Due collezioni in dialogo. A Roma

Proseguono le mostre “di studio” di Palazzo Barberini: piccoli allestimenti che ruotano intorno alla collezione del museo o a pochi ‒ prestigiosi ‒ prestiti internazionali. Questa volta al Mantegna del Jacquemart André s’affiancano due pale gotiche provenienti dal Museum of Fine Arts di Houston.

Della serie di mostre cosiddette “di studio” che affiancano i grandi allestimenti a Palazzo Barberini, abbiamo già diffusamente parlato. Si tratta di scelta non solo pratica, ma curatoriale proposta dalla direttrice Flaminia Gennari Sartori che ben si inscrive nel nuovo corso dato agli spazi della Galleria Nazionale d’Arte Antica (celebrato, tra l’altro, con l’apertura di una nuova ala del Palazzo, restituita al pubblico con l’inaugurazione della mostra Eco e Narciso, la scorsa primavera). Queste esposizioni, costruite a partire dalla collezione del museo, o intorno a importanti prestiti internazionali, procedono su un doppio binario: da un lato offrono agli studiosi un’occasione di confronto e di discussione a partire dalle opere, dall’altro avvicinano il pubblico all’approfondimento, mostrando uno spaccato per una volta in profondità, piuttosto che in estensione, della storia dell’arte. In un certo senso, è la quadratura del cerchio di quella che sarebbe la mission di un museo e ‒ancor di più ‒ di uno spazio storico come Palazzo Barberini: conservare, esporre, stimolare la conoscenza e la ricerca.

UNA STORIA DI COLLEZIONISMO

Ma c’è di più, c’è un filo sottile che lega queste piccole, ma preziose occasioni espositive: una riflessione sul collezionismo ‒ come atto creativo esso stesso ‒, che è tema caro alla direttrice del Palazzo Barberini, autrice di numerosi studi sulle raccolte d’arte soprattutto nel contesto statunitense. In questo caso il riferimento è a due celeberrime coppie di collezionisti e mecenati: Edouard André e sua moglie Nélie Jacquemart ‒ che lasciarono in eredità allo Stato francese la loro raccolta, nucleo principale dell’omonimo museo ‒ ed Edith Abraham e Percy Selden Straus, donatori del Museo of Fine Arts di Houston.
Si tratta di storie diverse, che scorrono parallele tra la fine del Ottocento e i primi anni del secolo scorso, quando l’alta borghesia provava a ricreare nelle stanze delle proprie case il sogno tutto rinascimentale di un’arte sovrapposta alla vita. La ricerca e la composizione di una raccolta svelano ‒ nelle parole del curatore Michele Di Monte ‒ “un desiderio di appropriazione, che è tanto più forte quanto più quell’oggetto è un fantasma che la passione, la passione dell’amatore paradossalmente può contemplare solo a distanza”.

Andrea Mantegna, Ecce Homo, 1500 ca. Paris, Musée Jacquemart André – Institut de France © Studio Sébert Photographes

Andrea Mantegna, Ecce Homo, 1500 ca. Paris, Musée Jacquemart André – Institut de France © Studio Sébert Photographes

LA STANZA DI MANTEGNA

Nella stanza dedicata a Mantegna, il fulcro è un Ecce Homo del 1500, dove il dramma è rappresentato con un rigore austero, con una dignitas che è, forse, l’insegnamento più alto che l’artista ha tratto dalla propria profonda conoscenza dell’antico: c’è di più, un coinvolgimento sottile dello spettatore, che si trova proprio nella posizione in cui sarebbe dovuto essere Pilato, esposto ‒ eppure storicamente distante ‒ dalla scena. Accanto a quest’opera, un piccolo nucleo di altri eccellenti prestiti tratteggia il clima dell’epoca: l’erudizione antiquaria ‒ ben rappresentata dal ritratto su pergamena di Giorgio Schiavone ‒, la lezione belliniana, l’eredità mantegnesca, come modello per artisti come Giovan Battista Cima da Conegliano. Il bronzetto con Mosè di Andrea Briosco, affiancato al disegno di scuola mantegnesca che rappresenta Ercole e Anteo evoca, ancora una volta, la rielaborazione della cultura classica, che trasla ‒ senza apparente discontinuità ‒ modelli iconografici, dalla mitologia alla scena biblica.

Maestro senese della Madonna Straus, Madonna con il Bambino © The Museum of Fine Arts, Houston, The Edith A. and Percy S. Straus Collection

Maestro senese della Madonna Straus, Madonna con il Bambino © The Museum of Fine Arts, Houston, The Edith A. and Percy S. Straus Collection

L’ENIGMA DEI “MAESTRI” STRAUS

Alle due opere provenienti da Houston (si tratta di una sorta di scambio, in vista della “partenza” del ritratto di Holbein di Enrico VIII, in un’ottica di relazione e collaborazione tra i musei) è affiancata un’opera della collezione Barberini (precedentemente conservata a Palazzo Venezia): le tre tavole lignee ‒ affini per soggetto, una Madonna col Bambino, separate cronologicamente da pochi decenni ‒ costituiscono tutt’ora un enigma attributivo irrisolto per gli studiosi.
Il Maestro senese della Madonna Straus, attivo fra il 1340 e il 1370, si distingue per la grazia calligrafica, le figure allungate, il gioco di sguardi obliquo tra la madre e il Bambino; il Maestro della Madonna Straus è stato identificato come un pittore fiorentino, forse presente nella bottega di Agnolo Gaddi (giottesco di seconda generazione) tra il 1385 e il 1415: nella sua tavola convivono i riflessi dorati del gotico cortese ‒ ad esempio nella bella decorazione della tappezzeria ‒ e il gusto per una rappresentazione che è già ‒ a suo modo ‒ naturalistica, come appare dal dettaglio dell’uccellino, riferimento iconologico eppure così reale e presente nella morbidezza del piumaggio. Il terzo maestro, è quello della Madonna di Palazzo Venezia, un probabile seguace di Simone Martini, attivo tra il 1320 e il 1370, con tutte le tipicità trecentesche della stilizzazione dei tessuti e delle tecniche di punzonatura e sgraffito per la resa delle stoffe. Ancora privi di identità, questi tre Maestri anonimi offrono allo sguardo degli spettatori e degli studiosi, mediante un confronto diretto, che s’allarga e coinvolge le altre opere medievali presenti nella sala, una nuova visione della pittura gotica: ascetica, spirituale, eppure intimamente legata all’esperienza sensibile. Come ricorda, ancora, il curatore della mostra: “Anche le immagini devozionali, come queste, mirano in fondo a comporre due esperienze complementari di bellezza, una più astratta e intelligibile (il pulchrum), una più concretamente sensuale (il formosum)”.

Maria Cristina Bastante

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