10 anni senza Enzo Jannacci. Un ritratto tra musica e comicità

Il 29 marzo ci lasciava il cantautore milanese, già sodale di Gaber e voce indipendente della musica italiana del secondo Novecento. Anche cabarettista, pianista, attore, sceneggiatore, e persino medico, puntò l’indice contro le disuguaglianze della società


Vincenzo, in arte Enzo, Jannacci (Milano, 1935–2013), si appassionò alla musica sin da bambino, complice la madre che gli regalò una fisarmonica; uno strumento popolare assai versatile, che può passare per serio e spiritoso insieme. Dal padre, invece, apprese il rispetto per la diversità e la sofferenza, il rifiuto del compromesso e l’amore per la libertà. Su queste basi, fu un cantautore che dette voce agli emarginati, alle prostitute, ai lavoratori sfruttati, agli immigrati, alle persone sole. Ma cominciò in maniera insospettabile, quando nel 1958 fondò, con l’amico Giorgio Gaber, I Due Corsari, sodalizio musicale a metà fra le prime avvisaglie del rock demenziale e il cabaret; in realtà, dietro le apparenze goliardiche, i loro brani vogliono essere lo specchio di un’Italia che, dopo gli anni difficili della ricostruzione, sta assaporando un certo benessere, che si scopre giovane e che si abbandona alla spensieratezza che ne consegue. L’avventura del duo terminò nel 1960, quando Gaber decise di intraprendere la carriera solista, imitato subito dopo anche da Jannacci.

Enzo Jannacci sul palcoscenico

Enzo Jannacci sul palcoscenico

LA CARRIERA SOLISTA DI ENZO JANNACCI

Milano fu la sua musa, ma ne fece una sorta di specchio dell’Italia dell’epoca, che schiacciava la diversità e si lasciava divorare dalla frenesia materialista del consumismo. Come altri suoi colleghi (Tenco e Gaber su tutti), Jannacci guardava agli chansonnier francesi, rileggendoli però a suo modo; e nella sua musica rimase sempre una certa vena di surrealtà, di sguaiata, amara allegria, necessaria per trasferire su una dimensione più accettabile le difficoltà della vita quotidiana.
Sapeva utilizzare l’allegoria per fare della feroce satira politica e sociale, attraverso un linguaggio che non disdegnava il dialetto, e quel cantare recitato (o recitazione cantata, dipende) lo accompagnò sin da quando scrisse le canzoni per Milanin Milanon ‒ lo spettacolo di Roberto Leydi che contrapponeva la Milano delle osterie, dei cortili popolari, dei Navigli (angoli già cari a Gianni Brera e Beppe Viola) a quella del cemento e delle insegne pubblicitarie, Si capì che la voce di Jannacci si levava in favore di quelli che vanno controcorrente, che rifiutano l’omologazione anche pagando di persona. Un percorso che proseguì nel 1964 con La Milano di Enzo Jannacci, dove spicca El portava i scarp del tennis, commovente racconto della vita modesta di un senzatetto milanese, cui tocca morire di fame e di freddo, in solitudine. Perché, come chioserà nel 1968 interpretando Ho visto un re, scritta da Dario Fo, “E sempre allegri bisogna stare // Che il nostro piangere fa male al re // Fa male al ricco e al cardinale // Diventan tristi se noi piangiam”. È lo sberleffo all’arroganza del potere, all’indifferenza del ricco verso il povero, è l’accusa a una società disumana, dove il denaro è l’unico fine che giustifica qualsiasi mezzo e girarsi dall’altra parte è pratica comune.
E ancora, gli zingari, il Messico malinconico degli amori crepuscolari, la tossicodipendenza, lo smarrimento degli stessi cantautori; fra gli Anni Settanta e Ottanta, Jannacci continuò a preferire i bassifondi della società, perché disgustato da chi, convinto di sapere, fallisce le proprie battaglie quotidiane o rinuncia a combatterle, abbindolato dalle luci disimpegnate del falso benessere della Milano da bere, sdoganata da Craxi.
Poi, con la caduta della Prima Repubblica, porta sul palco Pensione Italia, scritto con il figlio Paolo, dando sfogo alla sua indignazione per lo sfacelo in cui versa il Paese a causa della corruzione e del malcostume politico e sociale. Un monito (come altri) poco ascoltato, a giudicare dal prosieguo delle vicende italiane.
La carriera di Jannacci ha conosciuto alti e bassi nel gradimento del pubblico, oscillazioni dovute al fatto di non aver mai chiuso gli occhi nemmeno sulle problematiche e i temi più scabrosi della società contemporanea, e al fatto di essere stato ignorato dalle grandi case discografiche, per cui i suoi album non sempre hanno goduto di adeguata promozione.

Enzo Jannacci e Giorgio Gaber nel 1991. Photo LaPresse

Enzo Jannacci e Giorgio Gaber nel 1991. Photo LaPresse

ENZO JANNACCI E IL CINEMA

L’esordio sul grande schermo avviene nel 1964, con una breve ma incisiva apparizione ne La vita agra, pellicola di Carlo Lizzani tratta dall’omonimo romanzo di Bianciardi. Nella parte di un cantastorie di osteria, interpreta il brano L’ombrello di mio fratello, (pubblicato su 45 giri nel 1961 da Tavola Rotonda): il primo di una serie di personaggi umili, ingenui, sognatori, utopisti, destinati a perdere. Come il commovente Gavino Puddu, l’operaio sardo emigrato a Torino, che ne Il frigorifero (episodio di Monicelli del film Le coppie, 1970) non riesce a fermare la volontà della moglie (una convincente Monica Vitti) di prostituirsi per una notte, nel disperato tentativo di pagare l’ultima rata dell’agognato elettrodomestico, simbolo illusorio di acquisito benessere. Una vicenda che ironizza amaramente sulle storture sociali del consumismo che ha travolto una società, fino a pochi anni prima, in larga parte agricola.
Altra convincente interpretazione, nel 1972 con l’atipico ma caustico L’udienza, in cui Marco Ferreri gli affidò la parte di un ex militare che cerca invano di ottenere un’udienza da Paolo VI; la sfortunata trafila sarà l’occasione per toccare con mano quella mentalità faccendiera e clientelare che non risparmia nemmeno certi ambiti delle gerarchie ecclesiastiche.
Meno fortunata l’interpretazione del terrorista in Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada (1983), di Lina Wertmüller, sulle angosce degli Anni di Piombo. Jannacci conclude la sua esperienza cinematografica nel 2010, interpretando un uomo maturo che ha una relazione con un’adolescente, ne La bellezza del somaro, discreto film di Castellitto sullo scontro generazionale.
Il rapporto di Jannacci con il cinema si sviluppò anche attraverso la composizione di colonne sonore; cominciò con quella di Romanzo popolare (1974), pellicola di Monicelli con un intenso Ugo Tognazzi e un cammeo di Beppe Viola, insieme al quale Jannacci tradusse in dialetto milanese i dialoghi di Age&Scarpelli. Fra i brani del film, anche l’intensa e poetica Vincenzina e la fabbrica, sulle difficoltà di una giovane operaia emigrata dal Sud. Fra le altre collaborazioni, Pasqualino Settebellezze (1975), di Lina Wertmüller, il “divertissement” di Sturmtruppen (1976), ma, soprattutto, la colonna sonora di Saxofone (1979), di e con Renato Pozzetto, che resta uno dei momenti più alti dell’attore milanese, caustico e surreale, che Jannacci completa con le sue note. Da ricordare anche che una sua canzone, Vivere, è inserita nella colonna sonora di Parenti serpenti (1991), graffiante pellicola di Monicelli sul rapporto di comodo genitori-figli.

IL TEATRO E LA TELEVISIONE SECONDO JANNACCI

Duplice il rapporto di Jannacci con il palcoscenico: da un lato, il teatro-canzone che lo vede debuttare il 30 settembre 1964 al Teatro Gerolamo con 22 canzoni, un recital curato da Dario Fo. Dall’altro, il teatro della comicità intelligente, che prese avvio nel 1965, quando, direttore artistico del Teatro Derby (chiuso purtroppo nel 1985), fondò la compagnia Gruppo Motore, con Felice Andreasi, Bruno Lauzi, Cochi Ponzoni, Renato Pozzetto, Lino Toffolo, divenuta in breve tempo un punto di riferimento per il cabaret italiano. Nel 1977, con Viola, fondò il Gruppo Repellente, compagnia formata da attori della seconda generazione del Derby, fra cui Diego Abatantuono, Massimo Boldi, Giorgio Porcaro, Mauro Di Francesco, Giorgio Faletti, con cui allestì La tappezzeria (1978), opera su un gruppo di giovani che tenta di sfondare nel mondo dello spettacolo e si scontra invece con le storture della vita. Si rideva (e si rifletteva) su un’Italia che stava cambiando, dove, nell’indifferenza generale, gli Anni di Piombo avevano soppiantato il miracolo economico e l’impegno politico sembrava non prescindere dalla violenza. In mezzo, anche della buona televisione, a cominciare da Il poeta e il contadino (1973), varietà televisivo condotto da Cochi&Renato, Saltimbanchi si muore (tratto da La tappezzeria) e Gransimpatico (1983), fra musica e comicità, che lo vide protagonista attorniato da ospiti come Fo, Gaber e Conte.
Jannacci tornò al teatro nel 1991, quando con Gaber, Felice Andreasi e Paolo Rossi rilesse un classico del teatro dell’assurdo, Aspettando Godot di Samuel Beckett; un modo di rimettersi in gioco, che nel complesso fruttò un discreto successo ai due antichi sodali, nei panni dei due senzatetto in vana attesa.

La compagnia Gruppo Repellenti, Jannacci è seduto al centro

La compagnia Gruppo Repellenti, Jannacci è seduto al centro

L’EREDITÀ DI ENZO JANNACCI

Da artista colto, non disdegnava le contaminazioni con la letteratura, ma soprattutto esprimeva serietà, sobrietà, competenza, senza necessità di essere trainato da pettegolezzi o gesti e atteggiamenti infantilmente eclatanti. Jannacci faceva cultura con l’umiltà di una visione critica, ma intellettualmente onesta, che offriva riflessioni al di là dei luoghi comuni, s’interrogava sull’individuo e il suo agire, sulle conseguenze dell’indifferenza e della cattiva coscienza.
Non fu soltanto un artista, ma anche un medico che esercitò fino alla pensione. Un modo per cercare di alleviare la sofferenza degli altri. Fuori dall’ospedale, continuava a fare altrettanto, ma con le canzoni, chiamando in causa le coscienze altrui e tentando di sensibilizzarle contro tante piaghe sociali. Quella di Jannacci è una lezione umana assai articolata, scomoda, difficile da caricarsi sulle spalle in un’epoca in cui, anche nella musica, l’immagine conta più della sostanza e le questioni sociali lasciano il posto ai luoghi comuni.

Niccolò Lucarelli

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Niccolò Lucarelli

Niccolò Lucarelli

Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte, di teatro e di jazz, e saggista di storia militare. Scrive su varie riviste di settore, cercando di fissare sulla pagina quella bellezza che, a ben guardare, ancora esiste nel mondo.

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