Trent’anni di fotografia. Intervista a Nino Migliori

La Galleria M77 di Milano ospita la sua prima mostra dedicata alla fotografia, con un autore d’eccezione, che abbiamo intervistato.

La galleria M77 dedica a Nino Migliori (Bologna, 1926) la prima mostra di fotografia dalla sua apertura nel 2014, a cura di Michele Buonuomo. Della variegata attività fotografica di Migliori ampio spazio nella mostra hanno le prime serie di stampo neo-realista realizzate negli Anni Cinquanta. Dopo questi inizi la ricerca di Migliori si dirama e la sua ricerca si appunta su questioni di ordine meta-linguistico. Momento di passaggio da una fotografia di stampo narrativo a una più concettuale è la serie dei Muri, collocata significativamente ad apertura della mostra. Esposti al piano superiore della galleria, i Pirogrammi e i Cliché-verres sono opere figlie dello sperimentalismo più radicale in virtù del quale Migliori si è guadagnato la fama di fotografo anomalo, fautore di una ricerca indipendente.
Tre serie molto diverse per esigenze espressive ed esiti formali sintetizzano trent’anni di un percorso complesso ed eterogeneo di uno dei più interessanti fotografi italiani della seconda metà del Novecento.

Nino Migliori, dalla serie Muri, anni ’70

Nino Migliori, dalla serie Muri, anni ’70

L’INTERVISTA

Com’è nato il progetto per questa mostra alla galleria M77?
Giuseppe Lezzi e Emanuela Baccaro, che hanno puntato la loro attenzione sul contemporaneo e su autori che fanno della ricerca il loro orizzonte lavorativo, hanno pensato di aprire la loro splendida sede alla fotografia inaugurando questo nuovo indirizzo con miei lavori. Ovviamente tutto ciò mi ha inorgoglito e fatto molto piacere.

La mostra presenta tre serie molto diverse per presupposti di ricerca, esigenze espressive ed esiti formali: cosa sta alla base di questa scelta espositiva?
Gli spazi di M77, che hanno lo stesso respiro di importanti gallerie internazionali, potevano presentare e sostenere anche una mostra antologica rintracciando linee di ricerca costanti all’interno del mio percorso che ormai sta per compiere 70 anni. Ma Michele Buonuomo, raffinato e colto curatore del catalogo, ha pensato di individuare un periodo preciso del mio lavoro che già al suo nascere aveva in atto una molteplicità di linguaggi e di analisi del mezzo: sperimentazione, realismo e muri.

Le serie Gente del Sud e Gente dell’Emilia rientrano pienamente nella corrente neo-realista del secondo dopoguerra. Come è nata l’esigenza di documentare un’Italia in piena ricostruzione?
Ho iniziato a fotografare nel 1948. Era finita la guerra e tutto ciò che di negativo comportava: paura, mancanza di libertà in tutti i sensi, dolore. Si poteva di nuovo vivere, frequentare serenamente persone e luoghi, il quotidiano era di nuovo ricco di possibilità di incontri, di scoperte e per me la fotografia era il mezzo più idoneo per riappropriarmene.

Nino Migliori. Il tempo, la luce e i segni. Exhibition view at Galleria M77, Milano 2017

Nino Migliori. Il tempo, la luce e i segni. Exhibition view at Galleria M77, Milano 2017

Durante una conversazione con Giorgio Zanchetti, Silvia Paoli e Anna Valeria Borsari (comparsa nel numero 9 de L’uomo Nero) lei ha detto: “La fotografia non deve descrivere, ma interpretare“. Esiste quindi una contraddizione tra l’intento documentaristico del fotoreportage e i pericoli ideologici che sottostanno alla realizzazione di questi stessi reportage?
La fotografia è sempre un punto di vista: quello del fotografo.  E aggiungo che la fotografia è racconto, è narrazione fatta da una persona che ha sentimenti, idee, idiosincrasie, passioni che necessariamente si riflettono nelle situazioni, nella realtà che sceglie di rappresentare e interpretare.

Il colore non compare mai nelle serie appena citate. A cosa è dovuta la preferenza per il bianco/nero?
Negli Anni Cinquanta si fotografava e si stampava in bianco/nero. L’abilità nella stampa era uno dei punti di forza e di orgoglio di un fotografo che sviluppava i negativi e stampava le sue fotografie personalmente. In generale non ho una preferenza, la scelta tra bianco/nero e colore dipende dal progetto.

È stata una sorpresa trovare il suo celebre Tuffatore in negativo. A cosa si deve questa scelta?
Quella che è esposta in mostra è la stampa a contatto del negativo.  Spesso mi viene chiesto se la perfezione dell’atto sportivo del tuffatore, che è perfettamente parallelo all’orizzonte, sia frutto di un “un aiutino digitale”. Mostrare il negativo mi pare una risposta semplice e diretta.

Dal realismo delle serie scattate nel secondo dopoguerra alla ricerca sperimentale più radicale e originale: in queste tre serie esposte sembra di scorgere un progressivo abbandono di un’esigenza narrativa della fotografia, è così?
La fotografia è sempre narrazione, anche quella più informale, astratta. La fotografia realista è più aperta e diretta, ma anche i Pirogrammi, i Cliché-verres, come quelli in mostra, raccontano un gesto, esprimono l’intensità di una azione. Anche in letteratura ci sono stili e generi diversi e ogni autore utilizza quello a lui più congeniale.

Nino Migliori, dalla serie Muri, 1955

Nino Migliori, dalla serie Muri, 1955

Qual è il suo rapporto con la pittura? Quali pittori della storia più o meno recente hanno influenzato la sua pratica?
Ho tanti amici pittori, frequento mostre e tutto ciò che è immagine mi interessa, dalla cosiddetta arte primitiva alla contemporanea. E certamente tutto ciò che si vede, che si conosce ci informa, forma e lascia una traccia. Per esempio nel mio lavoro in progress di ritratti “a lume di fiammifero” mi riferisco prevalentemente alla luce di Caravaggio.

Ho notato che la serie dei Pirogrammi è riportata su tela; si tratta di un’estensione concettuale del suo utilizzo della fotografia non come mezzo per ritrarre e descrivere, ma come genere linguisticamente autonomo rispetto alla pittura e alla scultura?
Aver stampato negli Anni Cinquanta quelle sperimentazioni su tela fotografica era dovuto al fatto che frequentavo lo storico Studio Villani che aveva a disposizione quel materiale che dava la possibilità di fare stampe di grande formato in dimensioni superiori a quelle della carta.

La serie dei Muri è una delle sue più amate e conosciute. Con le loro scritte, o cartelloni pubblicitari strappati, i Muri attirano l’attenzione, alla luce delle tracce lasciate dal passaggio dell’uomo. Tuttavia protagonista di queste opere è senz’altro anche la Natura. Questa serie può essere letta come una riflessione sul tema del paesaggio, in virtù delle autonome qualità formali che queste superfici presentano?
Per tornare a ciò che si diceva precedentemente, tutte le fotografie sono una interpretazione. Sono un paesaggio urbano e io ho scelto di rappresentarlo attraverso i muri o, come si usa definirli oggi, “la pelle della città”. Un paesaggio a più declinazioni che, come giustamente lei indica, rappresentano il passaggio dell’uomo, del tempo, della natura.

Nino Migliori, dalla serie Muri, 1952

Nino Migliori, dalla serie Muri, 1952

Che rapporto ha con la città di Milano?
Ho sempre avuto un buon rapporto, Milano è sempre stata aperta alla fotografia e l’ho frequentata assiduamente negli Anni Settanta. Due esempi storici: la rivista Progresso fotografico, con i suoi redattori Attilio Colombo, Alberto Piovani, Roberta Valtorta, e la galleria Il Diaframma di Lanfranco Colombo.

Sta lavorando a nuovi progetti? Cosa cattura oggi la sua attenzione di fotografo?
Sono interessato alla didattica e continuo a seguire il progetto realizzato al Mast, splendida realtà bolognese, con nuove esperienze. I progetti sono sempre tanti e si accumulano, si intrecciano, ne ho aperti in contemporanea tre o quattro e poi sono attratto dalla vita in tutti i suoi aspetti e ne vengo ammaliato totalmente.

‒ Giulia Kimberly Colombo

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