L’arte deve tornare a fare i conti con la realtà?

Sempre più lontana da ciò che le accade attorno, l’arte trova nel dolore uno strumento di spettacolarizzazione, non di osservazione, della realtà. Come riportare il tutto in equilibrio?

Diderot disprezzava quegli artisti che si recavano al Louvre per imparare a dipingere la compassione, la devozione, la penitenza, il raccoglimento, il dramma. Raccomandava loro di andare nelle strade a cercare la pietà, le passioni, la vita e la morte. Distingueva così tra un realismo idealista e un materialismo pagano e razionale.
In altre parole, per molti artisti “contemporanei” l’apprendimento (per seguire Diderot) accade nelle grandi rassegne artistiche e altre manifestazioni istituzionali, giusto per capire l’aria che tira e adeguarsi. Per altri accade nella strada, con il proprio corpo (Francis Alÿs, Jeremy Deller o Adrian Paci, ad esempio). Questo pensiero è stato colto dalla critica d’arte Teresa Macrì con queste parole: “L’arte probabilmente può reinterpretare il mondo solo affermandosi come corpo comunitario dissidente, abbandonando lo status negoziale che la irreggimenta […] rioccupando un’utopia”. Si tratta di una visione critica che sopprime l’immagine dell’arte come cornice estetica dei problemi sociali, per scovare la menzogna e la violenza che ne sono alla base.

Infografica © Artribune Magazine

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ARTE, CORPO E POLITICA

D’altra parte la spoliticizzazione dell’arte degli ultimi decenni conferma questa tendenza, alla cui base sta l’idée fixe della “fine delle ideologie”. “L’avanguardia è morta”, gridavano entusiasti appena ieri molti conservatori e critici. Un’espressione che richiama alla mente il motto divenuto manifesto della restauratrice neoliberista Margaret Thatcher, che recita: “Non c’è alternativa”. Ecco un punto da cui ripartire: riscattare l’alternativa di un’arte che si faccia “corpo comunitario dissidente”. Si tratta ancora di marcare ulteriormente la distinzione tra la museificazione del dolore o la sua estetizzazione e le poetiche dell’azione e della relazione, nell’accezione di Édouard Glissant o di Jean-Jacques Lebel, dove il corpo in quanto azione diventa un dispositivo di connessione, uno strumento di fusione e un luogo di resistenza.
In fondo è lo stesso corpo comunitario che animava la scrittura di Genet, per il quale non vi è dissidenza, resistenza o rivoluzione senza la messa in gioco del corpo. Lo ha detto con enfasi Aimé Césaire a proposito di Lautréamont: “È tempo ormai di far luce sullo scandalo che suscitò la pubblicazione dei Canti di Maldoror. Mostruosità? Meteora letteraria? Il delirio di un’immaginazione malata? La verità è che Lautréamont ha semplicemente guardato dritto negli occhi l’uomo di ferro forgiato dalla società capitalista, per cogliere il mostro, il mostro quotidiano, il suo eroe”.
Se esibire la morte è ciò che fa il nemico, allora l’arte la rinfaccia tale e quale a chi questa morte la produce. Ecco la questione di fondo: il dolore, l’offesa, lo sfruttamento non sono sostituibili con i segni dell’arte appresi nelle gallerie, come affermava Diderot. A meno che l’arte non si faccia essa stessa trasfigurazione o incarnazione del dolore, opposizione mostruosa di fronte alla mostruosità del capitale. L’attualità di Lautréamont sta nel fatto che la bellezza – puro significante, vuoto a perdere – non salverà il mondo dalle sue brutture, cantilena che da anni ci viene rifilata, occultando con la magia di questa parola i responsabili di queste stesse brutture e ingiustizie.

“Se esibire la morte è ciò che fa il nemico, allora l’arte la rinfaccia tale e quale a chi questa morte la produce”.

Richard Sennett ricorda che l’Esposizione Universale del 1900 a Parigi fu all’insegna del trionfo dell’industria e dell’impero. Ma in una stradina vicino ai giardini del Champ-de-Mars, luogo dell’esposizione, un’organizzazione operaia aveva fatto una contro-esposizione dove era mostrato a quale prezzo il capitalismo aveva ottenuto i suoi bei prodotti – tute lacerate, indumenti sporchi di sangue, corpi esausti, sfruttamento minorile, condizioni di vita disumane. Tutta una topografia della povertà e dello sfruttamento che contraddiceva la magnificenza dell’Esposizione Universale. Si trattava di dire la verità, non soltanto al capitale, ma allo spettatore. Spettacolo del dolore e miseria reale: sta in questa concreta distinzione il nucleo di conoscenza dell’arte di cui parlava Diderot.
Spesso il dramma della miseria è preceduto dallo psicodramma di quegli artisti che sfruttano il dolore degli altri nella scalata al successo. In fondo, lo sfruttamento del dolore da parte dell’artista equivale allo sfruttamento del capitalista nei confronti del corpo degli altri. Si risparmia il costo dell’azione.

Marcello Faletra

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #68

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Marcello Faletra

Marcello Faletra

Marcello Faletra è saggista, artista e autore di numerosi articoli e saggi prevalentemente incentrati sulla critica d’arte, l’estetica e la teoria critica dell’immagine. Tra le sue pubblicazioni: “Dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell’arte contemporanea” (Solfanelli, 2009); “Graffiti. Poetiche della…

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