Qui Venezuela. Uno sguardo su Caracas

Il nostro viaggio in Sudamerica è iniziato a settembre, con il reportage dall’Argentina e dalla sua capitale, Buenos Aires. Ora ci siamo spostati a Caracas, e lo sguardo sulla città è quello offerto da un testimone d’eccezione: l’ambasciatore italiano in Venezuela.

Sul pelo dell’acqua, una pellicola di cobalto trema e si fa cangiante a ogni soffio del vento, le lettere gialle sbattono come movimenti delle palpebre o guizzo di scaglie, e scivolano via galleggiando come una curva mobile, che si fa serpente mutevole. Una linea immaginaria, si legge sul mare, prima che la corrente la porti via. È un’installazione video di Hayfer Brea, un artista venezuelano, parte di una mostra che ha proprio quel titolo, Una linea immaginaria, e che gioca sul concetto di orizzonte: mutevole come quest’ultimo, una linea retta, per definizione senza punti di inizio e di fine, che ripete se stessa ovunque la si trovi tesa, a separare il mare dal cielo, o sulla sella di una catena montuosa, o sullo zig zag sagomato di una metropoli. L’opera di Brea, esposta nel Museo di arte contemporanea di Caracas – lo stesso che ospita un Concetto spaziale concepito in situ da Lucio Fontana, l’Omaggio al quadrato di Josef Albers e naturalmente pezzi forti dell’arte cinetica di Jesús Soto e di Carlos Cruz-Diez – tratteggia una caratteristica propria dello spirito venezuelano.

LA MUSICA NEL DNA

Il Venezuela è mobile e mutevole come la musica e il ballo, elementi cardini di un Dna che incorpora eredità africane ed europee, arawak e mediorientali, andine e asiatiche. La musica, si sa, non può essere trattenuta, si fonda su una percezione estetica che ha nel tempo il suo nucleo: impossibile soffermarsi ad apprezzarla un istante di troppo, perché se l’ascoltatore cerca di trattenerla la distorce, danneggiandone la bellezza. E così il ballo, che non può essere cristallizzato in un momento o in un altro, giacché i corpi, splendidi nell’equazione irripetibile del movimento, diventano – quando sono fermi – qualcos’altro, privi della loro grazia originale, come quei pesci che ammiriamo sott’acqua, nell’iridescenza delle scaglie, e che una volta catturati e disseccati diventano una pietra smorta, un blocco argilloso.
Così è il Venezuela, una bellezza composita e cangiante che riflette nell’acqua del Caribe il movimento senza inizio e senza fine – come la retta della linea immaginaria – della luce solare sulle sue scaglie di sirena immensa.

Città Universitaria, Caracas

Città Universitaria, Caracas

UN PAESAGGIO COMPOSITO

Tuttavia, a differenza di altre culture caraibiche, quella venezuelana si è espressa con le immagini non meno che con le note e con i passi di danza: ha sempre avuto, e ancor più a partire dalla metà del XX secolo, una creatività figurativa. Le linee e i colori, declinati con preferenza nella ricerca di un ordine geometrico, sono l’altra faccia di un popolo che ama il fecondo disordine, la travolgente asimmetria dei ritmi di danza. È come se dinanzi a un foglio di carta o a una tela il venezuelano sentisse l’esigenza di fermare il fluire del tempo che scandisce la musica, di fissarlo nella bidimensionalità di un disegno o di un quadro o nella tridimensionalità di una scultura, per razionalizzare e comprendere un’anima così cangiante.
Perciò gli artisti da decenni percorrono il paesaggio del Venezuela in tutte le sue variabili, facendone un terreno fertile di espressione: le Ande, all’estremo occidentale del Paese, dove la carta geografica di quest’ultimo si accartoccia proiettandosi in verticale verso e oltre i 5.000 metri, arrampicandosi su gioghi e balze fine all’allucinazione del párramo, parola intraducibile che contrassegna un pianoro disteso in orizzontale sugli abissi, come la proiezione di un trapezio costellata di cactus e licheni. O la frastagliata ferita della costa, le migliaia di chilometri marcate dalla spuma, dalla polvere delle conchiglie e dalle mangrovie, piante con le radici infisse nel fondale, che segnano un confine instabile – una volta ancora – tra la dimensione acquatica e la terra. Lo stesso confine che, proiettato verso l’alto, diventa cascata impossibile perfino da pensare, mille metri di precipitazione diretta di un fiume: il Santo Ángel che nasce dal tetto dei tepuy, formazioni rocciose preistoriche, e va a morire nella foresta amazzonica. E ancora, le città disseminate tra giungla e insenature, tra deserto e fiumi dall’ampiezza di un mare: città – Caracas, Valencia, Maracaibo – dove enormi pappagalli dai colori chiassosi si posano sui tetti di zinco dei quartieri marginali e gli avvoltoi neri affollano i giardini delle ville.

SENZA CEDERE AL FOLKLORE

Tutto questo materiale complesso e generosamente disordinato non si è tradotto in macchie di pittura folcloristica o in bozzetti di costume, né in esplosioni di un barocco magico. Gli artisti venezuelani hanno preferito estrarne l’essenza razionale, combattendo contro l’istinto di abbandonarsi alla feconda follia del tropico e studiando le regole della fisica e della matematica che sottendono alla natura.
Ecco dunque che un elettroencefalogramma indaga le profondità della mente e riaffiora sulle pagine dei libri esumati di Luis Arroyo, forse l’artista più paradigmatico del Venezuela contemporaneo, insieme a Magdalena Fernández e alle sue delicate e feroci costruzioni, leggere come veli di carta di riso e pesanti come macigni di granito. Ecco, nelle foto e nei video di Ángela Bonadies, la denuncia permanente di un mondo che non si riesce a ridurre a nessuna formula definitiva. Ecco le geometrie di Luis Millé, mai statiche, sempre in tensione, come sul punto di esplodere con uno snap sonoro e scattare libere dall’ancoraggio al suolo. O le simmetrie di Jasón Gallaraga, che tracciano alfabeti alternativi, fatti più per complicare che per decifrare la scrittura: per ricordarci che quest’ultima non è mai chiusa ma resta sempre aperta ad altro: altra lingua, altri suoni, altri significati.

Città Universitaria, Auditorium Calder, Caracas

Città Universitaria, Auditorium Calder, Caracas

ARTE ALL’UNIVERSITÀ

Caracas è senza dubbio la sintesi di tutto quel che è il Venezuela. Città moderna, metropoli di viadotti invasivi e grattacieli, ma anche di immensi parchi verdi, di ville di lusso e centinaia di migliaia di ranchos, baracche di lamiera, zinco o mattoni a vista, giace distesa come un lenzuolo sulla conca di una valle tra montagne ricoperte di vegetazione tropicale fittissima, seguendo i corso di fiumi oggi in gran parte spariti, incanalati artificialmente o sepolti sotto tonnellate di asfalto e cemento. Il tropico e il mare ci sono e non ci sono: i Caraibi sono lì, a dieci chilometri in linea d’aria, ma per raggiungerli bisogna scendere dai mille metri di quota e scavalcare la meravigliosa sentinella naturale del monte Ávila.
Caracas è arte, arte ovunque. La città universitaria, al centro della capitale, è patrimonio dell’umanità, creazione avveniristica, negli Anni Cinquanta, del grande architetto Carlos Raúl Villanueva, che distribuì chilometri di corridoi all’aria aperta coperti da tettoie di cemento armato sorprendentemente leggere, dolcemente curvate e sostenute da pilastri su un solo lato, tanto che dall’alto paiono galleggiare nel vuoto. Gli studenti vi sciamano sotto, al riparo dal sole del tropico, accentuato dai 1.000 metri di altitudine, e si dirigono verso l’aula magna, dove nel 1953 Alexander Calder installò le sue nubi, il primo esempio di pannelli mobili che ampliano e perfezionano l’acustica dello spazio, divenuto grazie a quella soluzione una delle migliori sale da concerto del mondo. Fuori, sotto gobbe di cemento talmente lucido da sembrare specchi di acciaio, si succedono a centinaia opere di Jean Arp, Wilfredo Lam, Victor Vasarely, Henrti Laurens, spesso concepite ad hoc per questi ambienti, fino all’esplosione cromatica della vetrata della biblioteca, la più grande mai realizzata da Fernand Léger.

BRUTALISMO E COLLEZIONISMO

Non lontano da lì, vicino al Parque Central, emerge la massa un po’ rozza ma geniale – in perfetto stile brutalista – del museo dell’arte contemporanea. Opera di Nicolas Sidorkovs, fu inaugurato nel 1973 su impulso di una straordinaria intellettuale e mecenate, Sofia Ímber, uno di quei personaggi quasi magici che fioriscono all’improvviso dove meno lo si aspetta: nata in Moldavia nel 1924, emigrata bambina in Venezuela, amica di presidenti autoritari come Pérez Jímenez ma anche di oppositori di sinistra liberale, come quel Carlos Rangel che sposò e che poi morì suicida nel 1988; studentessa di medicina, intellettuale, giornalista, pioniera della televisione, amica di Picasso e Neruda, collezionista e creatrice del primo grande museo di arte contemporanea dell’America del Sud. Che oggi, pur tra difficoltà e affanni, mantiene intatto il fascino potente degli spazi immensi, delle vetrate, delle scale mobili esterne e di quelle a chiocciola interne, delle opere in situ come quella di Lucio Fontana e della collezione impareggiabile di Picasso raccolti dalla Ímber.

Los Galpones, Caracas

Los Galpones, Caracas

UNA SERA A TEATRO

Negli stessi anni fu inaugurato anche il teatro Teresa Carreño, intitolato a una grande pianista venezuelana: un blocco poderoso di cemento che riesce a snodarsi più leggero di quanto appaia, ricavando spazi al suo interno come in gusci di conchiglie spigolose, impreziositi dagli interventi del genio cinetico di Jesús Soto, che ha piazzato nei punti strategici cubi virtuali, foreste di lance gialle appese a testa in giù o piramidi acustiche di legno nobile nel soffitto della grande sala José Ribas. In mezzo a tanta modernità, un terrazzo espone un busto in bronzo, classicamente ottocentesco, di Giuseppe Verdi.
Nel Teresa Carreño si esibiscono spesso solisti e orchestre sinfoniche del celebre Sistema fondato dal maestro Abreu, che ha però la sua sede istituzionale non lontano da lì, nell’edificio della fondazione, undici piani di tempio della musica colta divenuta da quarant’anni fenomeno popolare e progetto sociale. In quegli undici piani ricorrono nuovamente le installazioni di Soto e Cruz-Diez, a ribadire il matrimonio indissolubile, in Venezuela, tra visioni e sonorità.
Un altro teatro, più piccolo, ricoperto di pannelli arancione, è quello del municipio più ricco, Chacao, che funge anche da galleria d’arte, con il nome di Caja: una struttura pubblica in grado di offrire produzioni di avanguardia assoluta. Qui, ad esempio, il maestro Cruz-Diez ha esposto le sue più recenti opere in formato effimero, enormi pannelli di Optic Art realizzati con una plastica adesiva destinata a distruggersi quando viene staccata dalla parete, una volta chiusa la mostra.

ISOLE D’ARTE IN UN MARE DI SOFFERENZA

In un altro quartiere ricco, lungo il viale de las Mercedes, anni fa centro della movida di Caracas, bisogna scendere oggi di una decina di metri sotto il livello della strada per accedere, al sicuro dalla criminalità che angustia la città, al centro culturale Trasnocho, dove si trovano cinema, teatri, librerie e la sala TAC, un altro gioiello espositivo dell’arte contemporanea diretto da Félix Suazo, raffinato curatore di origine cubana.
Altrove, altre isole nella città, che purtroppo vive anni di sofferenza e di pericolosità: ragazzi sdraiati nell’erba di un giardino inglese impeccabile racchiuso in un bunker di muri alti, nel quartiere de los Chorros, in un grande centro ricavato da strutture industriali, Los Galpones, dove si trovano cinque o sei gallerie di prim’ordine, una libreria, bar, ristoranti. Espacio Monitor y Abra sono forse i centri espositivi più importanti, in tale contesto. Più a est ancora, quasi fuori della città, quello che un tempo era un terreno occupato da una fattoria e da capanni di essiccazione del tabacco (los secaderos) diventa adesso la Hacienda La Trinidad: stessa formula, ma con più spazio e più aria libera, e gallerie quasi basilesi, cubi di cemento e mattoni al cui interno si espone la contemporaneità più avanzata. Forse quella di Carmen Araujo, che occupa l’essiccatoio numero 2, è la galleria più nota non solo della Trinidad ma del Venezuela, presente com’è da tempo ad Art Basel e nelle più importanti fiere del mondo.
Le gallerie e i centri culturali sono ancora tanti, sparsi in ogni angolo della città, come la GBG, che invita l’amante dell’arte a cercarla con affanno, nascosta in un’ansa di una strada di veloce scorrimento a Prados del Este. Ma cercare vale la pena, come nei casi già menzionati e in tanti altri che pure meriterebbero di essere raccontati.
Si dice che quando i conquistatori chiesero agli indigeni il nome del luogo in cui si trovavano, sulle rive di un fiume che scendeva rigoglioso dalle montagne, si sentirono rispondere Caracas. Fu un equivoco, perché i locali credettero che gli si chiedesse il nome di una piantina che spuntava tra l’erba, l’amaranto. Da questo errore in fondo bellissimo nacquero forse una città e un paese costruiti sulla mutevolezza cangiante di forme, suoni e colori.

Silvio Mignano

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #34

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