Danza. La furia brasiliana di Lia Rodrigues

Al Romaeuropa Festival la coreografa Lia Rodrigues mette in scena uno spettacolo energico, selvaggio, tagliente, coniugando la danza contemporanea con la musica rituale della Nuova Caledonia. Un’estasi materiale attraverso la quale scavare in profondità nelle zone più fantastiche dell’immaginazione umana.

Emergono lentamente da una discarica. Vestiti di stracci colorati fanno affiorare frammenti di corpo trascinati e alzati lungo tutto il perimetro della scena. Inizia impercettibilmente una musica dal suono sempre più forte. Incalzante, ipnotica, dal ritmo percussivo. È il canto tradizionale Kanak della Nuova Caledonia, ripetuto in loop per tutto il tempo dello spettacolo. Dal fondo inizia una lunga camminata, una marcia di reietti sbucati da un mondo di povertà, gli oppressi e gli scartati dalla società. Da lì a poco si scatenerà la furia del titolo che Lia Rodrigues (classe 1956) ha dato alla sua ultima creazione: Furia, appunto (prima nazionale all’Auditorium Parco della Musica per il Romaeuropa Festival). Impegnata politicamente e socialmente, la coreografa brasiliana dirige una scuola di danza contemporanea, il Centro de Artes da Maré, da lei fondata all’interno di una delle più grandi favelas di Rio de Janeiro. E da lì non può non ergersi un grido di sofferenza, di rabbia, d’ingiustizia. Con i nove ballerini della sua compagnia, alcuni dei quali provenienti proprio dalla favela, Rodrigues mette in scena la brutalità della società, in specie quella brasiliana che, nel suo presidente Bolsonaro, esalta la violenza contro i più deboli. Un atto di denuncia esplicito che si manifesterà nel finale di spettacolo con i performer che alzano cartelli con scritte come: “Lo Stato brasiliano è un assassino”, “S.O.S. Amazzonia”, “Chi ha dato l’ordine di uccidere Marielle Franco?”, “Abbiamo bisogno di un mondo senza pregiudizi”.

Lia Rodrigues, Furia. Photo © Sammi Landweer

Lia Rodrigues, Furia. Photo © Sammi Landweer

GESTI RITUALI

Prima avremo visto prendere forma uno scomposto “tableau vivant”, un paesaggio carnale in perenne mutazione, una rappresentazione barocca di estetica povera e di corpi scossi e percussivi, voluttuosi, dipinti o denudati, con maschere indigene o con smorfie deformanti il volto. Sono corpi che, attingendo da gesti rituali, da formule magiche propiziatorie, si trasformano continuamente prendendo forme di uomini regali e di regine con corone in testa di cartone; assumono posture di animali e di figure spaventose digrignanti i denti o spalancando la bocca; compongono duetti smembrati, carri totemici e zattere umane in transito. Alternando sequenze corali ad altre solitarie o di gruppuscoli, i nove danzatori evocano dinamiche di potere e di sopraffazione tra bianchi e neri, di violenza e di soprusi, di dominio e sottomissione in quella terra delle mille razze e delle infinite tradizioni che è il Brasile. Il loro è un mix di allegria e dolore, di solitudine e complicità, di esuberanza e indolenza, di ribellione e di lotta, agganciato alla storia afrobrasiliana nel segno di una tribalità che si fa trance collettiva e che affonda le sue radici nel “candomblé”, quel fenomeno antropologico, oltre che religioso, derivato dalla commistione di due culture agli antipodi tra loro: quella tribale degli schiavi africani e quella cristiana degli europei.

Lia Rodrigues, Furia. Photo © Sammi Landweer

Lia Rodrigues, Furia. Photo © Sammi Landweer

SCUOTERE I SENSI

Definito un modello di “sincretismo tra un realismo magico ancestrale e la potenza espressiva di una cerimonia”, Furia, con la sua dirompente energia, scuote i sensi fino all’ultimo, fino a quel finale in cui un uomo con la testa coperta da una stoffa rossa, seduto sopra due corpi schiavizzati, spruzzando poi della vernice nera sul corpo di una donna, rivolgendosi al pubblico lancia invettive e blatera parole incomprensibili che sono un miscuglio di francese e di lingue autoctone. Dopo aver stretto in pugno un pezzo di “carne” spremendone il sangue, e ironizzato con posture provocatorie, salta in platea correndo fino a scomparire nel buio da dove si udrà in lontananza il suo canto.

Giuseppe Distefano

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Giuseppe Distefano

Giuseppe Distefano

Critico di teatro e di danza, fotogiornalista e photoeditor, fotografo di scena, ad ogni spettacolo coltiva la necessità di raccontare ciò a cui assiste, narrare ciò che accade in scena cercando di fornire il più possibile gli elementi per coinvolgere…

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