A Milano lo spettacolo teatrale su La morte a Venezia di Liv Ferracchiati
Al Teatro Studio di Milano è in scena lo spettacolo che il regista-drammaturgo-interprete Liv Ferracchiati ha creato a partire dall’omonimo romanzo di Thomas Mann: un’ora di intelligenza sublime

“In questa città si può versare una lacrima in diverse occasioni. Posto che la bellezza sia una particolare distribuzione della luce, quella più congeniale alla retina, una lacrima è il modo in cui la retina – come la lacrima stessa – ammette la propria incapacità di trattenere la bellezza.” Iosif Brodskij.
Lo spettacolo al Piccolo di Milano
Fino al 25 maggio 2025, al Teatro Studio Melato del Piccolo di Milano, Liv Ferracchiati presenta un’opera che è molto più di una messinscena teatrale: è un’esperienza sensoriale e intellettuale da vivere tutta d’un fiato. Non un adattamento ma una creazione libera, ispirata a La morte a Venezia di Thomas Mann, della quale mantiene la tensione profonda tra eros e morte, tra impulso creativo e disfacimento e, soprattutto, tra sguardo e relazione.
Di cosa parla il romanzo di Thomas Mann
Il romanzo La morte a Venezia di Mann narra la storia di Gustav von Aschenbach, uno scrittore famoso, disciplinato e inaridito, che decide di concedersi una vacanza nella luce non diafana di Venezia. Lì, nella hall dell’hotel in cui soggiorna, incontra Tadzio, un giovane adolescente dall’inafferrabile bellezza. Per Aschenbach, Tadzio diventa dramma esistenziale e crisi intellettuale, simbolo vivente della perfezione che sfugge alla forma.
Il desiderio di contemplarlo lo spinge a restare in città, nonostante l’epidemia di colera che la attraversa. Alla fine, incapace di sottrarsi a quella visione che lo consuma, lo scrittore muore solo, su una sedia, in spiaggia, “fissando”, con la morte, ancora una volta il ragazzo e la sua bellezza.

Com’è lo spettacolo di Liv Ferracchiati
Nella pièce di Ferracchiati, l’incontro fra Aschenbach e Tadzio perde significati connessi all’omoerotismo o alla senescenza dell’intellettuale: si fa invece metafora dell’incontro fra l’intellettuale maturo e la bellezza sauvage, naturale, rivivificando la dialettica tra bello d’arte e bellezza naturale. Due mondi che si sfiorano senza parlarsi, due polarità che visitano insieme “un mondo sconosciuto a entrambi”. È lì che nasce la domanda sospesa: “Lo vedevi che ti guardavo?”. Lo sguardo è il vero centro della scena: quello dell’artista, quello del fruitore e quello che li unisce in una relazione potente e creativa, come in Merleau-Ponty.
In scena, sul palcoscenico del Piccolo, recita sempre una macchina fotografica su un cavalletto, simbolo dell’occhio che cerca di trattenere l’istante di fermare la bellezza per poterla raggiungere e possedere. Essa, infatti, non si lascia provvedere dai viventi ma, col finale di Thomas Mann, viene attinta soltanto nel momento della morte. L’incontro tra l’intellettuale vivente e la bellezza è assai più tragico della morte stessa. La bellezza, nelle forme indefinite dell’adolescenza di Tadzio, umilia l’intellettuale, il fruitore dello scacco estetico totale, violentandolo, proprio come ha fatto in scena, sulla poltrona dell’“estetista”. Le immagini proiettate su tele rimandano all’estetica concettuale di Daniel Buren, i video citano le composizioni visionarie di Pipilotti Rist e i colori ricordano l’universo pop e femminile di Sylvie Fleury. L’effetto è una partitura visiva ipnotica, stratificata, in cui parola, suono e immagine si compenetrano con naturalezza vertiginosa.
Si parla di arte, di scrittura, della difficoltà di creare quando ogni gesto sembra inutile – e di quei momenti rari, terribili e luminosi in cui qualcosa si apre, in cui si vede davvero. Il tempo, in scena, si dilata: una canzone di Mina sembra non finire mai, come una nota che si ostina a restare, mentre un’eco lontana del Don Carlos di Schiller – l’aria Dormirò solo, di verdiana memoria – accompagna la consunzione silenziosa dello scrittore-personaggio-artista.
E poi, il finale. La lacrima di Francesco Vezzoli – icona del dolore estetico che collassa – diventa anche nostra. Perché quella visione, come scrive ancora Brodskij, “punisce con cento minimi sprazzi la torbida pupilla con l’ansia di fissare nel ricordo questo paesaggio, capace di fare a meno di me”. È questo, in fondo, il destino dell’artista: sapere che la bellezza continua, anche quando lui muore per cercare di fermarla e possederla.
Le qualità dello spettacolo di Liv Ferracchiati
Questa pièce non si guarda: si attraversa. Come un paesaggio che muta con la luce, come uno sguardo che non si riesce a ricambiare, come un’immagine che scompare mentre si tenta di afferrarla. Centrata, misurata ed estremamente efficace, l’azione performativa di Alice Raffaelli che ha dato forma e immagine ai pensieri e ai concetti che il drammaturgo – e anche interprete – ha tratto dall’opera di Mann.
Di tutto resta la grandiosità del gesto fotografico assoluto: fissare l’occhio, congelare l’istante, morire per fermare l’eterno e amorfo divenire della bellezza. Un’ora di intelligenza sublime che vale una vita di emozione.
Giuseppe Simone Modeo
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