Intervista a Pierre Bastien, l’artigiano della musica elettronica

Vanta tre album prodotti da Aphex Twin e costruisce da solo i propri strumenti: è Pierre Bastien ed è stato tra i protagonisti della rassegna musicale piemontese “Piedicavallo Festival” appena conclusa

Tra i numerosi appuntamenti culturali che hanno caratterizzato l’estate piemontese non si può non menzionare Piedicavallo Festival, l’ormai storica manifestazione dedicata alla musica antica che quest’anno, dopo ben trentuno edizioni, si è aperta a iniziative e a sonorità decisamente più contemporanee. Nel fitto calendario di eventi che dal 1° al 21 agosto hanno animato l’area di Piedicavallo (in provincia di Biella), hanno infatti trovato spazio passeggiate sonore, seminari, laboratori e il progetto di residenza artistica Simbiosi. Ad arricchire il tutto ci ha pensato Pietre, il nuovissimo format dedicato soprattutto alle percussioni che, sotto la direzione artistica di Alessandro Gambo e con il coinvolgimento di TUM, ha portato nel biellese importanti sperimentatori del calibro di Andrea Belfi, Will Guthrie, Enrico Malatesta, Bienoise e, dulcis in fundo, Pierre Bastien (Parigi, 1953): ingegnoso architetto di suoni e di strutture meccaniche che abbiamo intervistato.

INTERVISTA A PIERRE BASTIEN

L’approccio che hai nei confronti della musica è molto particolare se non unico. Si potrebbe dire che tu sia una sorta di artigiano in grado di utilizzare il suono e le armonie come se fossero realmente dei materiali, degli elementi concreti, tangibili.
Sì, il modo che utilizzo per fare musica è molto speciale e questo penso dipenda dal fatto che io non ho avuto un’educazione musicale accademica. Mi interessano le riflessioni sulla musica, tanto su quella che viene composta quanto su quella improvvisata, ma il mio approccio proviene dalla musica popolare e poi da lì sono passato a una musica più sperimentale.

Le incredibili macchine che costruisci portano inevitabilmente alla memoria alcuni importanti artisti delle avanguardie storiche quali Francis Picabia – se pensiamo alle sue celebri “macchine inutili” – o Luigi Russolo.
I nomi che hai menzionato sono decisamente importanti: l’approccio di Russolo nel movimento futurista è stato innovativo in quanto lui stesso costruiva personalmente i suoi strumenti e questa tendenza ha influenzato molto anche me.

Pierre Bastien. Photo credit Beatrice Zito ed Edoardo Montaccini

Pierre Bastien. Photo credit Beatrice Zito ed Edoardo Montaccini

Come hai cominciato a produrre musica in questo modo?
Ho cominciato a fare i miei primi esperimenti quando avevo quindici anni, ricordo che attaccai due padelle ai lati di un metronomo trasformando quest’ultimo in una specie di attivatore di suoni capace di cambiare quel classico “tic” in uno “spin-boom”. Quello è stato il primo marchingegno che ho realizzato.

Quali sono stati i tuoi punti di riferimento?
All’epoca non conoscevo ancora né Picabia né Russolo, ma intorno ai vent’anni ho scoperto tanto l’opera dei futuristi quanto quella dei dadaisti, subendo di conseguenza una grande influenza soprattutto da Russolo e dalla sua personale ricerca di nuovi suoni, toni e rumori.
Al Dadaismo, invece, mi sento molto vicino per l’approccio ironico che i suoi esponenti avevano verso l’arte, una specie di tentativo di non prendere la cosa troppo sul serio, ma cercando comunque di renderla accettabile. Penso che sia così anche nella musica, molto spesso ottengo un risultato che è difficile da raggiungere attraverso le tecniche accademiche, e lo ottengo semplicemente mettendo insieme due parti meccaniche, come quando piego il mio arco meccanico. C’è una sorta di scorciatoia per raggiungere tecniche e suoni complicati attraverso le macchine che sto costruendo.

LA MUSICA SECONDO PIERRE BASTIEN

A proposito di metronomi: il tempo è un elemento molto importante nella tua pratica. Le macchine/strumenti che costruisci sono sia futuristiche sia pregne di un certo profumo “antico” in netto contrasto con la nostra epoca.
Ho iniziato a fare musica ben prima dell’era digitale, in un tempo in cui le macchine non esistevano ancora. Ricordo di aver avuto uno dei primi sequencer usciti in quel periodo ma il cui suono era davvero terribile. Per questo motivo cominciai a costruire un mio sequencer per una personalissima rythm machine, o comunque per i miei macchinari in generale.

E poi?
Qualche anno più tardi ogni negozio di musica iniziò a rifornirsi in abbondanza di tutti questi nuovi dispositivi elettronici e lì iniziai seriamente a chiedermi quanto avesse senso continuare ad assemblare i miei piccoli aggeggi e quanto potessero apparire ridicoli se confrontati con gli strumenti così tecnologicamente avanzati che circolavano in quel periodo. E fu proprio in quel momento che venni contattato e invitato da Richard D. James a far parte della sua etichetta discografica, la Rephlex. Questo episodio lo presi come una sorta di incoraggiamento ad andare avanti con quello che stavo facendo poiché pensai: “Se un artista come Aphex Twin ti propone di entrare nella sua scuderia, significa che bisogna continuare per quella strada indipendentemente dal tipo di tecnologia utilizzata”. La cosa fondamentale è portare un po’ di musica nuova e forte all’interno dei dischi, indipendentemente dal mezzo.

Pierre Bastien. Photo credit Beatrice Zito ed Edoardo Montaccini

Pierre Bastien. Photo credit Beatrice Zito ed Edoardo Montaccini

Cosa significa fare musica elettronica oggi?
Nella storia dell’arte solitamente il mezzo non viene utilizzato per simboleggiare o per inquadrare meglio una corrente. Termini come “pittura a olio” o “acquerello” vengono usati solo in relazione alle singole tecniche, non per definire un genere, allo stesso modo quando diciamo “musica elettronica” usiamo il mezzo per definire un genere e non credo sia una buona cosa. La musica, come l’arte, non dovrebbe essere definita dal mezzo quanto piuttosto dall’intenzione. Inoltre, quando un musicista usa un programma per comporre la sua musica parte da una via di mezzo, da una strada già spianata da qualche ingegnere che ha dato forma a un programma e così via. Questo è ciò che cerco sempre di evitare, voglio partire dall’inizio e arrivare alla fine, mi piace conoscere l’intero processo.

E fare musica sperimentale?
Per quanto riguarda il termine “sperimentale”, tendo a utilizzarlo perché è di uso comune, ma quando lavoro a casa ho la sensazione di suonare semplicemente musica, qualunque essa sia, e non sono sicuro che sia sempre sperimentale. Per esempio, l’armonia è bandita dalla musica sperimentale eppure io non ho nulla contro l’armonia o contro i ritmi in 4/4 e in 3/4, anzi, a volte uso elementi tradizionali insieme a suoni più “sperimentali”. Chi lavora in questo modo sta sperimentando, certo, ma sta anche trovando delle soluzioni; quindi, nel momento in cui si “sperimenta”, si è solo nel processo senza giungere a un punto concreto, quando invece faccio un concerto spero di offrire delle soluzioni, non solo la sperimentazione ma anche il suo risultato.

Il tuo nuovo album Sonic Folkways, uscito lo scorso 10 giugno, sembra quasi sia stato prodotto utilizzando strumenti arcaici provenienti da un altro tempo e da un altro spazio. Quanto è importante per la tua pratica il concetto di ritualità?
Penso che sia bellissimo che tu abbia associato il concetto di ritualità a questo album, è un termine che io non uso ma sì, credo di averlo prodotto come un rituale. In un certo senso fare musica, mettere insieme dei suoni, è per me un rituale diverso ogni volta. Molto tempo fa ho letto un libro del musicologo Gilbert Rouget intitolato Musica e trance: un testo molto denso che cerca di analizzare la relazione tra gli stati di trance e la musica attraverso tantissimi esempi presi da tutto il pianeta. Penso che il volume arrivi a concludere che la musica non sia indispensabile per entrare in trance, ma che possa aiutare molto. Il fatto di suonare in maniera ritualistica può anche aiutare a entrare in un’altra dimensione, a evadere dai problemi di ogni giorno.

Pierre Bastien. Photo credit Beatrice Zito ed Edoardo Montaccini

Pierre Bastien. Photo credit Beatrice Zito ed Edoardo Montaccini

PIERRE BASTIEN AL PIEDICAVALLO FESTIVAL

Recentemente ti sei esibito al Piedicavallo Festival. Com’è andata?
Quando tengo un concerto faccio molta attenzione anche all’aspetto visivo, dal momento che mi piace mostrare esattamente ciò che accade e rivelare la fonte di ogni suono. A Piedicavallo il teatro nel quale mi sono esibito aveva un palcoscenico troppo alto per consentire agli spettatori di osservare bene i movimenti della macchina usata per capirne il funzionamento. Inizialmente la mia idea era quella di suonare sul pavimento, ma la previsione era quella di lasciare il pubblico in piedi; ho quindi suonato su un palco più basso che abbiamo aggiunto successivamente. Quando però il pubblico è arrivato, tutti si sono seduti per terra e ad averlo saputo prima mi sarei potuto sedere anche io divertendomi di più. Si è trattato di una specie di semi-incomprensione, ma, dato che le ombre del macchinario sono state proiettate su uno schermo dietro di me, le persone hanno comunque potuto apprezzare la parte visiva.

Quali strumenti hai usato per il live?
Per questo set ho suonato una macchina che svolge un sacco di funzioni, è un aggeggio con molti motori e diverse ventole al suo interno, uno strumento in grado di emettere tanti suoni e pattern diversi. È inoltre una macchina che riesce a improvvisare, essendo costituita da piccoli ventilatori che fanno muovere pezzi di carta capaci di attivare forme sempre diverse.

L’aspetto performativo e i visual che realizzi giocano un ruolo molto importante durante le tue esibizioni. I tuoi live richiamano le atmosfere dei vecchi spettacoli di lanterne magiche, durante i quali l’impatto visivo delle proiezioni riusciva a stimolare così tanto lo spettatore da permettergli di costruire storie e narrazioni altre.
Credo che la tua descrizione sia perfetta per esprimere quello che faccio. Attualmente vivo in Olanda e una delle ragioni per cui vivo lì è che negli Anni Ottanta, a Eindhoven, c’era una galleria molto importante per la sound art chiamata The Apollo House. Tra le prime iniziative concepite dallo spazio vi era una sorta di simposio dal quale è nato un volume intitolato The images of sound. Quel libro è stato importante per me dal momento che è riuscito a descrivere bene quello che stavo facendo all’epoca e che sto facendo tuttora. Secondo quella pubblicazione i confini tra arte sonora e visiva andavano sempre più aboliti dal momento che, quando si crea un’opera d’arte, anche se propriamente non si è artisti, non bisogna concentrarsi esclusivamente sul suono o sull’immagine, ma si può invece lavorare contemporaneamente su entrambi i fronti allo stesso tempo, e questo credo sia ciò che sto facendo.

Come ti immagini la musica del futuro?
L’immaginazione è molto importante per me, ma in questo campo specifico preferisco essere sorpreso piuttosto che fare anticipazioni.

Valerio Veneruso

https://www.piedicavallofestival.com/

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Valerio Veneruso

Valerio Veneruso

Esploratore visivo nato a Napoli nel 1984. Si occupa, sia come artista che come curatore indipendente, dell’impatto delle immagini nella società contemporanea e di tutto ciò che è legato alla sperimentazione audiovideo. Tra le mostre recenti: la personale RUBEDODOOM –…

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