“Le mie tele sono un po’ come Giano. Una parte guarda al futuro, l’altra al passato”, afferma Giorgio Griffa (Torino, 1936). Il primo elemento che si scorge sono i numeri. Grandi e piccoli. Rotondi, un po’ storti. Spesso accompagnati da segni di vari dimensioni, riflettono la vita dell’artista e gli scritti di Matisse – un riferimento costante nell’arte di Griffa. Subito dopo appaiono i colori. Le grandi tele, lavorate a terra, richiamano il gesto di Pollock e i numeri di Roman Opalka. Ricordano le sacre spiagge degli aborigeni australiani coperte da simboli astratti tracciati al chiaro di luna tra le pietre rosse e le piccole sorgenti d’acqua. “La mostra romana è molto particolare”, spiega Griffa. “Ho creato le nuove opere rifacendomi alle mie tele degli anni precedenti. L’effetto è sorprendente”. Resta un mistero l’opera che l’artista porterà alla prossima Biennale di Venezia. “Non ho fatto nulla di particolare. Spero che al pubblico piacerà”, dice sorridendo.
– Anita Kwestorowska