Ulay. Intervista con l’avversario invisibile

Per celebrare i vent’anni di Art For The World, Adelina von Fürstenberg sceglie – fra gli altri – Ulay. Dopo 39 anni, al MAH di Ginevra, nella stessa sala dove venne attuata la performance “Balance Proof” assieme a Marina Abramovic, il 5 aprile l’artista tedesco propone un nuovo progetto, dal titolo “Invisible Opponent”. Lo abbiamo intervistato.

Il 5 aprile, al Musée d’Art et d’Histoire di Ginevra, i posti saranno sempre liberi fino ad esaurimento, ma selezionatissimi. Ulay (Uwe Frank Laysiepen, Solingen, 1943), nella stessa sala in cui aveva fronteggiato, completamente nudo, nel 1977, lo specchio sorretto da Marina Abramovic, torna a mettere in atto una nuova performance. In solitaria, di fronte a 120 persone al massimo, con Invisible Opponent.
Il giorno precedente, invece, 4 aprile, all’auditorium del museo verrà presentata la proiezione del suo film documentario (presentato al Centre Pompidou, allo Stedelijk Museum e alla Neue Galerie di Berlino), Performing Life, del 2011. Inoltre verrà ufficialmente illustrato il progetto sonoro collettivo World Water Joy.

In Balance Proof, avvenuta al MAH di Ginevra nel 1977, la dimensione verticale della simmetria quale aspetto dell’equilibrio tendeva a rafforzare?
Il lavoro ruotava attorno all’asse verticale e il suo titolo rimandava a una sorta di equilibrio, di bilanciamento mantenuto da due corpi impegnati a sorreggere una lastra, caratterizzata da una doppia superficie specchiante. L’idea da sviluppare ruotava attorno al fatto che noi due non fossimo in grado di vederci, nonostante la vicinanza, avendo a che fare solo con la propria immagine. Eravamo due corpi, vicini l’uno all’altro, che, pur percependosi, rimanevano interrotti da uno specchio. Superficie che copriva la maggior parte delle nudità. Il riflesso e la prossimità non ci permettevano di comprendere, di osservare direttamente quale potesse essere la reazione dell’altro.
Ma a un certo punto della performance entrambi i corpi si dovevano staccare da questa connessione, correndo nello stesso momento e velocemente, ciascuno dalla propria parte. A questo punto gli spettatori dovevano diventare testimoni, pronti a decretare verso quale lato sarebbe caduto lo specchio. Al MAH, trentanove anni fa, io lasciai lentamente per primo lo specchio, che cominciò a inclinarsi verso di me, fino a che non toccò il suolo, in un certo senso rincorrendomi, ma senza rompersi.

Ulay, A Skeleton in a closet 2, Stedelijk Museum, Amsterdam - photo Ernst van Deursen

Ulay, A Skeleton in a closet 2, Stedelijk Museum, Amsterdam – photo Ernst van Deursen

La performance si è trasformata, in quello stesso ambito, in una sorta di prova di resistenza e di stabilità?
Lo specchio era tenuto in equilibrio da una leggera pressione dei corpi, ma nessuno dei due avrebbe dovuto spingere eccessivamente verso l’altro, altrimenti un corpo avrebbe potuto lasciar intendere all’altro di staccarsi, di andarsene, addossando troppo peso. Non abbiamo mai previsto una contro-pressione. Dunque, come suggerisce il titolo, la lastra doveva rimanere in verticale. seguendo un equilibrio fatto di continui aggiustamenti.
Nessuno dei due avrebbe dovuto sapere, fino all’ultimo, quando l’altro, dalla parte opposta, avrebbe lasciato la propria posizione. Il solo elemento che si doveva intuire sarebbe stato il momento in cui correre rapidamente al di fuori della portata dello specchio, per non riceverlo sui piedi, o direttamente addosso, mentre si trovava in caduta. La lastra era davvero molto pesante e questo si realizzava ogni volta avvenuto lo schianto con il suolo.

Oggi, invece, a trentanove anni di distanza da Balance Proof, come Invisible Opponent valorizzerà la dimensione orizzontale e perché?
Sto per combattere, per contrastare la mia stessa immagine riflessa allo specchio. E ovviamente questo non può essere realizzato attraverso una dimensione verticale, a meno che la mia ombra non venga posta a parete, oppure non venga messa in una sorta di bacheca riflettente. Ma quando l’uomo combatte, combatte a terra.

Fisicamente e mentalmente, come ti stai preparando per Invisible Opponent?
L’occupazione principale di queste ultime settimane è stata quella di provare a rimanere in forma. Sono passati trentanove anni e, anche se io sono invecchiato solo di pochi anni [ride, Nd.R.], devo comunque mantenermi attivo. Mentalmente, invece, sono in ottima salute, non sono per nulla preoccupato.
Non amo mai descrivere tutti gli aspetti dei miei lavori in anticipo, mai prima che la loro stessa esperienza venga resa nota anche a me. Cerco sempre di non essere troppo preciso nei dettagli. Sono una persona molto emotiva e ovviamente sono coinvolto in questo progetto, ma più si avvicina il giorno dell’esecuzione della performance e più si diventa concentrati. Ad esempio, oggi non utilizzo nemmeno la meditazione, perché so che mediterò lungo l’arco della performance in sé.

Ulay, Code of conduct - Salonicco - photo Lena Pislak

Ulay, Code of conduct – Salonicco – photo Lena Pislak

Parlando invece dello specchio, quali riflessi, quali riflessioni oggi ti spinge a fare? Nella performance quale differenza c’è tra il corpo e la persona?
Quando in un discorso viene coinvolta la performance, si tratta il corpo inerentemente. Non esiste discrimine tra il corpo e l’atto performativo. Sono lo stesso elemento. Specialmente quando sei definito un body artist. Inoltre la produzione dell’immagine che avverrà, darà luogo a un me stesso non dissimile. Sarò io comunque che combatterò contro di essa. Dovrò guardare in basso tutto il tempo per figurarmi in una contro-parte che sarà comunque fatta di me.
L’altro sarò io. Un io che, in un certo sarà tangibile e instillerà una sfida, una lotta contro la mia bidimensionalità. Come suggerisce il titolo Invisible Opponent, l’avversario è qualcuno che non si può accarezzare, ma è un’entità alla quale si deve far fronte, fronteggiare.

Potrebbe mai succedere, invece, di raggiungere una sorta di pace, di amore verso quell’immagine?
Dunque, la performance non sarà un reale combattimento: sono comunque una persona molto sportiva [ride, N.d.R.], specialmente quando lotto con me stesso. I sentimenti, le emozioni dell’amore hanno a che fare con reazioni fisiche profonde. Inoltre che tu sia ricambiato o meno dall’amore, bisogna sempre mantenere in fronte ad esso le proprie promesse di uomo. E in questo senso durante la performance non ci sarà molto tempo per amare me stesso.

Ulay, A Skeleton in a closet 2, Stedelijk Museum, Amsterdam - photo Lena Pislak

Ulay, A Skeleton in a closet 2, Stedelijk Museum, Amsterdam – photo Lena Pislak

Potresti descrivere il progetto World Water Joy? Perché lavorare con i suoni dell’acqua?
Tutto è iniziato nel 2012, quando ho creato l’Earth Water Catalogue, voluto come una sorta di progetto collettivo di sensibilizzazione. L’idea verteva attorno alla creazione di un sito Internet che raccogliesse contributi, di qualsiasi formato, da parte degli artisti di tutto il mondo; per dare uno sguardo più visionario sul difficilissimo argomento acqua.
Dopo diversi interventi espositivi sul tema – dapprima in Slovenia, con il duo francese Société Réaliste, poi a New York, poi in Olanda nel 2014, per il World Water Day – nuovamente a New York, il 6 maggio inaugurerò un nuovo progetto, il New Water Culture, una mostra ancora in divenire che mi vedrà impegnato con Jaša. Assieme rivitalizzeremo il progetto dell’Earth Water Catalogue e ci ricollegheremo alla collezione di suoni, provenienti da tutto il mondo, e raccolti dalla piattaforma World Water Joy, curata da Art For The World.

Qual è, oggi, la tua definizione di performance?
La prima volta che ho applicato il termine performance a un ambito, a una visione dell’arte contemporanea, era il 1971; questa parola proveniva, ovviamente, dal mondo anglosassone. E in sé contiene molteplici definizioni. Oggi mi interessa offrire una performance applicata a quello che sono, così come sono. La performance diventerà il mio corpo e la mia mente, nonostante le loro possibili caducità. Attualmente non so come Invisible Opponent potrà presentarsi al pubblico. Sarà però una grande performance. E anche se il MAH fa parte della mia storia, il luogo della performance sarà sempre il corpo. Sebbene non sarò completamente nudo come trentanove anni fa, non interamente.

Come possono prepararsi i giovani performer alle loro mise en place?
Non prepararsi affatto, ma integrare qualsiasi azione con la multimedialità. Ritengo che ci si formi, mentalmente, solo nell’atto performativo. Tempo in cui amo ancora sorprendermi

Ginevra Bria

Ginevra // 4-5 aprile 2016
Ulay – Invisible Opponent
MAH – MUSÉE D’ART ET D’HISTOIRE
Rue Charles-Galland 2
+41 (0)22 4182600
[email protected]
www.mah-geneve.ch

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Ginevra Bria

Ginevra Bria

Ginevra Bria è critico d’arte e curatore di Isisuf – Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo di Milano. È specializzata in arte contemporanea latinoamericana.

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