Filosofia, musica e blush. Intervista alla cantante Petite Meller

Nulla ethica sine aesthetica. E viceversa. Questa è una delle sfide più ardue che ogni artista è chiamato a fronteggiare, questo rende un’opera interessante e poi vincente alla prova del tempo. Non sempre si può trovare tale equilibrio, ma la cantante Petite Meller è un ottimo esempio di come incarnare entrambi i mondi.

Petite Meller si presenta nel 2015 con il suo primo singolo Baby Love, una canzone pop che facilmente rischi di ascoltare un centinaio di volte senza mai stancarti, ma non è il solito tormentone. La cantante attira subito l’attenzione distinguendosi vuoi per i mix di generi musicali con incursioni jazz e gospel nel pop, vuoi per le incredibili mise che sfoggia a ogni uscita, vuoi perché nel frattempo si laurea alla Sorbona in filosofia proseguendo poi con un PhD alla UCLA. E già qui si capisce da dove può derivare la sua etica.

LA MUSICA E L’ESTETICA DI PETITE MELLER

Il dolce non è poi così dolce senza l’amaro. Le sue canzoni sono una dicotomia continua: da una parte i testi che raccontano dolori profondi, dall’altra la musica che è puro movimento. Il suo stile durante il periodo del primo album prendeva un po’ da Lolita, un po’ dalla giovane Mia Farrow. Ma andava e va oltre, come le sue canzoni, comunicando anche molto di personale. Il trucco usato per ricordare un incidente in giovane età, come la fasciatura che porta al braccio in alcuni video, sono elementi che rispecchiano il suo motto, “indossa il tuo trauma con orgoglio”. Ora, con l’uscita del suo secondo disco anticipato dal primo singolo Dying Out of Love, vediamo che qualcosa è cambiato nell’estetica. Indica come fonti di ispirazione maschere della Commedia dell’Arte quali Pierrot e Arlecchino, e viene in mente un detto su questo secondo personaggio. Si dice infatti che “Arlecchino si confessò burlando”, e forse questo modo di dire potrebbe descrivere bene la filosofia di Petite Meller.
I video musicali sono un altro elemento di forza. Guardandoli si nota un forte richiamo alla cinematografia, dai font alla centralità delle immagini che ricordano Wes Anderson. E quindi i film, altra grande passione di Petite Meller. I suoi registi preferiti sono nomi che non ti aspetti, ma gli occhi non mentono mai e lei ci suggerisce di guardarli per capire chi realmente è, e allora vedi che quei nomi sono giusti. Petite Meller ha molto da raccontare e ogni dettaglio porta con sé motivi etici profondi su cui poi ha basato un’estetica unica e mai banale.

Petite Meller. Photo Mia Macfarlane & Julien Crouigneau. Stylist Fodè Ka

Petite Meller. Photo Mia Macfarlane & Julien Crouigneau. Stylist Fodè Ka

INTERVISTA A PETITE MELLER

Nel 2015 usciva il tuo primo grande singolo, Baby Love. Nel 2020 invece Dying Out of Love, brano che anticipa il prossimo album e segna una svolta nella tua musicalità. Quale evoluzione ha avuto il tuo lavoro e quali invece sono le costanti?
Nel mio primo album, Lil Empire, viaggiavo in Paesi lontani per trovare la mia gente, la tribù di cui sentirmi parte. Il mio orecchio è la mia bussola, la mia musica mi ha portato dall’Africa in Baby Love alla Mongolia nel video musicale di The Flute. Nel mio nuovo progetto viaggio dentro di me, come si dice “l’unica via d’uscita è dentro di te”. Con il mio nuovo OrkPop (pop orchestrale) mi sono innamorata di Vladimir e della Royal Orchestra di Mosca. Il loro suono euforico cinematografico mi ha riportato al compositore italiano Vivaldi. Per me è il primo artista pop della storia. Dying Out of Love è la prima canzone di molte registrate con un’orchestra dal vivo di 42 elementi. La vita è così assurda, possiamo solo ballarla, avevo bisogno di creare la mia assurda sinfonia. Ma non preoccupatevi, ci sono anche le melodie di Baby Love nel nuovo album e ballerete via il vostro dolore.

Sei un’artista a tutto tondo come dimostra il tuo stile unico che ti ha fatto conoscere non solo nel campo della musica ma anche in quello della moda. Quanto pensi abbia influito il tuo stile sul tuo successo?
Mi vedo come un clown dell’assurdo, un personaggio del Dadaismo o della Commedia dell’arte. Tra Pierrot e Arlecchino. Forse perché sono molto ispirata da David Bowie. Come una Cosette di Les Misérables. È la mia personale guerra, lotto per l’ottimismo! Il mio dottorato in filosofia si concentra sul significato del piacere originato dal dolore in Freud e Kant. Il mio motto personale è “Indossa il tuo trauma con orgoglio”, penso che tutti dovrebbero essere orgogliosi delle loro cicatrici. La mia arte deriva da questa idea e dalla mia missione nella vita di sollevare gli altri con la mia musica. I miei video musicali “turistici” mi hanno aiutato a imparare la geografia e creare le mie piccole realtà. E di conseguenza hanno influenzato anche gli altri a creare le proprie.

Prima la laurea in filosofia alla Sorbona e ora un PhD all’Università della California. Nel tuo futuro ci sono altri obiettivi, oltre alla musica, magari in campo filosoficoe letterario?
Ho più di un sogno, uno è diventare professoressa di filosofia, ma il mio sogno segreto è sempre stato quello di diventare un direttore d’orchestra di musica classica. Sono estremamente affascinata da questa professione. Entrambi gli ambiti hanno bisogno di più forza femminile nelle loro fila!

MUSICA, DOLORE E CINEMA

Nelle tue canzoni si notano forti elementi di sofferenza. Vedi il dolore come parte di un percorso, un aspetto necessario per approdare poi a uno stato di catarsi?
Buona analisi! Ho sempre avuto gli occhi tristi, ma una personalità gioiosa ed esuberante. In una grande disperazione vedo la speranza. La vita è breve, devi vivere i tuoi sogni. Baby Love è una canzone completamente pop ma è uscita da me nel momento in cui ero più spezzata, infatti nel testo canto “You dont know what love means“. Stavo piangendo il mio dolore, ma il mio produttore svedese Jocke lo ha adattato nelle tonalità della chiesa gospel, gli svedesi tirano fuori il meglio dal dolore. Nella chiesa gospel ti alzi in piedi e ti perdi completamente finché non sei salvato. Una vera catarsi, questo è il mio obiettivo quando scrivo canzoni. Da bambina scrivevo canzoni a me stessa per tirarmi su, la vita ha alti e bassi, la musica esiste per sollevare l’anima. Il termine lacaniano “jouissance“, che significa un piacere ricavato dal dolore, è ciò su cui baso la mia musica.

Spesso hai citato la tua passione per il cinema, in particolare per Michelangelo Antonioni. Questo sorprende un po’: da una parte ci sei tu, così solare, attiva, inarrestabile, dall’altra il regista italiano famoso per i suoi film in cui non sono i personaggi ma un desolante silenzio a parlare. Cosa vi accomuna?
Mi piace sempre quanto siano intelligenti i giornalisti italiani, domande molto filosofiche, immagino che siate ispirati dalle grandi leggende del cinema. Antonioni rappresenta la poesia del linguaggio architettonico. Usa gli edifici per enfatizzare il desiderio sessuale e strade vuote per la solitudine e la depressione della borghesia. È un maestro del linguaggio visivo che adoro. “Silenzio desolante che parla” è la definizione esatta di me. Non potresti definirmi meglio. Sono come un pantomimista, il mio dolore è nei miei occhi. Come un Pierrot, ardo di motivazione per combattere in nome dell’ottimismo. Non importa cosa potrebbe abbattermi. Questa è la mia guerra clownesca in questa vita assurda, specialmente adesso, e sono sicura che, con il mio blush sulle guance, vincerò!

Petite Meller. Photo Mia Macfarlane & Julien Crouigneau. Stylist Fodè Ka

Petite Meller. Photo Mia Macfarlane & Julien Crouigneau. Stylist Fodè Ka

Sei nata a Parigi, poi hai vissuto a Tel Aviv, Londra e ora a Los Angeles. Durante le settimane della moda sei ormai una presenza fissa anche a Milano. Senza dubbio sei una cittadina del mondo, nonostante alcune ossa in più nel tuo corpo che ti fanno dubitare dell’origine terrestre. Se nel tuo futuro dovesse esserci l’Italia, su quale città ricadrebbe la decisione di trasferirti? E Perché?
Vero!! Come fai a saperlo?!?! Una volta mi sono rotta un osso del piede che nessun dottore è riuscito a trovare nei libri di medicina. Alla fine mi hanno detto che ho rotto un osso in più che nessun essere umano ha, da allora metto in dubbio la mia appartenenza a questo pianeta. Domanda difficile, amo Venezia, Milano e Roma ma penso che sceglierò la Calabria e la Sicilia perché lì crescono le migliori melanzane e potrei mangiare ogni giorno il mio piatto preferito, la parmigiana!

Se tu potessi frequentare artisti del passato, in una sorta di ‘Midnight in Paris’, dalla musica al cinema e arte, chi sceglieresti?
Frequenterei Alfred Hitchcock. Ho da sempre un debole per i registi. Andremmo a dare da mangiare agli uccelli. Altri nomi del passato sono: Freud, Dalí, Fellini e di oggi Slavoj Zizek, Paolo Sorrentino e Kamasi Washington.

Consigliaci un libro, un film e una canzone imprescindibili da conoscere e tenere come punti di riferimento.
Un libro: Mille piani di Félix Guattari e Gilles Deleuze. Guardare alla realtà come a molteplicità ha cambiato il modo in cui guardo la vita, vi avviso che è scritto in un linguaggio filosofico hardcore. Una canzone: Initials B.B. di Serge Gainsbourg. Una grandiosa orchestra è l’essenza del vivere. Un film: Morte a Venezia di Luchino Visconti. Adoro l’atmosfera e lo stile, è surreale e corrisponde a quello che viviamo oggi. Un capolavoro sublime scritto da Thomas Mann.

– Niccolò Sandroni

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Niccolò Sandroni

Niccolò Sandroni

Niccolò Sandroni è nato ad Arezzo nel 1990. Dal 2009 vive a Milano dove ha conseguito la laurea in giurisprudenza all'Università Cattolica del Sacro Cuore. È copywriter, redattore e giornalista pubblicista iscritto all'Albo dal 2020. Scrive di cinema e spettacolo…

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