Danzando sui ritmi di Miles Davis. Intervista a Gruppo Nanou

Parola al Gruppo Nanou, raccontato dal direttore artistico e coreografo Marco Valerio Amico.

Reduci dal debutto allo storico La MaMa Theater di New York ad aprile, Gruppo Nanou arriva con il suo ultimo spettacolo, We want Miles in a silent way, al festival di Ravenna per una nuova replica il 26 giugno al Teatro Alighieri.
In questo nuovo spettacolo la compagnia ravennate mette la danza a confronto con il jazz di Miles Davis ‒ la sua struttura più che le sue note ‒, condividendo con la stella del jazz “uno stesso senso di instabilità”. Il lavoro su luci e colori, portato avanti dalla compagnia con Daniele Torcellini, esperto di cromatologia, giunge qui a un nuovo approdo. Abbiamo parlato di questa nuova ricerca con Marco Valerio Amico, direttore artistico e coreografo (con Rhuena Bracci) della compagnia.

We Want Miles in a silent way, presentato in prima assoluta a La MaMa Theater di New York, è un lavoro sulla musica di Miles Davis in generale e sul suo modo di costruire la partitura musicale. Non lavorate sulle sue note e melodie (nella vostra partitura sonora la tromba è addirittura assente), ma sulla sua “ricerca di destabilizzazione percettiva”. È questo qualcosa che fa eco a quella ricerca di un Altrove che caratterizza i vostri precedenti lavori e in particolare Motel?
In Motel il dramma non è presente in scena. Il racconto è composto da macerie, tracce di accadimenti avvenuti in altri momenti. È una composizione fotografica (o pittorica) in cui il post e il pre non viene mai esplicitato. Permettimi di parlarne al presente, visto che presto lo rimetteremo in scena a dieci anni dalla prima stanza. Con We want Miles, in a silent way ci troviamo a non esplicitare Miles. Il confronto non è biografico o con il suono della sua tromba. Per confrontarci lo abbiamo dovuto fagocitare, abbiamo dovuto individuare e appropriarci del suo metodo per comprenderlo nelle sue profondità e restituirlo con i nostri strumenti, quelli della produzione coreografica (composta dal dialogo tra suoni, luci, spazi e corpi).
È stato un procedimento lungo: due anni fa il suono di Davis è diventato esplicitamente un’analisi del lavoro in sala prove per comprendere nuove dinamiche e relazioni coreografiche. Oggi gli rendiamo omaggio dopo averlo cannibalizzato, tradotto in metodo, afferrato come ritmo, come relazione fra i diversi strumenti musicali (corpi) e colori (tensioni e spazi).

Gruppo Nanou, We want Miles in a silent way. Photo Daniele Casadio

Gruppo Nanou, We want Miles in a silent way. Photo Daniele Casadio

Il New York Times, che vi ha citati tra i dieci spettacoli da non perdere a New York, scrive che privando la musica di Davis della tromba ciò che resta è un “blueprint”. Cosa resta? E anche cosa resta come fil rouge di tutti i vostri lavori? Questa unica presenza maschile in scarpe da tango chi è?
Di Davis si esalta il metodo, il blueprint: Miles ha spesso lavorato con musicisti dalla chiara identità (Keith Jarret, Chick Corea, Jack DeJohnette e altri). Questo ci ha permesso di comprendere come le peculiarità di ciascun danzatore (Carolina Amoretti, Rhuena Bracci, Marco Maretti, Chiara Montalbani) potessero essere esaltate per dare corpo a questo progetto. Miles Davis non cercava esecutori di una sua idea. Cercava caratteri forti per nutrire la sua idea e, aggiungo io fuori da ogni biografia, permettersi di deragliare. Questa la grande affinità con Nanou, dalla fondazione. Ci siamo sempre detti che ogni piano di lavoro dovesse avere una sua identità e percorso e che, insieme, mettendo in relazione le nostre diverse attitudini, si potesse raggiungere qualcosa che fosse oltre noi, Nanou, una terza persona.
Così i corpi dei danzatori, il suono, questa volta in duplice presenza poiché il dialogo tra Roberto Rettura e Bruno Dorella, le luci, il dialogo tra me, Fabio Sajiz e Daniele Torcellini si relazionano per creare un oggetto che porti a un risultato possibile solo grazie a questo meccanismo di contaminazione fra i soggetti operanti.
La figura maschile è l’aver ritrovato la drammaticità nell’astratto. È quella figura evocativa di qualcosa che proviene da un’altra parte eppure è esattamente appartenente al luogo e alla dimensione in cui l’azione si svolge. È l’afferrare il “figurale” sul piano della composizione coreografica.

Il lavoro sul colore e sulla luce è qualcosa che portate avanti da un po’ e in collaborazione con Daniele Torcellini. Il colore è un altro punto di aggancio con la musica di Davis, A kind of Blue. Cosa rappresenta per voi questo elemento visivo, in che modo entra nei corpi e nella danza e nella musica di Davis?
La ricerca sul colore iniziata due anni fa con Daniele ci ha portato alla definizione “il colore si fa spazio”, titolo anche del percorso di ricerca che si avvale della presenza dello stesso Daniele Torcellini. È il colore a fare spazio, non la luce. So bene che a dirla così sembra terribilmente fumosa come risposta, ma lo studio che Daniele ha portato all’interno di Nanou ci ha mostrato come la percezione dello spazio e della dimensione dei corpi potesse essere alterata e enfatizzata dall’uso del colore e delle luci LED. L’uso di determinate cromie crea dei “disturbi” alla retina, richiama un paesaggio lisergico, altera degli stati percettivi. Al contempo, questo strumento luminoso ha determinato un’attitudine diversa del corpo, della sua applicazione, si è fatto dialogo in fase di ricerca e composizione della coreografia. Davis continuava a cercare di far progredire la musica “cambiandone i colori”. L’abbiamo preso alla lettera.

Gruppo Nanou, We want Miles in a silent way. Photo Daniele Casadio

Gruppo Nanou, We want Miles in a silent way. Photo Daniele Casadio

Come vi ha accolti il pubblico newyorkese?
Con mia grande sorpresa, ci ha accolti con grande entusiasmo. Personalmente ne ero spaventato, sentivo il peso di essere ospite a un festival che ci aveva scelti, dopo averci osservato per due anni, a scatola chiusa e in apertura della programmazione.
Ricevere tanto entusiasmo dagli spettatori e dagli stessi programmatori è stata la conferma che l’ossatura del lavoro era solida e chiara. Quando il proprio lavoro si mette a repentaglio davanti a occhi nuovi, si genera la perfetta condizione di nutrimento.
Devo ringraziare in particolare Adriana Garbagnati (La MaMa Umbria International) e Franco Masotti (Ravenna Festival) per avermi affiancato e aiutato a generare questa opportunità attraverso la loro attenzione, il loro dialogo e il loro confronto.
Aggiungo solo che il 26 giugno, nell’ambito di Ravenna Festival, debutteremo con una versione speciale del lavoro: Bruno Dorella suonerà dal vivo, sul palco, con noi.

Chiara Pirri

www.grupponanou.it/

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Chiara Pirri

Chiara Pirri

Chiara Pirri (Roma, 1989), residente a Parigi, è studiosa, giornalista e curatrice, attiva nel campo dei linguaggi coreografici contemporanei e delle pratiche performative, in dialogo con le arti visive e multimediali. È capo redattrice Arti Performative per Artribune e dal…

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