La vita fantasma. I luoghi dell’inquietudine dipinti da Marta Volontè

Non lasciano speranza le città dipinte da Marta Volontè, inducendo chi le osserva a smarrirsi e a ragionare sull’apocalisse ambientale causata dall’uomo. Nuova tappa del viaggio proposto da Luca Cantore D’Amore alla scoperta di opere d’arte coerenti con il tempo in cui stiamo vivendo.

Ho sempre trovato commovente e sbalorditivo il modo in cui, a causa dell’arte, per colpa di questa potentissima passione insomma, ci si possa imbattere nelle cose belle, in maniera del tutto imprevista. E, ancora, di quanto riescano a essere contemporanei alcuni artisti nel descrivere il nostro tempo, i nostri giorni, i nostri piccoli e grandi drammi: specialmente se inconsapevolmente anticipatori di una catastrofe come quella in atto a causa delle urgenze del Coronavirus. Fu per caso, infatti, che, in quello che sembrava un pomeriggio qualsiasi, un giorno, a Milano, sono inciampato in Marta Volontè (Milano, 1997). Ricordo che, per prima cosa, quel pomeriggio, mi trovai subito a rotolare, tecnicamente, non nella sua conoscenza fisica ‒ quella avvenne solo qualche giorno a seguire ‒ ma, al contrario, mi ritrovai emotivamente a sbucciarmi le ginocchia, in maniera irrisolvibile e dilaniante, su uno dei suoi marciapiedi in cemento e olio su tela che, poi, rimasi a osservare a lungo. Mi sembrava di sentire tutto il dolore fisico della ferita e, soprattutto, contemplando le sue opere, sentivo che, in quel momento, mentre ero contorto su una delle sue strade, accartocciato sul ciglio del marciapiede, nessuno ‒ dico: nessuno ‒ avrebbe potuto aiutarmi: tirarmi su, tendermi una mano per rialzarmi, porgermi un fazzoletto. Le strade, la città, tutta attorno a me, erano assolutamente desolate. Il sangue continuò a sgorgare per un po’ e, a un certo punto, iniziò a confondersi, a miscelarsi, con la materia, liquida e corposa, della sua pittura. Io diventai parte del quadro: come nel film di Vincent Ward Al di là dei sogni, solo con dei toni molto meno rassicuranti e consolatori.
Ero dentro il quadro, ed ero l’unico ad esserci. Ero assorbito. Solo. Quella di Marta Volontè, infatti, iniziai a ragionare, è uno dei rarissimi esempi di pittura grazie a cui è possibile intercettare l’esperienza immersiva in modo totalmente soddisfacente, per quanto angoscioso, nonostante le costantemente ridotte dimensioni delle sue opere.

Marta Volontè, Mixedmedia, 2018

Marta Volontè, Mixedmedia, 2018

LE CITTÀ DIPINTE DA MARTA VOLONTÈ

Benché non sia attraverso il banale sovradimensionamento della tela che questo avvenga, infatti, ricordo che mi trovai a riflettere su quanto, in effetti, fosse proprio la sensazione di perdizione nei confronti della sua materia a catalizzare i miei occhi e a fare in modo che si miscelassero con la composizione. La serie di dipinti di Marta Volontè denominata Urbe Angusta, da quel giorno, è rimasta ‒ e ancora oggi è ‒ una delle cose, in definitiva, che mi hanno maggiormente colpito tra le tante, tantissime, cose che mi è capitato di osservare durante la mia professione da critico d’arte.
Le città di Marta Volontè, le sue prospettive, gli scorci che ci regala e che ci nega, sono il posto di maggiore alienante disperazione in cui io sia mai stato in tutta la mia vita. Capaci, ogni giorno, tutti i giorni, da quel giorno, di sorprendermi con la loro rinnovata inquietudine, regalano a me stesso il piacere dell’oppressione, dell’asfissia, del rapportarmi con coinvolgimento e distacco a un mondo avvilito, che pure esiste, ma che, allo stesso tempo, sarebbe difficilissimo da apprezzare ‒ a causa della sua infelicità endemica ‒ se non grazie a una maestria, a un tormento, a un coraggio, a un trasporto emotivo così ben trasmesso da Marta Volontè che lo rende, per me, come una dose di eroina necessaria da autosomministrarmi, quotidianamente, per capire qualcosa in più della vita.
Si tende, infatti, a nascondere il brutto che ci orbita attorno. Si tende, nelle discipline artistiche, a far finta che non esista. Tendiamo a evidenziare e sottolineare solo ciò che ci catapulti in una dimensione di festosità che ci faccia dimenticare di essere soli. Ma, da Mario Sironi in poi, se fatto con maestria, tutto è cambiato. Si riesce a provare quello che i tedeschi chiamano Einfuhlung (ovvero il rapporto empatico nei confronti di un’opera d’arte) anche nella dimensione dello scomodo, del tortuoso, dell’addolorato. E, a proposito di tutti questi sentimenti, e, soprattutto, a proposito di terra crucca, sembra essere proprio lì che Marta Volontè affondi le proprie radici estetiche. Nelle sue prospettive vertiginose, non tanto per composizione formale, quanto per sensazione visiva ed emotiva, c’è l’eredità de I ragazzi dello zoo di Berlino, de Il cielo sopra Berlino, ma, spostandoci un po’ altrove, anche di Arancia Meccanica, della parte senza uomini di Koyaanisqatsi e, perché no, delle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke: in una ricerca, ben riuscita, nonostante tutto scovata, di una poesia, di un’armonia, che, malgrado il tormento e l’inquietudine delle tele di Marta Volontè, le tiene assolutamente tutte in piedi con una imponderata dolcezza e una inaspettata armonia sotterranea, è vero, ma necessaria alla gioia: alla felicità di essere tristi, insomma.

L’APOCALISSE UMANA NELLE OPERE DI MARTA VOLONTÈ

Non vi sono uomini, nelle sue tele. La Urbe Angusta dagli stessi uomini inevitabilmente costruita, eretta e messa in piedi, è come se li punisse escludendoli deliberatamente. La creazione della periferia meccanica degli esseri umani, i posti senza poesia e avvilenti che hanno creato, sono diventati non più semplici luoghi geografici ma, anche, se non soprattutto, mostri giganti, macchine impietose e imperfette, avversari con un’anima sovrabbondante che non si può più sconfiggere.
In un inconscio risultato “postmetafisico”, Marta Volontè non presuppone lo spazio per gli uomini come in un moto dechirichiano senza speranza; ma, oltretutto, a differenza di de Chirico, non presta il fianco alla malinconia. I suoi posti sono senza malinconia: non c’è spazio neanche per quella. C’è solo spazio per l’assenza di spazio, per l’assenza di tempo, di prospettive esistenziali, di speranza. La sua Urbe Angusta fagocita, mangia, divora, digerisce senza difficoltà ogni eventuale presenza umana. Non le lascia né spazio, né scampo. Con indifferente forza brutale ‒ o, forse, meglio, brutalista: come mossa da un atteggiamento dittatoriale sovietico o da Corea del Nord ‒ non ci invita, ma ci impone, di assumerci le nostre responsabilità per lo scempio, il disastro, la tragedia urbana a cui abbiamo dato vita e che, adesso, non si può più controllare. Cammina da sola verso l’irrecuperabile. E mastica tutto ciò che incontra senza sputarne neanche le ossa. Sembra che sappia già tutto di noi, che ci guardi dall’alto tutti: come in un più drammatico Truman Show, in cui, il colpevole, il dittatore, il controllore infame non è uno soltanto (come nel film accade), ma siamo tutti. Tutti vittime e carnefici del turpe e sordido scenario post apocalittico a cui abbiamo dato vita senza, per altro, l’alibi, la scusa, l’attenuante, di un’apocalisse. Siamo noi l’apocalisse di noi stessi, ci dice Marta Volontè con la sua Urbe Angusta.
Essa, la Urbe, aspetta di vederci per strada per fulminarci dall’alto dei suoi palazzi, delle sue antenne oscene, dei suoi balconi scalcinati, delle sue finestrelle che guardano su altre finestrelle, dei suoi tralicci che non conducono in campagna ma nei sotterranei dell’umanità, nelle viscere squallide del mondo, nei suoi campi pieni di cemento che possono dare vita solo ad altro cemento; come nel meraviglioso film Parasite del 2019.

Marta Volontè, Dramma, 2018

Marta Volontè, Dramma, 2018

L’IMPORTANZA DELLO SMARRIMENTO

Ci possono essere, probabilmente, è vero, situazioni puntuali in cui potrebbero germogliare piccole meraviglie relazionali come accade, ad esempio, nel film di Ettore Scola Una giornata particolare che prevede il rifulgere di un inconsueto amore in uno scenario ostile di un condominio di cemento, travi sgangherate e perdizione, ma sono troppo poche e non apparterrebbero a niente. La cosa più grave, infatti, è che non si appartiene a nulla nei luoghi di Marta Volontè. Le lande desolate e i deserti di solitudini, pieni ‒ come un porta aghi ‒ solo di loro stessi, sarebbero pronte a massacrare anche questi “sparuti e incostanti sprazzi di bellezza”, come direbbe Paolo Sorrentino. Non una voce di ragazzino che gioca a calcio, non una automobile che transita, non un calpestio lontano, non una locomotiva né che viene o anche solo che se ne va. Lontano: come sarebbe comprensibile fare. Solo vento, cemento, rumore assordante di vapori che provengono da lontano ma anche da dentro e rumori di ferraglia e ruggine esistenziale. L’architetto Sant’Elia fu un santo a confronto dei progetti della meravigliosa e inquieta Marta Volontè. La quale, per me, fatta pure la sua conoscenza qualche giorno dopo (come preannunciato), da quel pomeriggio in cui mi sbucciai le ginocchia, nonostante tutto il dolore e l’angoscia interna, rimane, prim’ancora che una persona, un luogo affascinante e tormentoso in cui, paradossalmente, è e sarà bellissimo rifugiarsi tutti i giorni: in questi luoghi di smarrimento, necessari all’anima per non smarrirsi.

Luca Cantore D’Amore

https://martavolonte.com/

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La vita fantasma. Un viaggio emotivo nel segno dell’arte
La vita fantasma. Munch e i luoghi della dolce inquietudine
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La vita fantasma. Giorgio Morandi e la scelta della solitudine

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Luca Cantore D'Amore

Luca Cantore D'Amore

Luca Cantore D’Amore (Salerno, 1991) consegue tre corone d’alloro: in Architettura d’interni e Interior Design, al Politecnico di Milano, e in Storia dell’Arte. Si occupa di storia e critica dell’arte, scrivendo articoli di giornale, testi per riviste di settore e…

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