Dieci anni di Museion. Intervista alla direttrice Letizia Ragaglia

Una chiacchierata a tutto tondo con Letizia Ragaglia, direttrice di Museion, a Bolzano. In occasione del decimo anniversario dell’istituzione altoatesina.

Nel 2018 Museion di Bolzano festeggia dieci anni nella sede progettata dallo studio KSV Berlin, un futuristico cubo di vetro che trasforma il museo in luogo trasparente, in continua comunicazione con il territorio.
In occasione della presentazione a Roma del denso programma di festeggiamento, che avrà il suo picco nel maggio 2018 e comprenderà la mostra Somatechnics a cura di Simone Frangi e il progetto speciale Carillon di Olaf Nicolai, abbiamo parlato con la direttrice Letizia Ragaglia del passato e del futuro di Museion, della sua identità sperimentale e in continua evoluzione –definita dalla Ragaglia “transgender” ‒ e della mostra BODY CHECK, che inaugurerà il 3 febbraio, chiudendo dieci anni dopo un “conto” ancora aperto con il pubblico.

La prima domanda è d’obbligo: che tipo di bilancio fai di questi dieci anni a Museion? Come è cambiato il suo pubblico e la sua percezione sul territorio?
Direi che il bilancio è tutto sommato positivo: gli altoatesini hanno superato l’idea di un museo di arte contemporanea dove si fanno solo “cose strane” e percepiscono Museion come luogo vivo e pulsante, che mette in dialogo il territorio con realtà internazionali.
Mi dà grande soddisfazione la creazione di un pubblico stabile, che torna al museo, perché evidentemente qui trova sempre qualcosa che non si aspetta. Il compito del museo dovrebbe essere proprio questo, portare il pubblico verso qualcosa che ancora non conosce, anche se questo fosse molto sperimentale. Questo è il “bello” del museo, quello che facciamo nel nostro piccolo senza avere a disposizione le cifre dell’antico e del moderno.

Com’è cambiato il tuo ruolo all’interno del museo in questi dieci anni?
Parecchio: io qui ho iniziato come curatrice e sono poi stata catapultata in questo ruolo di direzione, un ruolo che ha cambiato profondamente la mia visione. Come direttore hai un tipo di responsabilità non solo teorica e storico-artistica, ma anche politica e diplomatica. Un direttore lavora con un capitale umano che è quello del pubblico ma anche quello del team, e in un museo come il nostro io ci tengo molto al fatto che tutti, dal personale di sala alla contabilità, siano coinvolti nelle attività del museo. Museion vanta oggi un team eccezionale di professionisti nell’ambito dell’arte contemporanea, e questo è chiaro dai riscontri che ricevo a tutti i livelli, dalla mail del visitatore che ci ringrazia dell’accoglienza fino agli artisti che trovano qui un ottimo ambiente di lavoro.

Letizia Ragaglia. Photo Fanni Fazekas

Letizia Ragaglia. Photo Fanni Fazekas

Per quanto riguarda invece la tua linea curatoriale, quali sono stati e sono i temi-guida della programmazione espositiva?
Ho dato molta importanza ai linguaggi della scultura nel “campo allargato”, per usare un termine di Rosalind Krauss; da un lato, infatti, l’architettura di Museion si presta a presentare più la scultura dei dipinti, dall’altro perché, secondo me, il grande pubblico riconosce ancora l’arte quando è davanti a un’opera bidimensionale, ma ha più difficoltà quando si trova di fronte a una scultura o a un’installazione: quella è allora la sfida del museo, proporre artisti trasversali che facciano accedere il pubblico a linguaggi diversi e nuovi.
All’interno di questi linguaggi, ho prediletto spesso e volentieri posizioni femminili – non necessariamente femministe – di artiste che hanno contribuito a riscrivere la storia dell’arte recente, sia dalla generazione più “storica”, da VALIE EXPORT a Rosemerie Trockel, sia più giovani come Klara Lidén, Rossella Biscotti, Tatiana Trouvé.

Secondo te, le artiste donne hanno ancora una minore attenzione rispetto ai loro colleghi maschi? C’è ancora un gap da colmare?
Dipende, ogni tanto quando guardo le programmazioni di certi musei, di certe istituzioni e mi dico mah, insomma… [ride, N.d.R.]. Ieri leggevo quest’articolo su Frieze in cui si notava come i premi Oscar siano ancora divisi fra maschi e femmine, miglior attore e miglior attrice; nel mondo dell’arte, almeno sulla carta, questa divisione non c’è: si è artisti e basta. Però c’è ancora un percorso da fare (come in tutti gli ambiti), che per me non passa dalla ghettizzazione o dalle “quote rosa”, ma dal porre attenzione su artiste dalla produzione eccezionale. E poi, talvolta, con le artiste lavoro meglio, hanno meno arroganza di alcuni colleghi uomini.

Torniamo alla programmazione: cosa puoi anticiparci della mostra BODY CHECK, la prima del 2018?
La mostra accosta i lavori di Martin Kippenberger con quelli di Maria Lassnig, e chiude un conto aperto che Museion aveva sia con l’Alto Adige sia con il mondo dell’arte. Mi riferisco allo scandalo creato dall’opera di Kippenberger esposta nel 2008 che ha fagocitato in un facile linguaggio mediatico ogni obiettivo del museo [Letizia Ragaglia si riferisce alle polemiche per l’opera Zuerst die Füsse di Martin Kippenberger, esposta nel 2008; l’opera, che rappresentava una rana crocifissa, finì al centro di critiche e attacchi per blasfemia, con l’intervento della chiesa e persino dell’allora papa Ratzinger; anche in seguito alle polemiche, l’allora direttrice Corinne Diserens venne licenziata, N.d.R.]. Mi sono rivolta a Veit Loers, uno storico dell’arte, per mostrare come Kippenberger non sia esclusivamente un enfant terrible, riportandolo in un contesto storico-artistico, e mi è piaciuto molto che Loers mi abbia proposto di accostare il suo lavoro per la prima volta a Maria Lassnig, arricchendo la lettura dell’opera dei due artisti.

Martin Kippenberger, Ohne Titel (aus der Serie Das Floß der Medusa), 1996 © Estate of Martin Kippenberger, Galerie Gisela Capitain, Colonia

Martin Kippenberger, Ohne Titel (aus der Serie Das Floß der Medusa), 1996 © Estate of Martin Kippenberger, Galerie Gisela Capitain, Colonia

A proposito della collaborazione con Veit Loers, e in generale delle collaborazioni con i curatori ospiti, qual è secondo te il loro contributo al museo?
È sempre bellissimo e arricchente avere lo sguardo di qualcun altro, perché chiudersi nella propria visione rischia di rendere ciechi. Alcuni curatori stravolgono il modo di lavorare del museo, ponendo il team di fronte a nuove sfide, altri portano pubblici nuovi – è stato il caso, ad esempio, di Vezzoli. È giusto che un museo sconvolga le proprie abitudini e con un curatore ospite questo ti riesce meglio; infatti dopo due curatori artisti (Vezzoli e Degiorgis), Loers è uno storico dell’arte, e BODY CHECK sarà una mostra molto classica, in un certo senso, una novità per Museion.

Il vero e proprio “compleanno” di Museion sarà a maggio: quali sono gli eventi in programma? Cosa puoi dirci a proposito del progetto speciale Carillon di Olaf Nicolai?
Il progetto di Olaf Nicolai è una sinfonia per campanacci di mucca. Ho invitato Nicolai chiedendogli di fare qualcosa che celebrasse Museion e lo rispecchiasse, qualcosa che coinvolgesse il territorio restando internazionale, e lui ha subito pensato a questo progetto, che aveva in mente da tempo. Così abbiamo iniziato a parlare con i contadini proprietari delle mucche che a maggio saranno coinvolte nel progetto [la composizione sarà prima suonata a Museion il 5 maggio, poi un gruppo di bovini riceverà i campanacci e continuerà a suonare in solitaria, sugli alpeggi, N.d.R.].

E come hanno reagito i contadini?
È stato bellissimo. Per la prima volta sono stata a un’asta di mucche [ride, N.d.R.] e ho imparato molto di questo mondo: tu non lo sai, ma ogni mucca ha la sua campana, il suo suono, la sua sensibilità. Il 30 settembre ci sarà il gran finale con Transart, la passeggiata con l’artista. Il progetto di Nicolai è la sinfonia dei nostri dieci anni e rappresenta l’anima di Museion, che unisce attenzione al locale e respiro internazionale.

Museion, Bolzano. Photo Luca Meneghel

Museion, Bolzano. Photo Luca Meneghel

E la collettiva Somatechnics?
Visto che soffro sempre quando non trovo Museion tra i musei italiani, anche se non posso biasimare nessuno se non siamo percepiti come italiani [ride, N.d.R.], abbiamo bandito un concorso a inviti rivolto a dieci giovani curatori italiani e austriaci ai quali abbiamo chiesto di pensare un ipotetico padiglione Italia-Austria. La giuria, composta da Massimiliano Gioni, Matthias Mühling e me, ha scelto il progetto di Simone Frangi, che è un po’ cucito addosso a Museion, perché affronta la situazione di confine parlando dell’identità etnica e linguistica e di come possano essere fluide. Museion per me ha un’identità fluida: mi piace pensarlo come un museo transgender.

 L’ultima domanda è sulla sede: quanto ha influito l’architettura di Museion sulle pratiche curatoriali? C’è qualcosa di cui non potresti più fare a meno e c’è invece qualcosa che cambieresti?
È difficile da ammettere, ma l’architettura influisce sulle scelte curatoriali, ad esempio noi facciamo pochissime mostre di video, perché non abbiamo gli spazi per farle, e questo sarebbe quello che chiederei se potessi cambiare l’edificio, più zone con poca luce o oscurabili.
Il pubblico e gli artisti amano il dialogo con il paesaggio offerto dalle grandi vetrate: penso a Ceal Floyer che, nel 2014, ha fatto un lavoro impercettibile, attaccando alla vetrata gli angolini in carta dei vecchi album di fotografie, in pratica dicendoci: “Guardate fuori, il paesaggio è come una fotografia”, o anche a Judith Hopf, due anni fa, che ha messo le sue pecore di cemento vicino alla facciata perché dialogassero con il paesaggio. L’architettura influisce sulle mostre: alla fine l’edificio è come un marito o un figlio, devi impararci a convivere, a lavorare con i suoi pregi e i suoi difetti.

Sara d’Alessandro Manozzo

www.museion.it

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Sara d'Alessandro

Sara d'Alessandro

Sara d'Alessandro Manozzo (Roma, 1982) è storica dell’arte e curatrice. Dopo una laurea in Studi storico-artistici, ha lavorato al dipartimento curatoriale della GAM di Torino. Dal 2013 collabora freelance come coordinatrice per mostre ed eventi culturali e come autore ed…

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