Il Seicento pittorico del Genovesino. In mostra a Cremona

Cremona, Museo Civico ‒ fino al 6 gennaio 2018. La prima mostra intitolata a un dimenticato protagonista della pittura lombarda del Seicento. Genovese di nascita e cremonese di adozione, Luigi Miradori è stato un artista dalle straordinarie capacità tecniche e di grande inventiva. Leggende fiorite dopo la sua morte narrano di colleghi affermati che abbandonarono la città a gambe levate dopo avere visto i suoi quadri, dipinti “con tutto il gusto del famoso Rubens”.

Il soprannome, Genovesino, Luigi Miradori se lo trascina dalla terra di origine: la città della Lanterna, dove probabilmente nasce nei primi anni del Seicento e dove sicuramente si forma. Un ambiente artisticamente vivo, competitivo e stimolante, tra gli echi del passaggio prima di Rubens e poi di van Dyck e riflessi delle novità prodotte nel milanese dai campioni di Federico Borromeo. Tra il 1632 e il 1635 è nella Piacenza dei Farnese; nel 1637 è già documentato a Cremona, città dove rimane per vent’anni e dove si afferma come l’artista più richiesto e apprezzato.
Solo a partire dall’approdo cremonese si possono cominciare a seriare le sue opere, spesso difficili da datare per l’estro eterogeneo del pittore, che anche in uno stretto giro d’anni licenzia pale diversissime tra loro, per ispirazione, qualità e regia compositiva. E questo fino dalle prove poste all’inizio del percorso espositivo, come il Sacrificio di Isacco (Londra, Colnaghi), tessuto in paste sugose di matrice genovese, con echi di meditato caravaggismo e ricordi precisi del soggiorno piacentino. Oppure l’Adorazione dei Magi (Parma, Galleria Nazionale), immersa in un registro di luci completamente diverso, algida nella trama di citazioni da stampe e dipinti nordici, ancora da precisare.

Luigi Miradori detto il Genovesino, Suonatrice di liuto, Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Rosso. Tela, cm 138 x 100

Luigi Miradori detto il Genovesino, Suonatrice di liuto, Genova, Musei di Strada Nuova – Palazzo Rosso. Tela, cm 138 x 100

VANITAS E DINTORNI

Nei dipinti di commissione privata, l’acceleratore spinge spesso su temi tormentati e concettosi cari alla pittura del Seicento, dalla caducità umana alla mortalità infantile, con in più una propensione per particolari macabri e tinte fosche in cui aleggia continuamente il ricordo di una Lombardia devastata dalla peste. Così le numerose Vanitas, inserite anche in ritratti allegorici come la splendida Suonatrice di liuto (Genova, Museo di Palazzo Rosso), di “inedita forza spagnolesca”, riferita un tempo prima a Caravaggio e poi a Orazio Gentileschi. Ma i tasti del macabro suonano anche in soggetti religiosi. Nella Morte di San Carlo Borromeo (1642), piccola tela di incredibile forza espressiva, protagonista è la distesa rossa delle coltri aggrovigliate sul moribondo, che ne trascinano nell’ombra, con tutta la pesantezza di un ultimo respiro, il corpo ormai ridotto a una larva indistinta. Un effetto estremamente teatrale, dai foschi risvolti manzoniani. Non fosse per la schiera di prelati e l’animula rapita in volo, potrebbe essere un Don Rodrigo qualunque, sul letto di morte. La santità, del resto, non appartiene a questo mondo. Così anche in quella follia compositiva che è il Riposo durante la fuga in Egitto dalla chiesa di Sant’Imerio (1651), definito “penicillorum ludus” (gioco di pennelli) dallo stesso autore, che accompagna la sua firma con questa formula inconsueta. Non potrebbe esserci maggiore contrasto tra il primo piano, imbevuto di delicatezze cromatiche e tenerezze naturalistiche, come l’angioletto che sfama da un sacco di tela, più vero del vero, il mesto asinello, e lo sfondo, dove nel gran teatro architettonico va in scena una Strage degli Innocenti mai vista prima, terribile, con i manigoldi che scagliano corpi di infanti da altezze vertiginose.

UN PITTORE INTERNAZIONALE

L’apertura internazionale del Miradori, le cui opere venivano a volte catalogate sotto i nomi dei più importanti pittori spagnoli, come Zurbarán, è testimoniata dal ritratto riconosciuto come quello di Zenobia, la regina di Palmira, vincitrice sull’esercito romano, tradita dal nipote e poi riscattata dalla prigionia dal generale Decio, che la sposa dopo avere fatto uccidere l’imperatore. Un soggetto raro, tratto dal dramma La gran Cenobia dell’immenso Calderón de la Barca, che era stato al servizio di quello che poi è diventato il governatore spagnolo di Cremona, Álvaro Quiñones, principale committente di Genovesino.

Stefano Bruzzese

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