Erika Hoffmann, la signora dell’arte a Berlino

“Questo non è un museo, questa è una casa”. Così esordisce Erika Hoffmann con passo deciso e caschetto rosso, mostrando la porta nascosta nel muro candido che conduce al paese delle meraviglie, la sua “casa”, o meglio, l’ala della sua casa destinata alla collezione. Siamo andati a trovarla nella sua dimora berlinese.

A casa di Erika Hoffmann si arranca nelle buffe pattine da sistemare sopra le scarpe, procurate dallo staff della collezione, che ricorda le precauzioni per “non sporcare” della prozia, dopodiché si ha accesso alla prima stanza.
In quella che una volta era una fabbrica di macchine da cucito, la luce entra morbida dalle grandi vetrate, atte a catturare ogni singolo, prezioso, raggio di luce, in un paese – siamo a Berlino – freddo e nuvoloso, poggiandosi sui divani che si trovano in ogni stanza. “Ma come fa a lasciare la sua soleggiata Italia per venire qui, io non lo so”, scherza la collezionista.
Nella collezione Hoffmann le opere in ogni stanza hanno un legame concettuale ed Erika stessa si occupa di riallestirle di anno in anno. In questo modo tutte le opere vengono esposte a rotazione, la collezione viene vivacizzata e c’è la possibilità di rileggere le opere in semantiche sempre nuove. Non è tutto: i numerosi visitatori della collezione saranno spinti a tornare a vedere le nuove soluzioni. L’anno scorso i fruitori in pattine avranno magari incontrato Frank Stella, Bruce Nauman, Mike Kelley, Fred Sandback, forse quest’anno toccherà a Jean-Michel Basquiat, Felix Droese, Günher Förg, Isa Genzken, Nan Goldin e Felix Gonzalez-Torres. Può darsi l’anno prossimo avranno l’occasione di vedere François Morellet, Arnulf Rainer, Gerhard Richter o Andy Warhol.
Quel che è vero è che i nomi, per quanto appartengano a pesi massimi dell’arte, qui sono del tutto secondari rispetto alle opere stesse. Di fianco ai lavori non ci sono infatti i nomi degli artisti; una scheda con le informazioni necessarie verrà fornita se richiesta in un secondo momento, ma la fruizione, ci tiene a precisare Erika, non deve essere influenzata dalla “griffe”, com’è è giusto che sia.
Prima dell’invito a inoltrarmi nella sua casa/collezione, Erika Hoffmann si era seduta a un tavolo di fronte a un video di Silvia Kolbowski, e precisa, affabile e compassata aveva risposto alle mie domande.

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Monica Bonvicini, No Head Man, 2009, Sammlung Hoffmann, Berlino, photo Lucas Leo Catalano

Quand’è che lei e suo marito avete cominciato a collezionare arte?
Abbiamo cominciato nel 1968. Potrei dire che non abbiamo mai smesso di collezionare arte, di tanto in tanto compriamo un lavoro di un artista con il quale abbiamo conversato. Ci piace avere questo stile di collezionismo basato sulla discussione con gli artisti che incontriamo alle inaugurazioni, ai musei; da lì spesso finiamo per acquistare il loro lavoro.
Negli Anni Sessanta tutto era basato sulle idee e suoi concetti, non di certo sugli oggetti d’arte. Credevamo fermamente in questo e tuttavia ci rendevamo conto che gli artisti non erano contrari alla vendita, che erano contenti di vedere il proprio lavoro nelle case private. E per noi era bello vedere le opere quotidianamente e continuare un dialogo immaginario con gli artisti. Le opere degli artisti costituiscono un’incessante comunicazione con le idee che l’artista ha inserito nel proprio lavoro.

Quindi qual è la differenza in termini di approccio tra un collezionista e un semplice fruitore?
C’è una differenza senz’altro, specialmente considerando che il collezionista ha l’arte quotidianamente davanti agli occhi e può decidere quando soffermarsi e quando no. Se sei in un museo, in un uno spazio neutrale, anche se in realtà non si potrebbe mai parlare di neutralità, l’opera d’arte viene percepita come qualcosa di sacro, ha un’aura datagli dall’istituzione stessa. Quando l’opera è invece in una casa privata, è come se diventasse parte della famiglia e la guardi con occhi familiari.

Quali sono i suoi criteri per giudicare cosa è valido e cosa non lo è?
Non posso certo dire cosa sia buono e cosa cattivo, è solamente che alcuni lavori mi parlano in maniera diversa, si relazionano a certe esperienze che mi riguardano. Per me è molto importante rimarcare che la mia collezione riguarda solamente le mie esperienze personali, è un’accumulazione di esperienze durante la mia vita. E se questa attrazione avviene sono molto contenta, d’altra parte tutto ciò mi rende irrequieta, se trovo un lavoro intrigante rimango sempre con il fiato sospeso perché vorrei averlo.

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La libreria della Sammlung Hoffmann, Berlino, photo Lucas Leo Catalano

Quindi la sua è più che altro questione di sensibilità, la sua collezione è legata dal suo gusto personale.
Sì, ha molto a che fare con il mio gusto, questo è vero, certamente un lavoro deve intrigarmi a livello visivo, altrimenti nemmeno lo noto in una mostra. Adesso ovviamente non riesco a stare dietro a tutte le mostre, cominciare a seguire nuovi artisti come una volta, ce ne sono troppi. Ma se qualcosa cattura il mio occhio in maniera particolare e lo trovo in un certo senso nuovo, probabilmente cercherò di raccogliere informazione, oggigiorno non è così difficile come un tempo, c’è Internet. Ma mi piace anche rivolgermi a un gallerista che possa presentarmi direttamente all’artista, dandomi in questo modo la possibilità di saperne di più sulla struttura concettuale del lavoro.

Lei compra i lavori dalle gallerie o direttamente dall’artista?
Adesso come un tempo alcuni artisti non sono rappresentati dalle gallerie. Come Silvia Kolbowski: non ha una galleria, quindi compro il lavoro direttamente da lei, vive a New York, è argentina di nascita. Sapevo di lei già da – diciamo – venticinque anni e mi ha sempre intrigato, ma è una di quelle artiste il cui lavoro è difficile da mediare. Intendo dire: oggi le gallerie si preoccupano molto del guadagno. L’approccio intellettuale di Silvia Kolbowski è senz’altro molto difficile da mediare.

I suoi gusti sono cambiati nel tempo?
Certo, sono cambiati moltissimo dal ’68. Ci sono molte ragioni personali. Il primo fattore è che quando abbiamo cominciato a comprare avevamo poco denaro. I primi lavori che abbiamo comprato non erano per niente costosi.

Potrebbe dire che la sua collezione è una sorta di specchio di sé?
Sì! Probabilmente questo è molto chiaro per i visitatori. Ogni sabato ci sono centinaia di visitatori e la gente mi interroga rispetto a lavori, ma sono sicura che loro capiscano meglio di me quali siano i miei criteri.

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Joelle Tuerlinckx, ronds d’exposition-ensemble Berlin, 1996-2004 / BAC-ROOM ALDO, parts Post-études de salle, 2002 / Table d’atelier neutral gris souris, 2008, Sammlung Hoffmann, Berlino, photo Lucas Leo Catalano

Già, perché lei non è interessata a spiegare le opere, lei vuole più che altro creare una discussione attorno ai lavori con i visitatori…
Li incoraggio a farsi un’idea, non mi piace fornire un significato. Questo non è un museo, non ho una missione, questa è arte contemporanea, le persone possono avere centinaia di opinioni a riguardo. Vedere schiudersi tutte le possibilità e tutti i differenti aspetti che ognuno può individuare… Ecco, per me è proprio questa la cosa più intrigante che l’arte contemporanea possa fare.

A che tipologia appartengono i visitatori della sua collezione?
Ce ne sono di tutti i tipi, alcuni sono professionisti, poi ci sono i borghesi che sono sempre stati interessati alla cultura. Ci sono i giovani che vengono a Berlino e di tanto in tanto portano anche i propri genitori, e poi ci sono quelli che vengono solo per vedere quanto può essere fuori di testa una persona che vive circondata dall’arte.

Com’è che ha deciso di aprire la collezione al pubblico?
Lo scopo era contribuire in qualche modo al dialogo tra est ed ovest e volevamo portare a Berlino qualcosa che non si era visto prima. Qui era il vecchio est, e io e mio marito volevamo stare a est più che a ovest. A Berlino ovest la maggior parte dei lavori venivamo dall’ovest della Germania, e noi vivevamo nell’estremo ovest, vicino alla Francia, al Belgio e anche all’Italia che era, diciamo, il nostro focus. Eravamo molto più vicini a tutti questi paesi limitrofi che non all’est che era impenetrabile. Quindi abbiamo portato qualcosa che non si vedeva a Berlino, che a quei tempi era un’isola.

Cosa ha comportato per lei spostarsi a Berlino?
Ovviamente l’influenza del vivere qui da sedici anni mi ha fatto diventare molto più consapevole della storia. Vivendo nell’estremo ovest, vicino a Colonia, c’erano pur sempre centinaia di anni di storia da conoscere, per cui la storia recente diventava relativamente importante. A Berlino invece non ho potuto fare a meno di prendere consapevolezza della storia recente dell’ultima decade. Per esempio, abbiamo cercato di preservare l’importanza di questo palazzo che una volta era una fabbrica. Poi ovviamente a Berlino ero circondata da tutti questi palazzi monumentali che rappresentavano una certa storia, un certo tipo di ambizione molto diverse dalla provincia nella quale vivevo prima.

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Marike Schuurman, Schattendorf, 2011, Sammlung Hoffmann, Berlino, photo Lucas Leo Catalano

Che ruolo ha l’arte nella sua vita?
Probabilmente non è proprio il centro, perché ho una famiglia, figli e nipoti, ma è quasi centrale. Sono più di vent’anni adesso che ho lasciato la mia professione, ero una fashion designer, quindi era un ambito molto diverso, ma da allora ho dedicato la mia vita all’arte contemporanea. Non solo il contemporaneo in realtà: mi interesso a ogni tipo di arte, mi piace vedere i dipinti nelle chiese, le opere nei musei, nei palazzi, nei posti per le quali sono state concepite.

Condivide l’amore per l’arte con la sua famiglia?
No, per niente, loro hanno diverse mire, ma tollerano la mia pazzia e forse sono sollevati dal fatto che abbia qualcosa di cui occuparmi, quindi non li disturbo troppo. Adesso che la collezione è aperta al pubblico, i miei figli non sono critici come prima.

E con gli altri collezionisti, invece, mantiene un rapporto?
Sì, con qualcuno, non con tutti. Provengono da tutto il mondo, quindi a volte vengono a Berlino e li incontro, ma ce ne sono pochi con i quali ho stretto una vera e propria amicizia.

Le piace scoprire nuovi artisti? Continua a cercare nuova arte?
In realtà non è che la cerco, non sono interessata a scoprire artisti, ma più a cercare lavori che trovo degni di nota.

Ci sono opere alle quali è particolarmente affezionata?
Sì, ci sono alcune opere che mi piacciono molto, ma anche questo è cambiato nel tempo. Più che trovare affascinante un singolo lavoro, mi interessa di più la relazione tra i vari lavori della mia collezione. Quello che credo sia molto importante e gratificante è quando vedo che una certa stanza, un certo spazio nella mia casa ha successo per quell’anno. È una sperimentazione continua di varie soluzioni e sicuramente alcune stanze funzionano meglio di certe altre. Mi piace come i lavori funzionano nella loro totalità, questo vale anche nella produzione di un singolo artista. Ci sono artisti il cui lavoro continua a essere interessante durante il loro intero percorso artistico, il loro modo di sviluppare le idee e come si attengono una certa idea principale e sviluppano il proprio linguaggio attorno ad esso.

Quindi spesso lei continua a seguire il percorso di un artista che ha cominciato a collezionare…
Sì, e se l’artista riesce a trovare nuove soluzioni, questo non può che farmi piacere. Mi piace seguire gli artisti. Certo oggigiorno con questo mercato dell’arte impazzito trovo molta difficoltà a continuare a collezionare un certo artista, se molti altri lo apprezzano a volte non riesco a seguirlo. Ma senz’altro è positivo se ci sono altre persone che si prendono cura di lui.

Naima Morelli

www.sammlung-hoffmann.de

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Naima Morelli

Naima Morelli

Naima Morelli è critica d’arte e curatrice indipendente. Nasce a Sorrento e studia all’Accademia di Belle Arti di Roma. Comincia collaborando con il Mattino, scrivendo di musica per numerosi magazine d’orientamento rockettaro (Il Mucchio, Rockshock etc.) e recensendo le mostre…

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