L’arte è un delfino. Intervista ad Angela Vettese

Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Particolarmente attenta ai temi della didattica dell’arte, cerca nelle forme culturali possibili vie di accesso alla comprensione del mondo. Artribune presenta il suo progetto “L’arte è un delfino”, un ciclo di video-interviste per riflettere sull’arte e la cultura del nostro tempo. Questo appuntamento vede protagonista Angela Vettese, storica dell'arte e curatrice.

Quando si fa un lavoro come questo c’è bisogno che il tempo non presenti fratture.
C’è bisogno di continuità, omogeneità di senso, per cercare, poi, occasioni di discontinuità, piccole crepe da cui filtri luce nuova, falle nel sistema delle idee correnti, come farfalle o fiori rari. Si cerca l’eccezione di una realtà in movimento solo apparente, che oscilla e tuttavia non muta.
Fino a un momento fa la realtà era quel tessuto coerente, fin troppo tenace, inerte, che l’arte serviva a smagliare. E invece.
È da un tempo nuovo che scrivo – non posso che intrecciare la storia di questa intervista con quello che sta capitando. Ho faticato a ricostruire il discorso che tornasse fino a lì, al 24 febbraio, il giorno in cui ho incontrato Angela Vettese nella sua casa di Milano. La crepa, quella vera, non quella ipotetica, già si stava aprendo e si sentiva. Milano era già più silenziosa.
Era lunedì e il primo caso milanese di Covid-19 era stato annunciato il venerdì precedente, lo avevo letto nella rassegna stampa dell’alba, in attesa di entrare a scuola (arrivavo sempre prestissimo) e già immaginavo strategie di difesa personale per poter evitare il contagio nei giorni successivi, dovendo pur tornare a scuola – pensavo – ma a scuola non ci siamo più tornati.
Era solo lunedì, dicevo, eppure. Altri contagi si cominciavano a contare. Un primo assalto ai supermercati si era consumato la domenica precedente. E, sebbene cominciassi a sospettare che incontrare un altro, chiunque altro, sarebbe presto diventato un problema, ancora non lo era fino a quel lunedì e, dunque, ci siamo incontrate.
L’appuntamento lo aspettavo da tanto ed ero lì, finalmente, col mio carico di strumentazioni, che a portarlo in giro mi servirebbero quattro braccia, e poi i fogli, i mille appunti che non uso mai perché ormai quello che voglio sapere è tutto nella testa. Abbiamo preso un caffè in belle tazze di porcellana, prima di cominciare. Abbiamo chiacchierato un po’ mentre montavo il necessario.
È stata coraggiosa a incontrarmi, chissà cosa succederà, sono andata a comprare del cibo per i gatti e per il cane, di me mi importa meno ma, in ogni caso, già non c’erano più pasta, farina, legumi… Questa cosa fa impressione. Com’è silenziosa oggi Milano…” Possiamo cominciare.
Mai avrei immaginato che quello sarebbe stato il mio ultimo appuntamento, prima di questo lungo isolamento. A pensarci, sono stata molto fortunata. Il tempo speso per le passioni è il solo che non si rimpiange.
Angela Vettese incarna così tanto le conseguenze di una passione che non ci si poteva sbagliare. Si vede dagli occhi, in genere, questo genere di cose, e ti fa pensare: è proprio qui che volevo essere. E, adesso più che mai, da questo isolamento, penso che gli incontri siano davvero occasioni speciali, che sempre meriterebbero riti appropriati, che esigano una partecipazione integrale di spirito e di corpo, la giusta preparazione all’accoglienza e all’ascolto. Dirsi: chi vuoi incontrare, con chi desideri parlare? E vivere gli incontri come una danza rituale verso il sacro personale. Non lo dimenticherò.

VEDERE LE COSE COME FOSSE LA PRIMA VOLTA

L’intervista è stata registrata un momento prima che tutto ci venisse addosso, eppure mantiene la forza delle cose vere. Chi frequenta l’arte sa che le cose sono come appaiono, ma che la superficie nasconde sempre una profondità. Leggendo i libri di Angela Vettese sul contemporaneo, succede questo: la profondità (il senso) affiora, si lascia guardare un poco e poi la superficie (l’opera, il dispositivo) si ricompone per offrirsi a un’altra interpretazione, a un senso riproduttivo, direi, all’interno di un tessuto filosofico fitto e prezioso che diventa una specie di matrice.
Qualsiasi cosa essa sia, l’arte è anche un pensiero visualizzato che ci invita a sua volta a pensare (Angela Vettese, L’arte contemporanea. Tra mercati e nuovi linguaggi, Il Mulino, 2017). Questo è il bello dell’interpretazione: tutto avviene attraverso.
Attraverso la lettura di un processo coerente che si risolve nell’immagine (che, come dirà, ormai “è un’immagine dilatata nel suo senso” e aperta finalmente alle dimensioni dello spazio e del tempo). Attraverso una lettura, cioè, che ha tutta la libertà della visione prima e tutta la complessità della sapienza, che ha gambe salde nella storia pronte a slanciarsi in avanti, nell’immaginifico e nell’ipotetico.
Non è facile il contemporaneo, fucina di semantiche nuove tutte da decifrare. Ma è proprio questo che l’arte ci allena a fare, leggere i segni – anche minimi – del cambiamento.
Angela Vettese ha la virtù (che lei dirà essere un limite) di vedere con chiarezza le ragioni di poetiche anche lontane dalla sua visione personale e di saperne porgere, nonostante questo, una lettura limpida come una primavera. È qualcosa che ha il sapore dell’onestà.
Le domando: perché, nonostante tutto, continuiamo a fare arte? Perché abbiamo bisogno dell’arte anche nei momenti più terribili? Dal minuto 39’ circa si dispiega un’ipotesi avvincente: non solo l’arte è come l’amore, perché in essa, come nell’amore, nel prendersi cura, nel cercare l’altro, risiede la nostra vitalità, il più potente antidepressivo e, come l’amore, ci consola. Ma pure è un potente vaccino contro i traumi che l’uomo infligge a se stesso. E, in più, dirà: ci avverte sul futuro.

QUEL CHE HO IMPARATO PER CONTINUARE A VIVERE

Ma è da questo tempo strano che scrivo e ad esso devo tornare, portando ciò che anche da questo incontro ho imparato. In un articolo scientifico ho letto una cosa poetica: “i virus non sono solo ladri di geni ma anche creatori di diversità”. Non so cosa volesse dire chi scriveva, ma le poesie vanno prese così, anche quando non sono intenzionali: aprono.
Il lavoro degli artisti, delle filosofie, delle poetiche, sembra essere compiuto da un microrganismo parassita obbligato, su cui si dibatte ancora se possa chiamarsi vita.
L’esplosione di un simbolismo spontaneo potentissimo è, di fatto, ovunque. L’esplosione anche di una vitalità naturale che ci esclude laddove noi l’avevamo esclusa.
Cosa ci succederà? Cambierà tutto quello che fino a poco fa poteva dirsi normale?
Il trauma cognitivo di quello che stiamo vivendo è così potente che potrebbero non esserci più letterature, filosofie, opere sufficienti a darcene una spiegazione. Sopravvivendo, avremo due possibilità: restare agganciati a qualunque segno di normalità, per accorgerci presto che non ce ne sono a sufficienza (perché, appunto, la normalità è il problema). Oppure cambiare tutto, rinascere, rimettere al mondo il mondo.
Della frase di Alighiero Boetti, mettere al mondo il mondo, Angela Vettese ci parlerà, per dirci che l’arte è il regno delle infinite possibilità di esistere. È vero che l’arte ci prepara, ci offre gli strumenti per provare almeno a capire. Ma ci insegna anche a dare a noi stessi l’opportunità di non capire, di avere fiducia, di metterci in ascolto di qualcosa che ci trascende. È un continuo esercitarsi allo straordinario e, come il virus (non solo ladro di geni, ma creatore di diversità), ci insegna a chiederci: cos’è che vogliamo, quando vogliamo vivere? Ci toccherà fare i conti con il rimosso, adesso. Verificare. In tutto questo, cercare le cose che non ne sono diminuite. La passione non è diminuita. Ritrovare cose piccole ma importanti: il potere magico delle parole (all’origine erano un incantesimo, diceva Freud), una percezione del quotidiano non viziata dall’abitudine, un pensiero che rigenera. Diventare altro, cambiare pelle. Ripensare forme e modi di stare al mondo. Spalancare l’interiorità. Restare a contatto con il problema (Donna Haraway), non cedere alla tentazione dell’elusione, della distrazione. E come ci si potrebbe distrarre, dopotutto? Tutti fermi, sperimentiamo la visione prima delle cose. Forse, più semplicemente, abbiamo bisogno di tornare a pensare con l’anima, più che con la mente, e l’anima non pensa mai senza un’immagine (Aristotele).
Un unico rammarico: potevamo arrivarci con la gioia, con il piacere della conoscenza e aprendoci all’avventura esaltante della scelta di un cambiamento. Perché dobbiamo imparare dolorosamente quel che avremmo potuto imparare gioiendo?
Riascolto vecchie canzoni e sembra che tutto parli di questo, di noi, adesso.
Per esempio, c’è una canzone argentina che dice più o meno così:

Per alleggerire questo pesante fardello dei nostri giorni
Questa solitudine che ci portiamo tutti dentro, isole perdute
Per evitare questa sensazione di perdere tutto
Per cercare di capire la via da seguire e scegliere il modo
Per alleggerire, per evitare, per capire e rendersi conto delle cose
Ho bisogno solamente che tu stia qui con i tuoi occhi chiari…

(Razón de vivir, Víctor Heredia)

L’artista ci mette in condizioni di capire chi stiamo diventando (Angela Vettese, Si fa con tutto. Il linguaggio dell’arte contemporanea, Laterza, 2010). Ho un po’ bluffato, sostenendo che il virus stia facendo quello che gli artisti dovrebbero fare. Questo ho imparato: non ci cambierà il virus, ma il senso che daremo a questa storia.

Buona visione.

– Stefania Gaudiosi

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Stefania Gaudiosi

Stefania Gaudiosi

Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Studiosa e teorica dell’arte, con particolare interesse per l’Arte Cinetica e per l’opera di Iannis Xenakis, è autrice di diversi saggi dedicati ai temi della contemporaneità, della multimedialità e dei new media.…

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