A Roma c’è l’archivio del costumista delle dive Gabriele Mayer 

Dietro ogni diva c’è un costumista come Gabriele Mayer, di cui Artribune ha documentato per la prima volta l'archivio. Perché gli abiti creano il personaggio e ne raccontano la personalità. Ma negli anni la narrazione della donna è cambiata

La rappresentazione della donna passa, anche, dai costumi indossati da attrici, conduttrici e showgirl, come quelli dell’archivio visivo del costumista Gabriele Pacchia, in arte Mayer, classe 1940, custodito dalla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Perché queste nella mente degli spettatori diventano parametro di giudizio per sé stessi e per il prossimo. Ma anche per le evoluzioni della società e della cultura. Negli Anni ’70, ad esempio, venivano mandati in onda varietà come Milleluci, simile ad uno spettacolo teatrale. Mina e Raffaella Carrà lo conducevano interpretando di volta in volta il proprio personaggio o quello di altri, valorizzando il lavoro del costumista. Basti pensare a quando qualche anno prima la stessa Carrà si presentò in diretta televisiva con l’ombelico di fuori mentre ballava il Tuca Tuca: fu uno scandalo ma anche un segno di liberazione dalle costrizioni sociali, di cui alcune donne italiane si erano già sbarazzate guardando alla moda proveniente dall’America e dall’Inghilterra. Ma se questo è esplicativo del tempo, lo è anche Il Bagaglino, varietà portato su Mediaset nel 1995 dall’omonima compagnia. Le prime donne, da Pamela Prati a Valeria Marini, si vestivano con abiti sensuali o se ne spogliavano rimanendo in intimo, che era impensabile per la censura praticata vent’anni prima dalla Rai: Mina fu “esiliata” per un breve periodo dalla tv per aver avuto un figlio al di fuori del matrimonio.  

L’influenza maschile sulla rappresentazione femminile  

In questo modo i contenuti del piccolo schermo hanno riflettuto i mutamenti della condizione femminile e ciò che ha consentito di farlo sono stati gli abiti o la loro assenza. Il costumista Gabriele Mayer lo sa bene dopo aver lavorato con i maestri del costume Giulio Coltellacci, Maria De Matteis e Piero Gherardi, e con dive d’altri tempi come Claudia Cardinale (fu opera anche sua l’abito a mo’ di tunica, corto fino a metà coscia, che indossò l’attrice per incontrare Papa Paolo VI nel 1967). Eppure, dietro molte delle scelte di stile, quindi di libertà di presentarsi al pubblico, c’è ancora una volta l’uomo con la sua visione, filtrata e dominante. Un esempio è Federico Fellini, per cui Mayer ha creato abiti, il quale “portava le donne ad una sua immaginazione. Era un uomo che le amava anche se le mostrava nella maniera più popolare. Questa era un’esaltazione della donna, con un’attenzione alla sensualità”.  

Il sesso e il sexy  

Lo stesso rimando al sesso è quello che rendeva oltraggioso, agli occhi di alcuni, il top scoprente di Raffaella Carrà e lo stesso rimando al sesso, dal punto di vista maschile ma applicato sul corpo femminile, è quello di cui Mediaset si è fatto portavoce con alcuni programmi: “ho lavorato per un loro progetto, tra i tanti altri, in cui i costumi non erano una dimostrazione del femminile, piuttosto del genere di vestimento di quella trasmissione. Una donna più da contorno”. Allora, se la rappresentazione che riteniamo libera sia soltanto il frutto della decisione dell’uomo, che proietta ciò che lui vorrebbe vedere sul corpo della donna? Mayer ritiene che “oggi esiste soltanto il sexy nel mondo dello spettacolo, non c’è più un paragone. A quell’epoca le donne erano sensuali sullo schermo perché stuzzicavano l’immaginazione, ognuna in maniera diversa”.  

L’appiattimento della figura femminile sul piccolo schermo  

Adesso il piccolo schermo ha perso spessore e di conseguenza la profondità dei personaggi femminili: “la questione è economica, ci sono stati dei tagli anche sui costumi. Prima la televisione era come il teatro e il cinema”, dice Mayer che non crede sia cambiato il pubblico, piuttosto “nessuno propone un’alternativa”. E non è un caso se sia esclusiva delle cantanti la possibilità di esprimere loro stesse: la televisione ha relegato conduttrici e showgirl a ruoli che non prevedono altro oltre alla conduzione o all’intrattenimento privi di esercizi di personalità e di stile: “si è proprio persa la rappresentazione del personaggio”, ma da un lato “bisognerebbe tirare fuori carattere ed imparare a esaltarsi, sentire gli abiti e farli propri”. Quindi a ritagliarsi uno spazio per comunicare al pubblico anche quando il sistema non lo prevede più, per continuare a raccontare l’evoluzione femminile e non fermarsi al sexy come unica narrazione accettabile. 

Giulio Solfrizzi 

Lo sguardo scelto è di Elena Costa con la curatela di Alessia Caliendo 

Nasce nel 1997 a Torino. Dopo la laurea presso l’Università di Scienze Gastronomiche nel 2020 si trasferisce a Roma diplomandosi all’Istituto Superiore di Fotografia. La sua ricerca fotografica esplora la connessione tra i diversi linguaggi della fotografia contemporanea, attraverso progetti personali e di storytelling legati a tematiche individuali, ambientali e sociali. 

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Giulio Solfrizzi

Giulio Solfrizzi

Barese trapiantato a Milano, da sempre ammaliato dall’arte del vestire e del sapersi vestire. Successivamente appassionato di arte a tutto tondo, perseguendo il motto “l’arte per l’arte”. Studente, giornalista di moda e costume, ma anche esperto di comunicazione in crescita.

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