Théo Mercier & Steven Michel. Intervista ai Leoni d’argento della Biennale Danza di Venezia

Parola al duo che quest’anno si è aggiudicato il Leone d’argento alla Biennale Danza di Venezia.

Théo Mercier (Parigi, 1984) era forse noto a un pubblico di specialisti per opere d’arte capaci di riflettere sul presente, con ironia e poesia, attraverso rimasugli del quotidiano, maschere e suppellettili provenienti da tribù ed epoche lontane, collezioni di oggetti feticcio e remake di forme e materie archetipali. Un lavoro da collezionista che si accompagna a quello di artigiano, spesso in collaborazione con una troupe di scenografi. Le sue mostre hanno sempre titoli carichi di drammaturgia (Every stone should cry è l’ultima in ordine di tempo), come drammaturgico è il suo modello espositivo. Negli anni Mercier ha creato concerti, performance e poi anche spettacoli gran formato, di cui il terzo e penultimo, La fille du collectionneur, rientrava nel nostro best of del 2017. In anticipo sui tempi avevamo individuato in questo eclettico artista parigino e nel suo teatro onirico, noir e plastico un enfant prodige. Quest’anno infatti, con Steven Michel vince il Leone d’argento alla Biennale Danza di Venezia. Ancora più giovane, Steven Michel (Francia, 1986), danzatore sublime e coreografo, è forse più noto al pubblico italiano che lo ha visto in scena per Jan Martens, di cui è fedele collaboratore. Il loro primo e unico spettacolo come duo, Affordable solution for better living, porta in scena una figura umana in un presente caratterizzato dal modello Ikea. La riflessione politico-esistenziale, espletata con ironia da un testo per voce fuori campo, si accompagna a una dimensione perturbante e oscura. Nella seconda parte dello spettacolo l’anatomia scorticata della figura in scena si confronta con un design stereotipato: una collezione di mobili dà vita a quella che potrebbe apparire come una normale quotidianità e che cela invece un perverso gioco tra realtà e finzione. Tra salute atletica e malattia interiore, ironia e dramma, armonia e precarietà del movimento, il duo ci porta vicino all’umano e sempre più lontano, calati in un paesaggio di corpi, in cui il suono e gli oggetti contribuiscono alla coreografia e il corpo invece, a tratti, si fa scultura.

Théo Mercier & Steven Michel, photo Andrea Avezzù

Théo Mercier & Steven Michel, photo Andrea Avezzù

L’INTERVISTA

Théo, quando ho conosciuto il tuo lavoro per la scena, qualche anno fa, collaboravi con François Chaignaud per Radio Vinci Park e poi La fille du collectionneur. Oggi vinci un Leone d’argento con Steven Michel. Ami le collaborazioni, gli incontri. Come è avvenuto il vostro? Su quale terreno comune?
Théo Mercier: Era il 2016 presentavo una mostra al Museo d’arte contemporanea di Marsiglia, dal titolo The thrill is gone. Avevo invitato Steven, Marlene Saldana (performer poi in La fille du collectionneur) e Jonathan Drillet, che ha scritto i testi di questo spettacolo, a esibirsi in una performance durante il vernissage, immersi tra i visitatori. Steven teneva tra le braccia una scultura dall’apparenza fragile, dando l’impressione che la sopravvivenza della stessa dipendesse solo da lui. Dopo un’ora e mezza scivolava verso una partitura di movimento, mentre Marlene e Jonathan, mescolati al pubblico, commentavano, parlando più ad alta voce degli altri, le opere in scena e lo stato del mondo e della società attuali.
Ci siamo quindi incontrati intorno a un progetto sulla scultura e questo rapporto tra il corpo oggetto e l’oggetto vivo è qualcosa che abbiamo iniziato a sviluppare insieme.
Steven Michel: Il rapporto tra la visione e la percezione per creare illusioni spaziali e fisiche è un altro punto d’incontro.

Théo nasce come artista visivo. Le sue mostre hanno sempre titoli così poetici che fanno pensare a un approccio drammaturgico alla scultura. Allo stesso tempo nel tuo lavoro da coreografo, Steven, era già presente un certo rapporto al corpo come elemento sculturale…
T. M.: Lavoro da tempo sulla “statua mobile”, una forma di fisicità statica anche se in movimento. Tratto il corpo come una scultura organica e viva. Di Théo ho amato fin da subito il suo approcciare il museo come se fosse uno spazio scenico, attraverso una drammaturgia, un percorso coreografico tra le opere. Questo mettere insieme forme in movimento e forme sculturali.

Il corpo è dunque un elemento quasi oggettuale, mentre gli altri elementi della scena prendono la forma di un corpo in dialogo coreografico con il performer. Corpo, oggetti, suoni, luce, parola si installano in un sistema a-gerarchico: quale è la relazione tra queste materie?
T. M.: Sono tutte interdipendenti, strettamente legate l’una all’altra.
S. M.: Il rapporto oggetto-corpo subisce un’importante metamorfosi dalla prima alla seconda parte dello spettacolo. È come se la mia figura all’inizio rappresentasse un consumatore futuristico che abbia inghiottito un libretto d’istruzioni Ikea e digeritolo trasformandolo in un tutorial di wellness, in grado di guidare i suoi gesti quotidiani.
T. M.: Nella seconda parte l’oggetto esce dal corpo e riempie lo spazio circostante. Il sound design, che all’inizio si limitava ad amplificare i rumori provenienti dall’interno del corpo di Steven, nella seconda parte è veicolo di presenze, creando un vero paesaggio sonoro di matrice naturale. È il suono, ad esempio, a rappresentare gli uccelli che escono dall’armadio. Il suono diventa corpo, oggetto. In questa seconda parte i mobili hanno un impatto più forte sul personaggio, diventano motore di finzione e narrazione e si animano per agire sulla sua intimità.

Théo Mercier & Steven Michel, Affordable Solution for Better Living, photo Andrea Avezzù

Théo Mercier & Steven Michel, Affordable Solution for Better Living, photo Andrea Avezzù

Théo, cosa cerchi nei tuoi vai e vieni tra la scena e il white cube? C’è una ricerca comune?
Cerco lo spazio tra i due, ed è un processo in corso. Si è da poco conclusa una mia mostra al Musée de la Chasse a Parigi, Every stone should cry, in cui questo nodo è centrale: nella mostra il visitatore diventa attore e la mostra diventa paesaggio-ambiente.

Quale è il posto dell’umano in questo spettacolo? Questo individuo sulla scena quali possiede desideri e paure possiede?
T. M.: É attraversato da sentimenti e stati d’animo diversi a seconda della fase drammaturgica, e insieme a lui anche lo spettatore lo è. Anzi, è come se lo spettacolo contenesse in sé diversi spettacoli, quasi da poter pretendere diversi spettatori.

Questo principio era vero anche per La fille du collectionneur, come una collezione di spettacoli con un filo comune.
T. M.: In questo caso, però, la struttura rispecchia la logica commerciale della marca Ikea, basata sul principio dell’oggetto democratico: chiunque, ricco o povero, troverà soddisfazione ai propri bisogni grazie a Ikea. Lo stesso dovrebbe accadere con Affordable solution for better living.

Allo scopo “democratico” contribuisce anche il fatto che in scena vi sia una figura piuttosto che un personaggio: un dato di universalità che permette a ogni spettatore di riconoscersi.
T. M.: Un uomo-avatar: una figura della mascolinità in senso archetipale, il lavoratore in ottima salute, che poi lascia spazio a una specie di creatura animalesca, fragile e femminile, ossessionata dalla propria infanzia.
S. M.: L’uomo, attivo dell’inizio, ci porta al centro del concetto di Antropocene, a riflettere sull’impatto dell’uomo sul mondo. Nella seconda parte è come se la natura riprendesse il potere e scopriamo l’aspetto organico di questo avatar, i suoi muscoli e nervi diventano visibili.
T. M.: Nella seconda parte torna la questione dell’illusione, la pelle, i muscoli sono disegnati su una tutina. La natura la percepiamo solo attraverso suoni: uccelli, montagne, onde del mare sono riproduzioni artificiali. E siamo in un teatro. Una falsità che è percepita come reale ed è la stessa esperienza quotidiana di ognuno di noi in questa società.

Théo Mercier & Steven Michel, Affordable Solution for Better Living, photo Andrea Avezzù

Théo Mercier & Steven Michel, Affordable Solution for Better Living, photo Andrea Avezzù

Mi intriga sempre più di sapere come avete lavorato tutti insieme: corpo, scena, testi. Per La fille du collectionneur tutto era disegnato in modo minuzioso prima di iniziare a provare a teatro. È stato così anche questa volta? Il testo è arrivato subito o dopo?
S. M.: Non c’erano disegni questa volta. Il testo è arrivato subito. Siamo partiti dal manifesto del fondatore di Ikea, Testamento di un commerciante di mobili (1976), la bibbia consegnata a ogni impiegato. Abbiamo lavorato su tutorial YouTube, guide al benessere fatte di suoni metereologici, suoni d’ambiente, contenuto artificiale ma ancora una volta reale perché fa parte integrante delle nostre vite, dal momento che milioni di persone ascoltano queste playlist quotidianamente, traendone beneficio. Non c’è più una opposizione binaria tra artificiale e naturale oggi.

È la prima volta che un Leone è consegnato a una coppia e non a un singolo, raro anche che il lavoro sia inteso tra due persone in modo tanto egualitario.
S. M.: È stato coraggioso da parte di Marie Chouinard averci premiato in quanto coppia tanto quanto aver scelto Alessandro Sciarroni per il Leone d’oro, lui che come noi indaga la danza uscendo fuori dagli schemi.

So che continuerete a lavorare insieme…
S. M.: Sì, abbiamo in cantiere un lavoro sulla donna come figura matriarcale e madre terra: Big Sister. Continueremo a lavorare sulla vita contemporanea e lo spazio domestico sempre viaggiando tra passato e presente, con un certo spaesamento d’epoche.
T. M.: Questo spaesamento temporale appartiene ai miei lavori. Il nostro uomo Ikea mette in atto riti contemporanei intorno a un grande monolite Ikea. Così futuristico e in realtà è già qualcosa di appartenente al passato.

Chiara Pirri

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Chiara Pirri

Chiara Pirri

Chiara Pirri (Roma, 1989), residente a Parigi, è studiosa, giornalista e curatrice, attiva nel campo dei linguaggi coreografici contemporanei e delle pratiche performative, in dialogo con le arti visive e multimediali. È capo redattrice Arti Performative per Artribune e dal…

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