Gucci apre la settimana della moda milanese: la creazione (e la sfilata) è un atto di resistenza

Moda come gesto rivoluzionario. Gucci apre la settimana milanese con una sfilata che nasce dal genio visionario di Alessandro Michele. Le sue creazioni sparigliano le carte e chiariscono la filosofia dell’art director, che rielabora senza remore tutto ciò che lo colpisce.

La settimana della moda di Milano apre con uno spettacolo esclusivo, come solo la sfilata del designer più famoso del mondo può essere. E così, entriamo in via Mecenate, nel quartier generale di Gucci a Milano, e subito capiamo di aver vinto il biglietto/invito per lo show più bello, almeno fino ad ora, di questa Milano Fashion Week ai primi vagiti e in svolgimento fino al 25 settembre.  All’ingresso il fortunato pubblico è stato fin da subito distratto dalle chiacchiere preevento e introdotto in uno spazio visionario, quasi felliniano saturo di finta archeologia: assomiglia ad uno studio di posa come quelli di Cinecittà, ma anche al Monte Olimpo, disegnato in questo caso da un bambino che mescola le forme del Canova, al pantheon egizio, fino alle architetture atzeche, solo perché secondo lui stanno bene insieme.

Gucci - Milano Fashion Week

Gucci – Milano Fashion Week

LA FILOSOFIA DI ALESSANDRO MICHELE

Appare sfrontato l’accostamento, che non accetta altra regola che quella di creare emozioni, rappresentando in pieno la filosofia che Alessandro Michele, art director, ha dichiarato apertamente nelle sue ultime interviste: rielabora tutto ciò che lo colpisce, non c’è remora nel rifare le sculture conservate nei musei o nello sparare luci strobo a ripetizione, con un sottofondo sonoro tipo Requiem for a Dream. Così come non ce n’è nel riuso di personaggi come Biancaneve, che appare su un golf tutto di paillettes, o di scritte prese da Instagram. I 107 modelli che sfilano presentando ufficialmente la collezione Spring/Summer 2018 fanno parte del popolo di Gucci, che è molto di più della rappresentazione di un prodotto: sono gli abitanti di un luogo nuovo, reali come lo sono i personaggi di un quadro allegorico, figure perfette per occupare gli ambienti delle città del 2025 su altri pianeti.

L’ATTO DI CREAZIONE COME ATTO DI RESISTENZA

Quel senso quasi religioso che unisce la star alla divinità, riporta in alcune uscite al mai troppo compianto David Bowie e ai look di Ziggy Stardust: c’è sempre quel Dna, acquisito dall’amore e non grazie alla genetica, per la Londra della fine degli anni ‘60, per i personaggi che vagavano a Carnaby Street, per la stravaganza che preludeva alla rivoluzione. Ed è la rivoluzione il tema che emerge dal non facile testo che accompagna la sfilata, dal titolo “L’atto di creazione come atto di resistenza”; leggendolo si capisce che forse tutte le figure che abitano la sala, quelle grandi opere antiche, potrebbero crollare da un momento all’altro come in un film post-regime, come le statue dei grandi dittatori distrutte dal popolo.

ABITI COME GESTO POLITICO

“L’atto rivoluzionario”, si legge, “produce smottamenti. Scardina le incrostazioni depositate dalla tradizione. Denaturalizza ciò che appare consolidato. Produce spostamenti e interrogazioni. In questo senso l’atto di creazione, direbbe Deleuze, è anche e soprattutto un atto di resistenza”. Strano a dirsi, ma gli spettatori, – un parterre di facoltosi clienti, nomi importanti provenienti da ogni settore culturale, artisti e galleristi -, vengono chiamati ad assistere ad un atto politico che ha più forza di una manifestazione o di uno sciopero. Ogni abito pretende di ottenere un riconoscimento intellettuale e si ribella all’omologazione, è una lotta contro quello che è solo possibile, è la personificazione dell’impossibile che richiede continuamente “perché?” Perché ha messo quella cosa? Che c’entra? Racconta il ragazzino con abiti effemminati che prende le botte dal padre, ma anche la ragazza bruttina che esagera, invece di obbedire a chi la vuole vedere sparire.
Pezzi di vita vengono assemblati come nelle opere dei collagisti: short e giacche maschili, body e giubbotto, ma anche quando l’abito è riconoscibile da cima a fondo arriva l’accessorio a spostare la messa a fuoco. Un discorso importante che sembra poter essere concepito con pesante serietà e invece no, resta quel clima di intelligente autoironia e di lavoro portato avanti da un gruppo di lavoro affiatato; quel backstage metaforico rappresenta quasi sempre una festa di famiglia, dove stanno gli artigiani e i giovani designer e i modelli che si fanno le foto in continuazione, perché la parte che hanno avuto da Gucci è veramente straordinaria.

– Clara Tosi Pamphili

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Clara Tosi Pamphili

Clara Tosi Pamphili

Clara Tosi Pamphili si laurea in Architettura a Roma nel 1987 con Giorgio Muratore con una tesi in Storia delle Arti Industriali. Storica della moda e del costume, ha curato mostre italiane e internazionali, cataloghi e pubblicazioni. Ideatrice e curatrice…

Scopri di più