Un videogioco riattualizza il mito del Samurai tra storia e fantasia
Cosa succede quando una multinazionale giapponese crea un videogioco ambientato a Hokkaidō e ispirato ai film di samurai più legati al cinema occidentale? Ce lo spiega Joanna Wang, direttrice artistica dello studio che quel videogioco lo ha creato
“Uno degli obiettivi della serie Ghost è farti sentire come se ti trovassi dentro il tuo film di samurai preferito” ci dice in videochiamata Joanna Wang, direttrice artistica a Sucker Punch Productions, studio statunitense di Sony responsabile del nuovo videogioco Ghost of Yōtei per PlayStation 5.
In Ghost of Yōtei cavalchiamo e combattiamo in una natura quasi eccessiva, esagerata come quella di una xilografia giapponese, esplorando con una certa libertà una grande mappa piena di missioni, sottotrame opzionali e segreti. Siamo Atsu, una mercenaria che nel 1603 arriva nell’isola di Hokkaidō a nord del Giappone con l’obiettivo di vendicarsi contro la banda che sedici anni prima aveva ucciso i suoi genitori.
Joanna Wang, direttrice artistica della Sucker Punch Productions, racconta il videogioco “Ghost of Yōtei”
Quella di Ghost of Yōtei, ci dice Wang, “non è una ricreazione 1:1 di eventi storici, o di Hokkaidō, ma una versione immaginaria di Hokkaidō nel 1603” realizzata insieme a un’intera squadra di consulenti e cercando un compromesso “tra cultura, creatività, gioco e limiti tecnici”. Sin dal primo episodio, Ghost of Tsushima (2020) ambientato nel 1274, la serie si è anche basata soprattutto (ma non esclusivamente) sull’immaginario cinematografico dei film chambara (“di samurai”) o jidai-geki (drammi storici giapponesi) per costruire il suo Giappone. Wang cita film come La sfida del samurai (Akira Kurosawa, 1961), Lady Snowblood (Toshiya Fujita, 1973), 13 assassini (Takashi Miike, 2010) e Unforgiven (Lee Sang-il, 2013). Stiamo insomma parlando soprattutto di un cinema giapponese strettamente legato a quello occidentale: Unforgiven è per esempio un remake ambientato a Hokkaidō di un omonimo western (Clint Eastwood, 1992) e i film western hanno influenzato l’opera di Kurosawa, che ha a sua volta fortemente segnato lo spaghetti western. Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964) e Django (Sergio Corbucci, 1966) sono entrambi adattamenti de La sfida del samurai.

L’invenzione del samurai in “Ghost of Yōtei” spiegata da Joanna Wang
Il samurai stesso, per come lo pensiamo oggi, è un mito: i samurai erano principalmente arcieri a cavallo, e la spada divenne simbolicamente importante solo a partire dal periodo Tokugawa/Edo (cioè proprio dal 1603) quando ormai erano un’aristocrazia burocratica. E anche Il mito del samurai nasce in parte nell’incontro tra Giappone e occidente, grazie al “codice dei samurai” inventato dal cristiano Inazo Nitobe in un libro in inglese e destinato al pubblico occidentale: Bushido: The Soul of Japan (1900). Inizialmente deriso in GIappone, il samurai cristianizzato di Nitobe venne poi adottato dalla propaganda imperiale insieme al samurai altrettanto immaginario di Hagakure di Yamamoto Tsunetomo e Tashiro Tsuramoto, scritto nel XVIII secolo e riscoperto all’inizio del XX secolo. Il samurai dell’onore e della fedeltà fino alla morte creato da Nitobe e da Hagakure diventò così il modello del soldato giapponese e, dopo la Seconda guerra mondiale, del terrorista neofascista Kimitake Hiraoka e dell’organizzazione paramilitare Tatenokai da lui fondata.
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Il popolo ainu in “Ghost of Yōtei” nelle parole della creativa Joanna Wang
Un altro esempio di questa tensione tra storia e immaginario, tra oriente e occidente, è la rappresentazione di Hokkaidō, che nel 1603 non faceva ancora parte del Giappone ma delle terre di Ezo. Hokkaidō era ainu mosir, la terra della popolazione indigena ainu, anche se già esistevano insediamenti commerciali giapponesi nella sua parte meridionale. In Ghost of Yōtei possiamo effettivamente incontrare personaggi ainu e per molte persone sarà probabilmente la prima occasione per scoprire la loro cultura, i tradizionali tatuaggi femminili o il rito dell’iyomantee. Pure in Giappone il riconoscimento della popolazione ainu come popolo indigeno etnicamente distinto è arrivato solo nel 2019. Per realizzare questa parte del gioco, Sucker Punch ha lavorato con una consulente specializzata, Yukiko Kaizawa, e ha visitato il museo di cultura ainu di Nibutani per raccogliere documentazione. Ma nell’Ezo di Ghost of Yōtei il popolo ainu fa giusto una comparsata mentre ovunque, e ben oltre la penisola meridionale di Oshima, vediamo segni della presenza giapponese, dispersa in una terra che, durante la nostra intervista, Wang definisce ripetutamente “wild” (selvaggia) e “untamed” (non addomesticata, selvatica), seguendo la rappresentazione di Hokkaidō come frontiera e terra nullius da colonizzare che il Giappone ne ha dato a partire dall’era Meiji (1868-1912), tra l’altro momento di definitiva apertura all’occidente. Eppure, ed era vero soprattutto all’epoca di Ghost of Yōtei e in parte si vede nel gioco, le popolazioni ainu affiancavano a caccia, pesca e raccolta anche la coltivazione e, in alcune zone, pure l’allevamento, come raccontato dalla storica Tessa Morris-Suzuki in Creating the Frontier: Border, Identity and History in Japan’s Far North, in East Asian History (1994).
Mentre altri videogiochi sbandierano la loro (impossibile) “accuratezza storica”, Ghost of Yōtei mostra quanto impossibile sia la purezza, mostra come la storia sia sempre ricostruita, interpretata, immaginata e poi plasmata, usata e abusata dai nostri immaginari. E mostra anche quanto sia difficile assumersi i rischi e le responsabilità di immaginarsi la storia.
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Matteo Lupetti
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