Resuscitare il cinema con l’arte. Damien Hirst raccontato da Marco Giusti

Il critico cinematografico Marco Giusti legge la mostra-evento di Damien Hirst a Venezia usando la lente della settima arte. Recuperando l’immaginario filmico del passato e storicizzando il presente.

Ho un paio di storie da raccontar”, cantava Kirk Douglas in 20.000 leghe sotto i mari di Richard Fleischer, forse il primo grande film di avventure sotto i mari con poliponi giganti della nostra infanzia. Nostra, cioè mia, e magari anche di Damien Hirst, che sembra riproporre quell’immagine indelebile, quella dei sub, ripresi da lontano, dal fondo del mare a sinistra, che vanno verso la nave perduta e i suoi tesori, in certe foto e in certi video della sua mostra, Treausure from the Wreck of the Unbelievable, mischiata, ovvio, a altre mille cose, dall’inizio di Titanic di James Cameron a Jason and the Argonauts di Don Chaffey, 1963.
Perfino i personaggi più amati di Walt Disney, Pippo e Topolino, e nel rimando a 20.000 leghe sotto i mari ce n’è anche uno a Disney, perché quello fu il suo primo grande successo non animato, da produttore. Anche se il polipone gigante, uno dei primi grandi mostri visti al cinema, era ovviamente animato.
Come i mostri meravigliosi di Ray Harryhausen, maestro puppeteer di tutti i grandi mostri della nostra infanzia cinematografica a passo uno.  A proposito, è proprio in Jason and the Argonauts che appare uno dei grandi giganti mostruosi della nostra infanzia, non a caso animato da Ray Harryhausen E, guarda caso, un gigante, pur se decapitato, troviamo al centro di Palazzo Grassi. Magari non è simile a quello di Harryhausen, e nemmeno al Colosso di Rodi del film omonimo di Sergio Leone. Ma la sua testa, come scagliata sul pavimento della hall del palazzo, ci riporta a quella del vampiro Barlow di Reggie Nalder in Salem’s Lot di Tobe Hooper. Forse mischiata al muso del mostruoso essere di The Reptile di John Gilling, uno dei capolavori della Hammer Film, e particolarmente amata dai ragazzi, non solo inglesi, cresciuti nella seconda metà del Novecento.

Damien Hirst, Treasures from the Wreck of the Unbelievable, ph. Irene Fanizza

Damien Hirst, Treasures from the Wreck of the Unbelievable, ph. Irene Fanizza

UNA MOSTRA-FILM

In qualche modo, Hirst costruisce la sua mostra come un film. O, se vogliamo, come un film da fare o da ricomporre nella nostra mente. C’è un prologo, come nel Titanic, il video, che giustifica una storia da seguire, un copione da grande film d’avventura, che si dipana di sala in sala, con tanto di modellino della nave che porta i tesori del liberto-collezionista Cif Amotan (Jason and the Argonauts, il Satyricon di Fellini), ci sono i momenti clou, gli effetti speciali come in un qualsiasi Spider Man o X-Men di oggi, le star, da Kate Moss a Hirst stesso. E Kate Moss non è trattata in maniera tanto diversa da come la Hammer trattò allora Ursula Andress in SheLa dea della città perduta o Raquel Welch in Un milione di anni fa, entrambe citate da Hirst, anche se al posto loro, come eroine delle storie, mette modelle o amiche più vicine a lui e al suo mondo. Ma l’idea della “superfiga” inserita nella situazione horror o d’avventura, ricoperta d’oro come in She o in lotta con orsi o mostri giganteschi è la stessa.
Potrei andare avanti parecchio. Ricordarvi la mostruosa Gorgone del film The Gorgon di Terence Fisher, sempre Hammer, come il fondamentale The Lost Continent, che da noi si chiamava La nebbia degli orrori, di Michael Carreras, con la ragazza appesa alle rocce in pasto al mostro gigante. Ma il film di Carreras è importante anche come base per la serie dei Pirati di Gore Verbinsky con Johnny Depp. Il pericolo che viene dal profondo del mare, assieme a tesori e a decomposizioni.
E da quei pirati, da Keith Richards, Bill Nighy ricoperti di licheni viene una delle trovate fondamentali della messa in scena di Hirst. L’invecchiamento delle opere sotto il mare, l’invecchiamento di vecchie star del rock e del cinema, che diventano parte del racconto. Farne qualcosa di vivo/morto/risorto grazie al fondo del mare. L’idea, insomma, sembra proprio essere quella di sfidare ciò che resta del cinema di oggi, così poco “cinema” e troppo messa in scena artistoide un po’ eccessiva se non cafona (pensiamo al recente King Arthur), giocando proprio con gli amori incredibili del (suo/nostro) passato, come i capolavori popolari negli Anni Sessanta e Settanta della Hammer Film o di Harryhausen, che vengono a galla dal fondo della nostra memoria. E fino a qui, diciamo, nulla di nuovo, nulla che non abbia già fatto Tarantino con gli spaghetti western o coi macaroni war movies.

STORICIZZARE L’ATTUALITÀ

Ma Hirst fa anche qualcosa di diverso. La sua è anche una rilettura della scena Brit Pop degli ultimi venti-trent’anni, cercando di storicizzarla. E come la storicizza? Proprio dandole un passato assolutamente favoloso di cinema. Mischiando elementi della sua infanzia di spettatore con la materia ricca dell’arte, come avrebbe fatto un costumista o uno scenografo di Cleopatra o di Ben-Hur.
Ricordate l’abito tutto d’oro vero di Liz Taylor? E il galeone della triremi dove voga Charlton Heston? In pratica, Hirst si serve del cinema, oltre a farlo, per rendere la sua ricerca credibile. Un po’ come fanno tanti registi inglesi di ora, come Guy Ricthie, che recuperano in maniera un po’ cafona i miti del passato cercando di rimodernarli. O come vediamo in certe serie, penso alla recente Taboo scritta da Steven Knight con Tom Hardy. Ma se nel cinema questa operazione non funziona più come una volta, perché il cinema non è più al centro del nostro immaginario, ahimè, nell’arte ci prende totalmente. Perché Hirst mischia l’idea di collezionismo d’arte e di collezionismo di toys cinematografici, recupera i capolavori della Hammer, la creatività manuale di Harryhausen e quella di firma padronale di Walt Disney (magari non è solo un omaggio, Hirst si sente Disney, accanto a Mickey Mouse) e fissa per sempre Kate Moss come icona del secolo come fosse Ursula Andress negli Anni Sessanta, gioca con la nostra e con la propria memoria per arrivare sempre più al fondo del fascino che abbiamo per l’avventura, per il ritrovamento, per la messa in scena, per il teatrino dei burattini.
Quello che non riesce a fare il cinema, o ci riesce solo marginalmente, e penso ai migliori episodi dei Pirati, Hirst riesce a farlo con l’arte. E portando le sue opere proprio nel posto più artistico, più teatrale, più cinematografico del mondo come Venezia. Lì il gigante, chiuso dentro Palazzo Grassi, ha un senso, lì ha un senso l’Hydra, Aracne, costruita un po’ come Alfred Molina in Spider Man. L’idea del recupero del tesoro dal fondo del mare si fonda con l’idea che lì ci sia anche la nostra memoria, ci siano i mostri, come in 20.000 leghe o come in The Lost Continent o nei Pirati, ma lì c’è anche la storia di un’avventura creativa che si sta concludendo e che Hirst cerca di raccontare, riscrivere, fissare per sempre. Mostrandoci al tempo stesso cosa sia un collezionista, un padre creatore alla Disney, un puppeteer, un fan di Kate Moss, un hooligan, un piccolo spettatore, e probabilmente un artista. Magari senza testa perché era troppo alto per entrare nel cuore di Palazzo Grassi.

Marco Giusti

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