Recensione: il meglio e il peggio della Biennale di Malta alla sua prima edizione

Siamo stati a Malta per visitare la prima edizione della biennale: le proposte e le idee sono tante e valide, ma bisognerebbe lavorare su alcuni punti che rendono la visita difficoltosa. Ecco cosa ha funzionato e cosa no

Il 13 marzo ha aperto le sue porte la Biennale di Malta, un evento dedicato all’arte contemporanea visitabile sino al 31 maggio curato da Sofia Baldi Pighi. Il progetto è ambizioso: si sviluppa in più sedi espositive comprendendo l’isola di Malta con le sedi di La Valletta e Cottonera, invitando a recarsi anche a Gozo, piccola isola raggiungibile in poco meno di un’ora. La biennale si prefigge, a livello curatoriale, di affrontare alcune riflessioni sulle narrazioni predominanti e trascurate del paesaggio culturale Mediterraneo, ereditate dalle generazioni passate e che ben si prestano per questa isola, nel centro del Mediterraneo occidentale, a metà tra Italia e Nord Africa. 
A fine aprile ho avuto occasione di visitarla e vorrei condividere l’esperienza e la fruizione dell’evento, alla sua prima edizione. I più attenti avranno già letto alcuni articoli che presentavano la biennale. Ma credo che il valore aggiunto del recarsi fisicamente da un lato possa essere stimolante per programmare una visita e, dall’altro, offra l’occasione per calarsi nel concreto di location e opere e valutare l’esperienza della fruizione nel suo complesso, considerando la facilità dell’accessibilità e della comunicazione delle informazioni, nonché la capacità di comprensione dei temi e degli stimoli di un progetto così complesso.

La prima Biennale di Malta e le sue location

Scrivo queste parole da critica e da curatrice. Purtroppo negli eventi culturali che raggruppano più mostre o più luoghi espositivi, si rischia di cadere in una certa autoreferenzialità settoriale, la cui tendenza è quella di sottovalutare una serie di facilitazioni atte a rendere la visita un’esperienza piacevole, semplice pur nella complessità, e capace di restituire i concetti affrontati al maggior numero di persone. Non va sottovalutata la percezione dei visitatori che, se felici e soddisfatti di ciò che hanno visto – e compreso – tenderanno a ripetere l’esperienza, giocando così a favore non del singolo evento, ma di tutto il sistema delle arti visive.  Punto di forza di questa Biennale maltese sono sicuramente le location che ospitano l’evento. Con il biglietto di accesso è possibile entrare in sontuosi palazzi e vedere le (numerose) collezioni al loro interno, visitare le antiche cittadelle, la barocchissima chiesa di Tal-Pilar, il Main Guard Palace ed il Forte Sant’Elmo con il suo National War Museum, sede di una delle sezioni principali dell’evento. I biglietti si vendono per singola location o per alcune combinazioni segnalate nel sito web, a cui va dedicato del tempo per capire le molteplici offerte previste. 

Bettina Hutschek, Biennale di Malta, 2024
Bettina Hutschek, Biennale di Malta, 2024

Le difficoltà dell’esperienza di visita della Biennale di Malta

Concentrando l’attenzione sull’esperienza di visita, le difficoltà riscontrate abbracciano una serie di mancanze che, nella somma, creano difficoltà a recepire la coerenza e la qualità delle scelte curatoriali, sino a coinvolgere alcune problematiche più concrete. Si inizia dalla mancanza di una mappa fornita in biglietteria. Una mancanza che diventa un dramma, se si pensa alla difficoltà di muoversi su isole differenti, ognuna con più luoghi espositivi. Non specificare che Cottonera è una cittadella che si affaccia sull’altro lato del golfo di La Valletta, non è una banalità per chi si reca per la prima volta ed è costretto a capirlo da Wikipedia! Una difficoltà maggiore se il nome proprio della città è declinato nella sua accezione di derivazione Greca o Araba: Cospicua o Bormla. Non solo, la mappa permette di muoversi in modo snello, segnare i tragitti a seconda degli orari di apertura e delle proprie disponibilità, nonché di capire dove sono dislocati i padiglioni delle nazioni ospitate. Un altro ostacolo si ritrova nella mancanza di una segnaletica d’immagine coordinata: se nei totem esterni i colori hanno una gradazione accesa e visibile che passa dal viola al rosso, questa cede tragicamente il passo all’interno del percorso espositivo, ad una struttura in ferro su cui campeggia una minimale scritta nera, rendendo spesso necessaria la ricerca di un referente che possa fornire indicazioni. Le stesse strutture, ma in dimensioni maggiori, le si ritrova appoggiate sui muri nelle location, con i testi di sala dedicati agli artisti. Queste risultano male posizionate ed illuminate, rendendone altrettanto ardua la lettura. In un caso si era staccato il pvc con i testi dalla struttura, in un altro il vento ne aveva divelto il materiale. 

Il caso dei Matriarchives del Mediterraneo

In collaborazione con Heritage Malta, l’Università di Napoli L’Orientale, il Centro per gli Studi Postcoloniali di Genere e gli studiosi dell’Archivio MatriArchives del Mediterraneo, nasce la prima sezione tematica di maltabiennale.art che esplora la questione dell’archivio nel contesto della creatività, della memoria e della comunità artistica e performativa femminile della regione mediterranea. 
La costruzione di un grande patrimonio coerente che nel tempo si propaghi per tutelare, valorizzare e proporre la portata immensa dell’arte visiva al femminile è necessaria e corroborante. Il Mediterraneo, un punto di partenza davvero unico vista la grande valenza storica che questo piccolo mare ha assunto dallo sviluppo della prima civiltà e dai legami forti con la venerazione delle prime Dee Madri, quando ancora l’essere umano era stanziale e si venerava la grande magia del femmineo e del concepimento. Il limite del progetto si infrange nella mancata capacità di creare con coerenza e forza una direzione comprensibile. Un’occasione persa, quella di accompagnarci nell’esperienza di generare una “memoria al femminile” che nel tempo possa crescere e raccontarsi. In mostra – negli spazi del Grand Master’s Palace a Valletta dedicati al progetto Matriarchives del Mediterraneo – autrici di differenti generazioni siparlano, ma senza che ci sia una linea curatoriale evidente e comprensibile. 

Un Mediterraneo incompleto

Dico questo con dispiacere, perché i lavori di autrici come l’americana di origine italo-cubana Amy Bravo, la tedesca Bettina Hutschek o la cilena Cecilia Vicuña, non delineano un percorso coeso all’interno del tema. Benché alcune di queste autrici siano state invitate con progetti commissionati dalla Biennale stessa, dalle opere e dai testi di sala non si evince un legame che possa essere identificabile come un “punto di partenza” coerente con la centralità del Mediterraneo, titolo della rassegna. Inoltre, l’invito è stato esteso ad autrici la cui provenienza è ben lontana dal Mare Nostrum, ignorando totalmente la presenza di artiste che vivono “sul lato opposto”. Maghreb, Tunisia, Egitto… Paesi che si affacciano sicuramente più dell’Inghilterra sul Mar Mediterraneo, il cui sguardo femminile è stato totalmente escluso e non considerato. Un’assenza che risulta ancora più “rumorosa” in questo un delicato momento storico. Una scelta lontana dal concetto di sorellanza, ma anche solamente di network che l’arte offre. Accogliere tutto il bacino del Mediterraneo avrebbe creato una contrapposizione costruttiva e pacifica verso chi crede ancora nei confini e chi vede nel gesto di violenza una soluzione, senza riflettere sul fatto che l’odio può solo generare altro l’odio.
Un’occasione persa che spero possa essere anche spunto di riflessione per gli organizzatori ma, soprattutto, per il futuro dei MatriArchives. Ripeto, idea necessaria, ma forse da riprendere con maggior coerenza, anche per la stessa Biennale di Malta.

Alessia Locatelli

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