Sceneggiare un racconto di moda. Intervista a Francesca Liberatore

Palchi chiusi per attori e musicisti? Per solidarietà, Francesca Liberatore rinuncia alla sfilata e propone un film. Abbiamo intervistata la fashion designer.

Nell’arte come nella moda e in qualsiasi altra forma artistica che presupponga una condivisione pubblica, oggi il tema più attuale è quello della narrazione.
Si parla della piattaforma “Netflix” per l’arte ma non si parla di contenuti, di aiuti a rielaborare forme e sceneggiature dell’evento culturale o artistico. Stiamo assistendo a una interessante confusione: performer come modelli, coreografie buone per un brand come per un’opera.
Nella moda il fenomeno è più evidente: si iniziano a distinguere quelli che sapranno attraversare questo momento di passaggio, quelli che si guardano intorno e sono capaci di unire le forze con altri mondi paralleli per costruire una alternativa.
Tra questi c’è una giovane, ma già affermata, fashion designer: Francesca Liberatore è da sempre alla ricerca di sinergie artistiche che l’hanno portata a confrontarsi con mondi culturali diversi, dal cinema alle aste d’arte, dalla musica alla fotografia, con un portfolio personale di studi e esperienza professionale al Moulin Rouge, ha costantemente mixato la sua arte con quella di importanti realtà, grazie alla ricerca di concept inusuali e innovativi.
Ed è per questo motivo che la stilista, per presentare la sua collezione Autunno/Inverno 2021, nella recente fashion week di Milano, ha ricercato la collaborazione con la Fondazione Società dei Concerti, così come con il regista e critico cinematografico Mario Sesti, con Alessandro Turci docente e critico di moda, la fotografa e videomaker Alice Falco da sempre a fianco della stilista.

INTERVISTA A FRANCESCA LIBERATORE

La tua presentazione a Milano ha colpito per la sua lucida creatività in un panorama generale ripetitivo, caratterizzato dalle scarse idee per reinventare la narrazione della moda. Come hai concepito questo progetto?
All’inizio pensavo che questo evento potesse supportare la cultura, riaccendendo delle luci e mostrando comunità di intenti ma, a fronte anche della polemica sanremese, mi è sorto un problema morale. Ho ritenuto di dover in primis essere solidale con chi, in questo momento, non può esercitare la sua passione lavorando nel suo luogo: se fossi stato un attore o un musicista a cui viene negato il palco, non avrei apprezzato di concederlo a uno stilista, così come accendere un unico teatro mostra il buio degli altri, oltre al fatto che la parte indispensabile di ogni spettacolo è il pubblico e, senza questa unione di animi, un grande show sarebbe stato ostentazione.

Queste premesse a cosa ti hanno condotta?
Sono una sostenitrice della condivisione in presenza e dell’emozionalità del runway dal vivo ma, cercando con la mia moda di registrare sentimenti che derivano da ciò che mi circonda, non potevo prescindere questa volta dal confrontarmi con il “digital” e già, anche in un primo momento in presenza, avevo optato per tecnologia, ologrammi e proiezioni, che poi ho trasformato nel vero 2D di ciò che sarebbe stato e portare davanti a un pubblico il sogno di teatro. Proprio in un momento di chiusura ho voluto “trarre da una storia vera” che ci ha portati fin qui e a teatro, con i miei abiti attori di se stessi, ricordare dal dopoguerra i diversi periodi e modi di rinascita.

Francesca Liberatore, Collezione Primavera Estate 2020

Francesca Liberatore, Collezione Primavera Estate 2020

Che differenza c’è fra lo spettacolo della moda e gli altri?
Sono proprio la narrazione del teatro, la grandezza del cinema, lo shock davanti a una sala silente, a nutrire gli occhi che poi trasformano il messaggio della moda, permettendo di accumulare linguaggi. Mentre però molti mondi mettono davanti allo spettatore alcuni stereotipi riconoscibili e chiavi di lettura che facilitino la comprensione della storia e l’individuazione dei personaggi o elementi, la moda inizia proprio da questi personaggi e identità per rivederne di volta in volta l’estetica e spostare il gusto della società, motivo per cui nel mio “spettacolo” in bilico tra teatro e moda parto da trench e completo, svelando poi il “trucco” della modifica. Come però nei miei ultimi format, una cosa penso sia fondamentale: che tutti preservino l’autenticità rispetto all’eccessivo artifizio, la natura e l’identità della composizione (inclusi i luoghi in cui si istallano le rappresentazioni) rispetto alla sovrastruttura.

Il tuo Dna artistico, l’essere cresciuta nello studio di un artista ha contribuito alla tua creatività?
Assolutamente sì. Sono cresciuta guardando mio papà lavorare creta e gesso con le mani, dar vita a sculture monumentali attraverso piccole “molliche” che assemblava con il polpastrello. Così come l’odore dei pastelli di legno dei disegni immaginifici di mia mamma, che temperava continuamente. Per me la reazione del materiale è fondamentale così come riuscirlo a modellare secondo le sue proprietà.

Hai raccolto consensi anche fuori dall’Italia. Pensi che riusciremo a compensare in modo virtuale lo spostamento fisico?
Penso che parte di quel consenso sia dovuto alla mia italianità, non solo il made in Italy, ma anche la visione, l’atteggiamento, la trasmissione, il confronto umano che ha fatto la differenza nella maggior parte delle relazioni che mi hanno portato fin qui. Non penso si potrà compensare in modo virtuale il nostro lavoro perché, in quanto stilisti, il nostro compito è interagire con il corpo, il tessuto, il volume, la forma, la tridimensionalità, il movimento, oltre alla visione rispetto a una componente emozionale; mentre per quanto riguarda il cambiamento, è insito nella società quindi necessario da sempre interpretarlo. Nonostante sia stata definita antesignana dei film-sfilata (lo scorso febbraio 2020, giusto prima che il mondo cambiasse sembianza, presentai la mia collezione nel Cinema the Space di Piazza Duomo con una parte di girato), questo era pur sempre finalizzato al racconto di ciò che sarebbe accaduto in sala in modo totalmente immerso e tangibile. Da creativa amo la contaminazione e lavorare con numeri uno di altri ambiti, sposarli ma sempre finalizzati al mio obbiettivo moda: se invece voglio vedere un bel film voglio godere delle scelte del regista.

Francesca Liberatore, Collezione Primavera Estate 2020

Francesca Liberatore, Collezione Primavera Estate 2020

Come è nata la collaborazione con Mario Sesti?
È stata una bellissima affinità elettiva di cui vado fiera: mi chiamarono per un’intervista a Splendor, condotta appunto da Mario Sesti che, nonostante appartenesse a un altro ambito artistico e non ci conoscessimo, attraverso le sue domande tracciò una linea così fluida e puntuale del mio immaginario che ne fui ammutolita. Lo conobbi poi proprio grazie a quello scambio umano di cui parlavamo prima, ho ammirato le sue cose – tra le ultime, il documentario su Bertolucci – trovando sensibilità e apertura. Gli ho mostrato quindi la mia idea e mi sono permessa di chiedere a lui di introdurre la guerra-uniforme storica e contemporanea, che sarebbe stata la trasposizione di questo momento di arresto e apparente impenetrabilità.

Per te e per altri giovani, in questo momento pensi ci siano problemi diversi rispetto ai grandi brand? 
Non penso ora più di prima, penso forse che ora la creatività giochi un ruolo nuovamente più importante, mentre meccanismi sedimentati ma incancreniti, fino ad oggi sfoggio di potenza, ne abbiano risentito maggiormente.

– Clara Tosi Pamphili

www.francescaliberatore.it

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Clara Tosi Pamphili

Clara Tosi Pamphili

Clara Tosi Pamphili si laurea in Architettura a Roma nel 1987 con Giorgio Muratore con una tesi in Storia delle Arti Industriali. Storica della moda e del costume, ha curato mostre italiane e internazionali, cataloghi e pubblicazioni. Ideatrice e curatrice…

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