Dollari come carta da parati per Maurizio Cattelan: prime immagini dall’allestimento di Shit and Die, con l’installazione shock di Eric Doeringer

Se il colpo d’occhio non fosse così soverchiante, seduttivamente annichilente, potresti anche considerarla un’installazione olfattiva. Perché a prenderti di soppiatto e stordirti appena messo piede nell’androne di Palazzo Cavour, ancora prima di aver imboccato lo scalone ed essere bombardato dalla gragnuola visuale che compone la prima delle opere di Shit and Die è l’odore. Quello […]

Se il colpo d’occhio non fosse così soverchiante, seduttivamente annichilente, potresti anche considerarla un’installazione olfattiva. Perché a prenderti di soppiatto e stordirti appena messo piede nell’androne di Palazzo Cavour, ancora prima di aver imboccato lo scalone ed essere bombardato dalla gragnuola visuale che compone la prima delle opere di Shit and Die è l’odore. Quello stordente dolciastro e insieme amaro come mandorle dei soldi. Tanti soldi.
Quarantamila dollari in banconote di piccolo taglio. Minimo taglio: il classico biglietto verde con il faccione di George Washington e la scritta one, unità di base – mattone fondamentale – dell’utopia capitalista occidentale. Mancano pochi giorni all’inaugurazione della mostra che vede Maurizio Cattelan tornare a Torino – dopo la Biennale di Berlino – a fare il curatore; ed ecco le prime immagini rubate da un allestimento che promette scintille. È Eric Doeringer a firmare l’intervento, facendo della pioggia di denaro una fotografia che vale come statement dell’intero progetto: che per ammissione dello stesso Cattelan parla di vita (e dunque soldi) e morte (e ancora soldi), di ricchezza (allora soldi) e povertà (magari soldi!), di passato e futuro (e soldi, soldi, soldi).
E poiché viviamo in un mondo dove, per dirla con Chuck Palahniuk, tutto è “una copia, di una copia, di una copia”, Cattelan compie lo sgambetto più fastidioso ai soloni dell’arte, ai poeti del déjà-vu. Perché sì, questo lavoro guarda a quello pressoché identico prodotto da Hans Peter Feldman per il Guggenheim; e sì, è ben chiaro che prima ancora venne quello di Gianni Colosimo, che batté i pugni sul tavolo per difendere la propria paternità sull’idea. E Colosimo è di Torino, e così in un modo perverso – squisitamente alla Cattelan – tutto si compie, il cerchio fa il suo giro. E la mostra si apre così, con un’opera bastarda orgogliosamente figlia di tanti padri.

– Francesco Sala

 

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