così il ritmo del mercato dell’arte sarà insostenibile per Basquiat, alimentando il suo istinto di autodistruzione. Dagli sfondi neri delle sue grandi tele erompe un sottile senso di solitudine, un amore-odio per quella città che lo idolatrava e lo respingeva allo stesso tempo; a differenza di Warhol, che creò un sistema e si limitò a raccontare l’American Dream, Basquiat produce una Pop Art dotata di coscienza civile, che grida (come Ginsberg venti anni prima), contro una società diseguale, dominata dal denaro e dall’avidità.

Jean-Michel Basquiat, Untitled (Ober), 1986. Mugrabi Collection

Jean-Michel Basquiat, Untitled (Ober), 1986. Mugrabi Collection

L’IDENTITÀ AFROAMERICANA

Filtrata dalla dimensione urbana americana, emerge orgogliosa quell’arcaicità che è l’essenza tribale dell’Africa Nera; la si ritrova in parte nel tratto “primitivo”, ma soprattutto in quel ritmo musicale che possiedono le sue tele: è il jazz, infatti, uno dei grandi contributi che l’Africa ha portato in America. L’influenza di Charlie Parker (molto ammirato da Basquiat) la si può leggere negli “intervalli” più alti dei colori che il pittore impiegava nella sua linea cromatica – spingendo al limite quella che era stata l’audacia di Pollock e Rothko – così come il jazzista utilizzava nel suo bebop gli intervalli più alti fra le note.
E, ancora, tante sono le personalità o le situazioni della cultura nera ritratte nelle sue tele, con l’intento non dichiarato di rompere il muro del razzismo che ancora si ergeva negli USA, e che lui stesso visse in prima persona, quando più di un taxista si rifiutava di prenderlo a bordo o un portiere d’albergo gli negava l’ingresso. Era grama l’America, al di fuori di Wall Street.

Niccolò Lucarelli

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Niccolò Lucarelli

Niccolò Lucarelli

Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte, di teatro e di jazz, e saggista di storia militare. Scrive su varie riviste di settore, cercando di fissare sulla pagina quella bellezza che, a ben guardare, ancora esiste nel mondo.

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