Le vite di Tiresia ai tempi del lockdown sul palcoscenico di Roma

La regista Giorgina Pi mette in scena una rivisitazione di Tiresia, mitologico veggente che, sul palcoscenico di Roma, chiama in causa passato e futuro.

Il festival di fine estate Short Theatre ha inaugurato a Roma una insperata quindicesima edizione in tempi di Coronavirus con Tiresias, appunti dalla vita di adesso, un lavoro teatrale di Giorgina Pi (che ha esordito al festival Da vicino nessuno è normale e che in ottobre si potrà rivedere ancora a Roma all’Angelo Mai dal 23 al 25 ottobre) in cui la regista, con il suo gruppo Bluemotion e con l’attore Gabriele Portoghese, rielabora un monologo a più voci sul mitico profeta. Il testo cui hanno lavorato è quello scritto dalla musicista -poetessa -drammaturga e performer pluripremiata britannica Kate Tempest e contenuto nella raccolta Hold Your Own, successo editoriale tradotto da Riccardo Duranti e pubblicato nel 2018 in Italia da e/o col titolo  Resta te stessa.
Nella raccolta la poetessa racconta la storia di una sé stessa metamorfica come Tiresia, parente prossima di quello già cantato da Eliot nella sua Waste Land, il veggente-poeta con sette vite che abita le desolate metropoli moderne.

IL MITO DI TIRESIA

Traendo quindi spunto da un mito tanto arcaico quanto caro alla letteratura, Gabriele Portoghese, davanti allo sfondo minimale di un albero del campetto del WeGIL e usando un semplice tavolo con piatti da DJ, narra le vite di Tiresia contemporaneo, usando il suo giovane e metamorfico fisico che in scena esalta meglio l’incertezza di genere di un adolescente piuttosto che la secchezza cadente di un povero e vecchio cieco.
Scriveva Eliot, riprendendo una frase di Dickens  (tagliata dal suo amico Ezra Pound, a cui il poeta aveva chiesto di correggere il poemetto), “He Do the Police In Different Voices“, indicando la pluralità vocale a cui affidare il canto – scritto  in cinque parti come una sinfonia – del suo alter ego Tiresia: in apertura dello spettacolo si ascolta infatti, come  è scritto in The Waste Land, il preludio del Tristano e Isotta di Wagner, paradigma sonoro dell’incanto amoroso già accennato anche dal sommo poeta modernista. Con un rimando esplicito a quei versi, la regia di Giorgina Pi affida quindi la narrazione, fin dall’inizio, a voci e lingue diverse registrate, che si alternano a quella dal vivo di Gabriele Portoghese e soprattutto a voci maschili e femminili che cantano, compresa quella stessa dell’attore in scena, che con grande versatilità continuamente cambia timbro vocale passando dalle frequenze più scure e rabbiose e quelle più acute, commoventi, quasi da sopranista.

Giorgina Pi, Tiresias, appunti dalla vita di adesso. Short Theatre, Roma 2020. Photo Claudia Pajewski

Giorgina Pi, Tiresias, appunti dalla vita di adesso. Short Theatre, Roma 2020. Photo Claudia Pajewski

CANTI DI IERI E DI OGGI

Gli fanno eco e si susseguono, dissolvendosi uno sull’altro, tanti canti diversi provenienti dai vinili alternati dallo stesso attore-disk jockey, le cui foderine recano impresse solo le grandi iniziali del nome di Tiresia: la musica attraversa velocemente il tempo e lo spazio,  sciogliendo la lirica di Wagner nel blues americano, alternandoli al Rebetiko di Markos Vamvakaris e di Néna Venetsánou, cantanti greci già in lotta contro la dittatura dei colonnelli, fino a un pezzo in cui lo stesso attore, imbracciando una bianca chitarra elettrica, si inerpica con perfetta agilità vocale negli acuti femminei di Joan Baez, o forse dei britannici Led Zeppelin, in un appassionante Babe I’m gonna leave you.
Questo nuovo Tiresia, la cui vicenda attraversa il femminile e maschile, e che ambedue comprende, vuole rappresentare una inquieta moltitudine che chiede di essere ascoltata e accolta. Le voci diverse cantano ciascuna le proprie differenze, siano esse di genere, di età, o di altre vite trascorse, alla ricerca di una identità che sia in grado di difendere sé stessa, come il profeta che è stato maschio e femmina, giovane e vecchio, che conosce la vergogna di un’adolescenza sofferta, ma anche la passione della maturità, e che sa ciò che da sempre è più oscuro e sconosciuto per un maschio, ovvero il mistero del piacere del corpo femminile.

L’IMPORTANZA DELLA COMUNITÀ

Pagando con la cecità il privilegio di conoscere e dire il vero, il veggente vive da sempre fino in fondo le sue forme diverse, con la capacità di guardare dentro alle cose della vita senza sfuggire alla loro verità: il suo grido finale arriva agli spettatori dagli occhi dell’attore, prima coperti da occhiali scuri, poi da croci fluorescenti, ed è come un lampo accompagnato da un’ultima voce, il tuono, la voce divina. Le sue parole che invitano al rispetto e alla compassione viaggiano come saette verso gli spettatori che siedono nei loro posti distanziati e sistemati in una platea che ricorda quella dei teatri greci, un semicerchio che si chiude in un perimetro di luci attorno all’attore. Mai come ora si ha bisogno di essere parte della comunità viva e reale di una platea, raccolti per quaranta minuti in un cerchio al centro del quale un attore canti agli astanti una storia antica che diventa famigliare.
In questo tempo che costringe milioni di persone ad assistere al diffondersi di una contaminazione globale, in cui si ha paura dell’altro anche se passa solo accanto troppo vicino, la voce del cieco veggente chiede che si rispetti nel suo corpo di vecchio quello che è stato nelle sue altre vite. Ma si sa anche che il suo destino è di non essere ascoltato né creduto: Danzeremo, c’è scritto in greco sulla maglietta dell’attore e sul flyer dello spettacolo, ma per ora è solo una speranza rivolta al futuro.

‒ Cristina Reggio

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Maria Cristina Reggio

Maria Cristina Reggio

Studiosa di arti visive e performative, vive a Roma. In passato ha collaborato come scenografa a diverse produzioni teatrali e cinematografiche e dal 1996 insegna Anatomia nelle Accademie di Belle Arti, con particolare attenzione alla corporeità nelle pratiche performative e…

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