Arte e piacere estetico: impariamo meglio di fronte a qualcosa di bello?

Un recente studio ha dimostrato per la prima volta la correlazione fra conoscenza e piacere estetico. Ma qual è il ruolo dell’arte in questa cornice?

È stata presentata una ricerca realizzata dal Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino, in collaborazione con il Dipartimento di Economia di Harvard, che ha dimostrato per la prima volta che c’è un legame profondo tra la nostra capacità di imparare e l’emozione che ci dà il bello. Lo studio è stato pubblicato dalla rivista scientifica internazionale Journal of Experimental Psychology. L’ipotesi dell’esistenza di una correlazione positiva fra piacere estetico e conoscenza, pur avendo accompagnato la ricerca artistica da sempre, non era mai stata ancora dimostrata empiricamente.
Lo spunto di questo studio potrebbe aiutarci a tornare a riflettere sull’arte ‒ fuori da schematismi e tendenze, da distinzioni linguistiche consolidate dalla storia dell’arte ‒ per continuare una pratica e una sperimentazione che sembrano marcatamente affievolirsi negli ultimi tempi.

CORPO, TATTO, EMOZIONE

Per dirlo troppo in fretta, quello che serve è ripartire dalle Grotte di Lascaux e anche oltre. Infatti, già i più lontani esempi di arte rupestre dell’essere umano risalenti ad almeno 40mila anni fa possono segnalarci il lungo cammino percorso dal nostro sistema nervoso per acquisire nuove conoscenze sensoriali e aiutarci a comprendere le motivazioni dell’individuo a cercare stimoli nell’arte. Ricordiamo l’uomo, nel buio di una caverna, che poggia una mano su una parete della roccia e con l’altra impugna uno spuntone di carbone per segnare un grande bovino dal corpo grosso e piccole, corte zampe. Lo stesso uomo soffia della polvere colorata intorno alla mano fissata in quella superficie irregolare per contemplare poi, sollevandola, l’impronta chiara circondata dal pulviscolo d’ocra o di carbone.
In quelle gallerie d’arte preistoriche si svelava all’origine il legame strettissimo tra arte e vita. Oltre a venire illustrato il di-segno che sperimentava alla base della gerarchia sensoriale della realizzazione il primato sulla “vista” del “tatto” ‒ il solo senso che sia indispensabile all’esistenza del vivente e di cui Aristotele si domandava se il tatto fosse più sensi o un senso solo, quale fosse il sensorio proprio della facoltà tattile.
Il filo del discorso, nel suo avvolgersi, ruotare, raggomitolarsi si gioca dall’inizio alla fine sulle metonimie del “contattare”, come lo stesso filosofo Jacques Derrida ha voluto sottolineare all’amico-discepolo Jean-Luc Nancy, autore di Corpus. Il corpo, appunto, dell’individuo deve “toccare” un altro per provare la propria esistenza. Il farsi-spazio, il farsi-largo dei corpi attraverso il con-tatto permette di gravarsi di nuovi pesi: quello dell’e-mozione, come il muoversi verso, fuori di sé, comune a tutti i corpi.

Jacques Lacan

Jacques Lacan

PIACERE ESTETICO E PARTECIPAZIONE

L’emozione positiva che proviamo quando siamo in contatto con qualcosa che ci piace, da sempre non esiste che secondo questa materia. Ed è ciò che continua a dare la spinta anche nei luoghi odierni dell’umanità per lo sviluppo di nuove forme di comunicazione di esperienze tra miliardi di corpi che si mischiano e si confondono, aiutando il nostro cervello ad acquisire nuove informazioni dall’ambiente sensoriale.
Questo è un punto molto delicato anche nella filosofia del francese Jean-Luc Nancy. Piacere e desiderio (estetico) aprono alla questione della methexis, ‘partecipazione’, e alla necessaria compartecipazione di mimesis, ‘imitazione’, e methexis. Afferma infatti Nancy: “Nessuna mimesis senza methexis – a meno che non sia solo copia, riproduzione: ecco il principio”. Methexis è la tensione desiderante che mobilita la partecipazione emotiva all’immagine, per cui “le estetiche senza principio di piacere rischiano sempre di voler essere mimesis di idee pure, conformità a nozioni prive di emozione”.
Questa è l’idea dell’arte partecipativa che ha attraversato tutto il XX secolo in continuo divenire anche ai giorni nostri. Setacciare a maglie larghe la relazione che si è intrecciata nell’Arte del passato tra emozione ed esperienza ci racconta soprattutto quali e quanti mezzi e materiali siano stati progettati proprio per espandere l’arte fuori dall’autorialità dell’artista, al fine di incitare, provocare il corpo dello spettatore, per il suo coinvolgimento immersivo nell’opera, talvolta con l’idea di costruire una diversa organizzazione sociale.
Proprio all’inizio del XX secolo possiamo già raccogliere le tante tracce della fine dell’oggettualità nell’arte e della presunta esistenza dell’opera come elemento autonomo. Ed è proprio da questo magma di esperienze che provano a esperire l’opera come processo, come qualcosa che accade, un evento, una sequenza di eventi (imprevisti) ‒ come la vita ‒ che potremo distinguere gli embrioni che nel corso del tempo emanciperanno il corpo della fruizione, da uno stato di passività, lungamente costretto, per iniziare a occupare finalmente un ruolo attivo. Liberando lo stesso artista dagli eccessi di una superfetazione dell’io, da un egocentrismo esasperato.

IL PUNTO DI VISTA DI CLAIRE BISHOP

Inferni Artificiali di Claire Bishop ‒ storica dell’arte e una delle teoriche centrali della partecipazione all’arte visiva e alla performance ‒ ci permette di andare al cuore della questione, offrendo davvero una molteplicità di dati su una griglia analitica focalizzata in tre momenti di fervore rivoluzionario: il 1917, il 1968 e il 1989. In questi tre snodi storico-teorici, così come ricostruiti nel libro, i progetti artistici in Europa, Russia, America del Sud miranti a coinvolgere attivamente il corpo del pubblico si muovono in disparate modalità e significati, scomponendo la categoria della spettatorialità e indicando nuove direzioni per fare dell’arte una parte più vitale dell’esistenza, in una società attraversata da profondi cambiamenti.
Il particolare interesse nel mettere a fuoco le avanguardie storiche e gli altri movimenti di questa mappatura dell’arte partecipativa elaborata dalla Bishop innesca la nostra scrittura su alcune preoccupazioni dell’autrice proprio nell’individuazione delle tensioni che governano il rapporto estetica-politica.
Sul punto la stessa Bishop è molto vicina a un filosofo attento alle arti e all’estetica che è Jacques Rancière, allievo di Louis Althusser, il cui “regime estetico” implica precisamente: una tensione e una confusione tra autonomia (il desiderio che ha l’arte di essere estranea a relazioni finalizzate a uno scopo) ed eteronomia (cioè la confusione tra arte e vita).
La possibilità di un’arte partecipativa risiede quindi nell’emancipazione e nella fuoriuscita dalle opposizioni (autore/spettatore, attivo/passivo, individuale/collettivo, vita reale/arte) che regolano le forme di ricezione, al di là delle intenzioni e dei prodotti dell’artista, per favorire un irriducibile atto di dissenso ‒ vero nodo della proposta rancieriana ‒ che sia costruzione di un imprevedibile “orizzonte del comune”.
Ripetiamo dunque ciò che sembra dalla Bishop acquisito: l’estetico si sovrappone al politico e le trame emozionali dirette o no dall’artista sono veicolo indispensabile per tessere relazioni intersoggettive con la partecipazione esperienziale dello spettatore e districare un più complesso nodo di questioni sociali e conoscenza del reale.

Yayoi Kusama, Anti War naked happening and flag burning on the Brooklyn Bridge, 1968 © Yayoi Kusama

Yayoi Kusama, Anti War naked happening and flag burning on the Brooklyn Bridge, 1968 © Yayoi Kusama

RIFIUTO DELL’AUTOCENSURA E COINVOLGIMENTO DELLO SPETTATORE

Questa successione sintetica di riflessioni nel nostro sguardo analitico sul legame tra estetica e apprendimento, partendo dallo studio dell’Università di Torino, ci sta conducendo ad approfondire lo stesso legame tra espressione e comprensione riguardo all’arte come prodotto spettacolare, messo in scena da artisti che non si autocensurano a favore di pratiche pedagogiche o giudizi morali, per coinvolgere spettatori non più ignari ma sovvertitori attivi del proprio tempo.
Jacques Lacan, autorevole psicoanalista, psichiatra e filosofo francese, ripreso poi da Rancière, definiva questo il “piacere difficile”. Si potrebbe allargare la tesi di Lacan e suggerire che le forme più avanzate della pratica artistica di oggi derivano dalla necessità di ripensare le connessioni tra l’individuale e il collettivo lungo queste linee di piacere “difficile”, piuttosto che conformarsi all’autocensura dell’obbligo estetico di talune convenzioni sociali.
Dalla Psiche di Aristotele alla Methexis di Nancy, al Regime Estetico di Rancière, al Piacere Difficile di Lacan, la movenza, il cammino del pensiero, si dipana alla ricerca del senso del tatto, della consistenza del corpo per vivere hic et nunc in un sempre nuovo mondo sensibile che già nella sperimentazione e nella pratica artistica hanno aiutato ad accrescere la consapevolezza delle condizioni strutturali dell’esistenza quotidiana degli individui, stimolando altre sensibilità, altri saperi per far emergere un autentico potenziale creativo o per immaginare alternative utopiche nella promessa dell’arte di un mondo migliore.

Sergio Mario Illuminato

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Sergio Mario Illuminato

Sergio Mario Illuminato

Nato a Catania, attualmente vive a Roma. Corso di Diploma Accademico Biennale di II Livello, Arti Visive, Accademia di Belle Arti di Roma. Corso certificato di Arte Contemporanea del MoMA di New York. Laurea in Lettere e Filosofia, indirizzo Teatro…

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