UNA SPIRALE CREATIVA
Il lungo corridoio regolare della Galleria Sud è stato scavato, disegnato e parcellizzato da sezioni circolari. Un labirinto cerebrale, intuitivo e intimo, generato da pareti temporanee grigie che regolano con estrema cura la visita, rallentandone il percorso, attraverso un’ottantina di lavori. Installazioni, incastonature, collage e lavori scultorei, creati in cinquant’anni, riuniscono testimonianze a raccolta, tra spiritualità e conoscenza collettiva, databili tra il 1966 e il 2016.
La curatrice Elvira Dyangani Ose introduce per la prima volta in Italia una rassegna antologica concepita per mostrare l’estensione dell’artificio, della ricomposizione, nelle mani e negli occhi di un’artista che, nonostante la produzione instancabile, è rimasta per troppo tempo –perlomeno in Europa – silente. Uneasy Dancer, titolo scelto dalla stessa artista, è l’espressione con cui Betye Saar (Los Angeles, 1926) definisce se stessa e il proprio lavoro che “segue il movimento di una spirale creativa ricorrendo ai concetti di passaggio, intersezione, morte e rinascita, nonché agli elementi sottostanti di razza e genere”.

RITUALI LENTI
Sebbene l’avvicendamento materico dei lavori possa rievocare un flusso di coscienza, che esplora il misticismo rituale presente nel recupero di storie personali, le iconografie esposte, tratte da oggetti e immagini quotidiani, si aprono allo sguardo molto lentamente, non lasciando intravedere mai abbastanza, mai immediatamente di quel che Saar, oggettivamente, ha saputo trovare, conservare, recuperare e infine accostare. Operazioni di abilità della trasformazione, di manodopera dell’immaginario, devozioni della memoria femminile, di precise radici storico-geografiche e dell’identità, della blackness afroamericana, messe in atto su scala diversissima. Riti capaci di addensare oggetti, ricordi, probabilmente preghiere ed evenienze a partire da pochi centimetri quadrati, per poi occupare volumi interi.

LE OPERE
The Alpha and The Omega (The Beginning and The End) (2013-16), ad esempio, con la luce azzurrina che ne riempie ogni ombra, un ambiente posto all’inizio del percorso, restituisce all’intera mostra un arrivo opposto, aereo e diradato, una stanza della predizione, concepita per l’esposizione, e include una serie di nuovi elementi che rappresentano l’idea di ritorno della vita. A poca distanza, all’esterno, Mystic Window for Leo del 1966 e The Phrenologer’s Window II, sempre del 1966, risalgono la produzione e le visioni di Betye Saar, così come l’astuccio variopinto di Sambo’s Banjo del 1971-72; lavori che non fanno sentire la mancanza di un’opera fondamentale come The Liberation of Aunt Jemima (1972).
“Sebbene si attribuisca a quest’ultimo lavoro il reale avvio artistico di Betye”, sottolinea la curatrice, “non è corretto pensare che la sua produzione possa cominciare dagli Anni Settanta. L’artista a quel tempo era già attiva da una quindicina d’anni, dipingendo tessuti, lavorando nel campo della moda, della stampa, del teatro e persino dell’insegnamento, diventando una figura femminile impegnata e di riferimento nell’area di Los Angeles degli Anni Sessanta”.
Ginevra Bria
Milano // fino all’8 gennaio 2017
Betye Saar – Uneasy Dancer
a cura di Elvira Dyangani Ose
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