La libertà secondo Ai Weiwei

Palazzo Strozzi, Firenze – fino al 22 gennaio 2017. In occasione della grande mostra “Ai Weiwei. Libero”, la Fondazione Palazzo Strozzi e l’Università degli Studi di Firenze (Dipartimento SAGAS) hanno collaborato alla creazione di un progetto di scrittura critica dal titolo “Ai Weiwei in mostra. Ai Weiwei si mostra”. Gli studenti del corso di Storia della fotografia, tenuto da Tiziana Serena, hanno visitato la mostra e ne hanno approfondito i contenuti, supportati dalla lettura di testi critici e dall’incontro con il direttore della Fondazione Arturo Galansino. Noi abbiamo selezionato tre testi meritevoli di pubblicazione. Ecco il primo.

Il contrasto è già evidente all’interno del manifesto della mostra. La parola “libero” è accostata ad un Ai Weiwei (Pechino, 1957) colto nell’atto di portare le mani vicino agli occhi, simulando un’azione ben precisa; quella di chi sta spiando qualcuno o qualcosa. È ironico pensare al risultato ottenuto da questa immagine: l’enorme diffusione di manifesti e locandine in tutta Firenze (e non solo) ha prodotto una quantità smisurata di tanti Ai Weiwei che ci osservano da ogni angolo della città, un po’ come le telecamere e gli agenti sotto copertura che lo sorvegliano continuamente. Interessante anche notare la coesistenza, nel titolo dell’evento, del termine più amato e di quello più odiato dall’artista, che in un’occasione ha individuato in “libertà” la sua parola preferita, e nel proprio nome quella più detestata.
Ufficialmente, la scelta del titolo della mostra è stata motivata da due fattori principali: la restituzione del passaporto all’artista (avvenuta nel 2015, dopo quattro anni dal ritiro), con la conseguente possibilità riacquistata di spostarsi oltre i confini natali, e l’atteggiamento con il quale egli si sarebbe mosso all’interno degli spazi espositivi. In effetti, il concetto di libertà viene espresso con ostentazione continuamente da Ai Weiwei, sia attraverso le proprie parole (non c’è intervista o dichiarazione da lui rilasciata che ne sia priva, più o meno esplicitamente) sia attraverso le proprie opere.
Ne è già un esempio quello che vediamo prima ancora di varcare la soglia di Palazzo Strozzi: un’enorme ala metallica che giace al centro del cortile. Refraction condensa l’idea di qualcosa di estremamente leggero per ciò che rappresenta, che contrasta con la pesantezza dei materiali utilizzati, assumendo quindi un carattere di assurdità. Il riferimento alla libertà negata doveva certamente essere più diretto durante la prima esposizione dell’opera, avvenuta in un luogo simbolo della reclusione: il carcere di massima sicurezza nell’omonima isola di Alcatraz, nella baia di San Francisco, che nel 2014 ha ospitato sette installazioni dell’artista.

Ai Weiwei, Libero , exhibition view at Palazzo Strozzi, Firenze 2016, courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, photo Alessandro MoggiSORVEGLIANZA E VIOLAZIONE

Un riferimento diretto all’esperienza in prima persona di libertà violata risiede nella traduzione in simboli di oppressione degli oggetti che hanno caratterizzato la sua detenzione: delle grucce realizzate in legno e cristallo e un paio di manette in giada. Come spesso accade nei suoi lavori, l’artista si è qui servito di materiali nobili, nonché profondamente legati alla tradizione cinese, per portare oggetti d’uso quotidiano a un livello diverso di interpretazione. Proprio a proposito di materiali di questo genere, e in particolare in riferimento alla ceramica, Ai Weiwei ha affermato di nutrire nei suoi confronti un rapporto conflittuale: “(…) la odio… ma la faccio. Se si odia troppo una cosa, credo la si debba fare. Bisogna usare questo odio”. L’attitudine all’utilizzo di un mezzo per esorcizzarne gli effetti potrebbe essere la chiave di lettura entro la quale considerare svariati prodotti della sua carriera.
Simbolo della sorveglianza per eccellenza è poi Surveillance Camera and Plinth, opera posta a conclusione del percorso espositivo del piano nobile. Partendo dal riferimento al controllo continuo da parte delle autorità cinesi per la sua attività di dissidente, l’artista procede verso la realizzazione di un simbolo situando la telecamera al di sopra di una colonna occidentale classica. Inoltre, anche qui l’utilizzo del materiale non è casuale: il marmo, considerato materiale nobile in Occidente ma anche in Cina, fu infatti utilizzato come simbolo di potere e ricchezza sia nel periodo imperiale che in quello comunista. Ciò che può far riflettere ulteriormente è la posizione dell’oggetto: la telecamera è posta in direzione dell’uscita, come a sorvegliare chi ha appena visitato la mostra. Ancora una volta, quindi, Ai Weiwei ci osserva.
I riferimenti si fanno più espliciti presso la Strozzina, dove un’intera sala è dedicata al tema della sorveglianza. Nella serie Photographs of Surveillance i ruoli di sorvegliante e sorvegliato si invertono: l’artista documenta una consistente quantità di episodi in cui ha percepito di essere tenuto sotto controllo, immortalando momenti della sua quotidianità invasi dalla presenza di agenti in borghese o di automobili appostate. A far parte della serie è anche la documentazione fotografica relativa alla risposta di Ai Weiwei al controllo continuo subito in seguito al suo rilascio. In questo caso si può parlare di autosorveglianza in senso letterale: l’installazione di quattro videocamere all’interno della sua casa-studio permetteva una diretta non stop della sua vita tramite il sito weiweicam.com, interrotta dalle autorità a quarantasei ore dal suo inizio. Tale operazione sembra quasi un’eco di un altro intervento dell’artista, anche questo presente attraverso le fotografie esposte, effettuato in precedenza direttamente sulle telecamere di sorveglianza installate dalle autorità, che prevedeva la collocazione di lanterne tipiche della tradizione cinese. Altro riferimento al controllo è poi Taxi Window Cranck, all’interno della stessa sala. Utilizzando ancora una volta un materiale nobile (in questo caso, il cristallo), Ai Weiwei ha riprodotto alcune maniglie di finestrino dei taxi di Pechino, rimosse dalle automobili per impedire il lancio di volantini da parte di cittadini manifestanti.

Ai Weiwei, Libero , exhibition view at Palazzo Strozzi, Firenze 2016, courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, photo Alessandro Moggi

Ai Weiwei, Libero , exhibition view at Palazzo Strozzi, Firenze 2016, courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, photo Alessandro Moggi

LA FOTOGRAFIA COME STRUMENTO

L’ultima sala della mostra è interamente dedicata all’utilizzo del mezzo fotografico da parte dell’artista, che si ritrae nelle più svariate situazioni quotidiane. Un modo, come si è accennato, per giocare d’anticipo su chi osserva ogni sua mossa.
Un’opera particolarmente significativa in questo senso ha debuttato alla Biennale di Venezia del 2013, all’interno della chiesa di Sant’Antonin a Castello: l’installazione S.A.C.R.E.D. (2011-2013) consiste in una serie di sei parallelepipedi neri contenenti al loro interno altrettanti diorami che riproducono in modo piuttosto dettagliato scene ambientate durante il periodo di detenzione dell’artista, iniziato il 3 aprile 2011 e conclusosi il 22 giugno dello stesso anno. Immagini che a prima vista possono sembrare delle esasperazioni di tale condizione, in realtà sono delle citazioni puntuali di ciò che ha subito durante quegli ottantuno giorni. Ai Weiwei ha infatti raccontato di come fosse sorvegliato a vista da due guardie alla volta, che ventiquattro ore su ventiquattro erano incaricate di osservare, stando nelle sue immediate vicinanze, qualunque cosa facesse. Non che fosse poi molto; oltre allo svolgimento delle attività necessarie al proprio sostentamento non gli era concesso neanche di parlare se non, chiaramente, durante gli interrogatori. Una pratica diffusa in Cina per questo genere di detenzioni, che equivale a tutti gli effetti a una forma di tortura. A essere particolarmente degna di attenzione è la modalità di fruizione dell’opera da parte del visitatore: i diorami sono visibili attraverso aperture laterali e al di sopra di ogni parallelepipedo. Anche l’osservatore, quindi, è messo nella condizione di chi era nella stanza insieme a lui: deve, di fatto, spiare cosa sta succedendo lì dentro. In particolare, i lucernari aperti dall’alto fanno sì che per osservare la scena si debba prima salire su alcuni gradini. E quindi, guardare dall’alto verso il basso. Ecco come, allora, diventiamo noi stessi sorveglianti di un uomo che della sorveglianza ha fatto il suo più grande fantasma.

Ai Weiwei, Libero , exhibition view at Palazzo Strozzi, Firenze 2016, courtesy Fondazione Palazzo Strozzi, photo Alessandro MoggiIL CONTESTO CULTURALE

Quando si parla di Ai Wewei è sempre necessario tenere a mente il sostrato culturale che gli appartiene. Non si può prescindere dal fatto che sia cresciuto durante la Rivoluzione culturale cinese, periodo in cui il controllo e la sorveglianza di ogni individuo e di ogni aspetto della vita cinese erano il fulcro di tutto. La Cina sotto Mao Tse-tung incarnò l’esempio ideale di cultura totalitaria in ogni ambito, incluso ovviamente quello delle arti, che dovevano avere il ruolo di guidare la coscienza delle masse con un linguaggio che potesse arrivare chiaramente a tutti e che fosse perfettamente in linea con il regime. Tutto il resto era semplicemente da eliminare, tramite l’esercizio dello strumento più efficace in assoluto e comune a tutti i regimi totalitari: il terrore.
Nei suoi scritti, estrapolati dal blog che tenne assiduamente attivo fra il 2005 e il 2009 e che fu oscurato dal governo, Ai Weiwei riporta una situazione affine anche in tempi molto più recenti: “(…) Pechino è una società governata da un potere accentratore. Qui ci sono coloro che impartiscono gli ordini, e coloro che ne subiscono le conseguenze; i cittadini in senso proprio non esistono in una società di questo tipo. In una società come questa, non c’è libertà di parola né vere e proprie città”. Un’atmosfera della quale egli è vittima in prima persona, ma probabilmente non solo per mezzo di altri.
Il meccanismo che si instaura nella mente di chi è continuamente tenuto sotto osservazione è stato accuratamente indagato già a fine Settecento, se si pensa alla teorizzazione del Panopticon, un carcere ideale all’interno del quale, come dice il nome stesso, si poteva vedere tutto. Lo scopo dichiarato dell’edificio era che i detenuti fossero sorvegliati costantemente. Ma, essendo questa condizione di improbabile realizzazione, l’alternativa migliore consisteva nell’instaurare nella mente dei sorvegliati la convinzione che lo fossero in ogni istante. Tale dispositivo induce nel detenuto un clima di terrore tale per cui, convinto di essere controllato, finisce per controllarsi egli stesso, assicurando il funzionamento del potere anche quando esso non è strettamente esercitato.

AI WEIWEI LIBERO?

Le analogie con la situazione passata e presente di Ai Weiwei sono numerose. Il sistema di cui è vittima lo ha reso vittima di se stesso. La smania incessante con cui documenta anche il fatto più insignificante della propria vita tramite il mezzo fotografico (e i social media in generale), non è altro che l’effetto di un più ampio ingranaggio che continua a funzionare nella sua testa anche quando non attivo nella realtà. “Tutti i difetti della mia epoca si riflettono nella mia persona”, ha affermato l’artista in un articolo del suo blog. E in effetti sembra proprio che sia così. Può quindi davvero definirsi libero un uomo che è, a tutti gli effetti, schiavo del momento storico che lo ha prodotto e degli episodi che ha vissuto? Più che ostentare un valore che gli appartiene realmente, semplicemente aspira a un traguardo senza mai raggiungerlo. Una libertà che, più che essere stata violata, forse non c’è mai stata.

Giulia Di Giacomo

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