La Biennale Architettura 2025 mostra l’unica ricerca attuale: quella inascoltata 

Secondo l’architetto e professore associato Mario Coppola, la Mostra Internazionale curata a Venezia da Carlo Ratti “lascia pochissimo spazio a fraintendimenti e restituisce in maniera univoca una chiara traiettoria di ricerca".

L’adattamento richiede un cambiamento radicale della nostra pratica. […] l’architettura deve attingere a tutte le forme di intelligenza: naturale, artificiale, collettiva. Nell’età dell’adattamento, l’architettura deve rivolgersi a più generazioni e a più discipline, dalle scienze esatte alle arti. Nell’età dell’adattamento, l’architettura deve ripensare il concetto di autorialità e diventare più inclusiva, imparando dalle scienze. […] L’architettura deve diventare flessibile e dinamica, proprio come il mondo per cui sta progettando“. L’idea di architettura di Carlo Ratti è sempre stata sfuggente, potremmo dire evanescente, a cavallo tra progetti sofisticati, super high-tech, dal segno minimale e dinamico tutt’altro che low-budget, e un’architettura open source scaricabile gratis e realizzabile in loco via digital fabrication a basso costo. Una prospettiva che lascia molti interrogativi inevasi e che finora, forse proprio a causa dell’impossibilità di trasformare un sapere complesso, umano e poetico come quello del progetto di architettura in un contenuto scaricabile tipo software, non ha mai trovato reale applicazione. 

La Mostra Internazionale di Carlo Ratti a Venezia? Soluzioni nuove a problemi nuovi 

Invece la mostra curata da Ratti, da poco inaugurata a Venezia, lascia pochissimo spazio a fraintendimenti. Restituisce in maniera univoca una chiara traiettoria di ricerca, dove per ricerca intendiamo un movimento capace di produrre soluzioni nuove a problemi nuovi. Dunque, siccome parliamo di architettura, e cioè di spazio e di forma, intendiamo spazi e forme inedite. Cent’anni fa, Mies diceva che “l’architettura è la volontà dell’epoca tradotta nello spazio“, e, senza dubbio alcuno, la volontà della nostra epoca ha a che fare con la scoperta della complessità, di quell’intreccio che lega cose apparentemente distanti tra loro rendendo tutto connesso, interdipendente, potremmo dire solidale. E, per questo, intrinsecamente ibrido, instabile, fragile. Scavalcando una buona volta l’illusoria e dannosa separazione tra il mondo della mente e della cultura e quello del corpo e della cosiddetta “natura” che, come sa chi un po’ pratica la filosofia della scienza, non esistono in quanto poli opposti, giacché la cultura altro non è che una emanazione della natura così come l’uomo stesso – e tutte le sue invenzioni – altro non è che una parte della natura. Oltre che un tema filosofico e scientifico, la teoria della complessità è un vero e proprio manifesto ideologico, un sistema valoriale: sappiamo ormai che non può esserci opulenza, consumo sfrenato e sfarzo se da qualche altra parte (nello spazio o nel tempo) non c’è ingiustizia, sfruttamento, annichilimento della vita. Siamo alle basi dell’ecologia e non è una scoperta di ieri, ma un tema ormai vecchio che Edgar Morin ha raccontato in tutti i modi umanamente possibili restando di fatto inascoltato dalla politica – soprattutto da quella dominante di questi brutti tempi – e dalla cosiddetta società civile. 

Biennale Architettura 2025: verso una prospettiva postumana 

Tutto questo con l’architettura c’entra tantissimo, molto più di quanto potrebbe sembrare a occhi pagani. E infatti, tornando alla Biennale e alle parole di Ratti, il punto sta tutto intorno al cambiamento radicale e all’eteronomia: la capacità dell’architettura – ripetiamo: dello spazio e della sua forma – di attingere all’intelligenza naturale, artificiale, collettiva, di rivolgersi a più discipline, di essere flessibile e dinamica, di imparare dalla scienza e dall’arte. E non solo per un fine tecnico, pratico: abbassare i consumi, produrre meno CO2, ma anche e soprattutto per dare corpo e volto a un diverso modo di stare al mondo, di approcciare al mondo delle cose non umane. Cambiando prospettiva da quella tradizionale, antropocentrica, a una nuova, postumana, direbbe Rosi Braidotti. Tutto sembrerebbe scorrere piuttosto liscio e, difatti, lo spaccato vivido proposto dalla mostra Intelligens. Natural. Artificial. Collective. è in perfetta continuità con la mostra della Biennale Architettura 2021 dal titolo How will we live together? che pure esplorava il tema della coesistenza in un mondo sempre più affollato e interconnesso, dove l’azione dell’uomo è divenuta forza geologica – da cui la definizione di antropocene. Ma c’è un ma. 

La cultura architettonica in Italia 

Un mammut al centro di quella stanza che è la cultura architettonica. Perché, soprattutto in Italia, l’architettura più diffusa, quella tradizionale, quella consolidata, poggia su presupposti completamente diversi, per usare un eufemismo. È un’architettura basata sulla cosiddetta “autonomia”. L’idea, cioè, che l’architettura abbia – debba avere – un linguaggio unico, quello dato dalla tradizione main stream, quello basato sull’angolo retto e sulla tettonica classica (per intenderci: pilastri e travi, possibilmente a sezione rettangolare), e che una costruzione basata su regole diverse, che restituisce figure troppo lontane da quella tradizione, molto semplicemente, non sia architettura. Dunque tocca chiedersi, di fronte a una posizione così forte e condivisa, cosa ci sia di vero. Per esempio, se si studia il modo in cui si sviluppano le ossa e si applica lo stesso procedimento all’architettura, magari per risparmiare materiale da costruzione – ottenendo strutture ibride, anatomicamente simili alle ossa – il risultato, per quanto possa essere filtrato, rimaneggiato, evocativo, sarebbe architettonicamente lecito, cioè produrrebbe un’architettura, o qualcos’altro? 

I concetti di analogia e metafora applicati all’architettura 

Se si vuole rispondere a questa domanda bisogna partire dall’affermazione “questa non è architettura” e dalla spiegazione più frequente – la stessa data da Stefano Boeri quando spiega perché le sue architetture verdi restano (quasi sempre eppure non sempre e non del tutto…) così saldamente legate all’angolo retto – che sostanzialmente recita: una siffatta non-architettura lavora come una metafora, come quando si dice che una ragazza ha gli occhi che luccicano come il mare. Mentre un’architettura coerente, cubica, lavorerebbe per analogia, cioè in autonomia rispetto a ogni altro linguaggio. E che questo linguaggio architettonico sarebbe neutrale, scevro da contenuti, da sensi, e dunque adatto a ogni stagione. Eppure sappiamo che ogni lingua ha origini complesse, stratificate, dove suoni, significati, usi e persino anatomia e fisiologia organica si intrecciano, mescolando in maniera inestricabile cultura e corporeità. 

L’architettura da sola, da questa prospettiva, farebbe eccezione, come se la sua comparsa su questo pianeta fosse avvenuta davvero con il monolite oscuro di 2001 Odissea nello spazio, apparso sulla spiaggia senza alcuna provenienza tracciabile, senza cioè alcun radicamento culturale, valoriale, sociale, anatomico. In una parola: storico. Anche in questo caso, siamo sicuri che il paragone tra architettura e letteratura sia così lineare, immediato, facile? E che non sia proprio questo paragone a cadere in errore facendo una metafora – l’architettura che funziona come la letteratura – che non ha alcuna ragione d’essere? Rileggiamo la definizione Treccani di analogia: “Rapporto di somiglianza tra due oggetti, tale che dall’eguaglianza o somiglianza constatata tra alcuni elementi di tali oggetti si possa dedurre l’eguaglianza o somiglianza anche di tutti gli altri loro elementi.” E quella di metafora: “Figura retorica che risulta da un processo psichico e linguistico attraverso cui, dopo aver mentalmente associato due realtà differenti sulla base di un particolare sentito come identico, si sostituisce la denominazione dell’una con quella dell’altra.” 

E quindi che cos’è l’architettura? 

Il fulcro della questione ruota tutto intorno alle due realtà differenti. Una metafora associa due cose o realtà differenti, che tra loro non hanno niente a che fare, per dare, attraverso questa finzione, una nuova visione, una nuova lettura: “gli occhi belli quanto gli scintillii del mare”, quando gli occhi sono e restano degli organi che servono per vedere, mentre il mare è e resta una massa d’acqua salata. E l’architettura? Che cos’è? E che cosa resta dell’architettura? Lo spiega benissimo Mario Botta, che dell’architettura tradizionale, consolidata, italiana e internazionale, è uno dei protagonisti più autorevoli: “L’architettura è la lotta perenne tra l’uomo e la natura, la lotta per sopraffare la natura, per prenderne possesso. Il primo atto dell’architettura è quello di mettere una pietra sul terreno. Quell’atto trasforma uno stato naturale di natura in uno stato culturale; si tratta di un atto sacro“. Altro che analogia e metafora: come si potrebbe dare corpo a questa lotta, a questa sopraffazione, se l’architettura non fosse – non sembrasse – l’esatto opposto di ciò che si vuole sopraffare? 

L’architettura a-storica non esiste 

Eccoci al punto. Eccoci di fronte al vero motivo per il quale la ricerca esposta alla Biennale Architettura 2025, che avanza trasversalmente tra i giovani ricercatori e progettisti di ogni dove, viene di fatto inascoltata – per non dire snobbata o peggio ghettizzata – dalla restante parte della cultura architettonica mondiale. Il fatto è che non esiste alcuna architettura a-storica, a-valoriale: come ogni altra roba umana, anche l’architettura – i suoi spazi, le sue forme – è impregnata di storia, di contingenza, di utilità, di idee, di desideri, di paure, di valori. È emersa, esattamente come ogni altra umana secrezione, come ogni altro utensile, come ogni altra lingua, da quell’intreccio di ragioni tecniche, culturali, valoriali – sottolineiamo: valoriali! – poetiche, sociali e anche anatomico-comportamentali tutte e solo umane e tutte e solo relative al tempo in cui l’architettura a cui ci riferiamo è emersa. Perché duemilacinquecento anni fa, mentre bestie e malattie tormentavano l’umanità e Fidia dava forma al Partenone, c’erano delle ragioni precise per cui era opportuno usare l’unico angolo pressoché inesistente nel resto della natura per definirsi, ergersi su una zoccolatura staccata e soprelevata dal terreno e chiudersi in una sequenza di colonne uguali a distanze uguali tra di loro. E altrettante buone ragioni c’erano perché l’architettura romana imperiale avesse quelle fattezze e ancora ottime ragioni – curiosamente simili… – perché l’architettura fascista avesse quegli stilemi, quei colonnati, quelle dimensioni, quell’ordine preciso, rigido, ossessivo. Terrorizzante, diciamolo pure una buona volta, senza nulla togliere alla qualità indiscussa che quell’architettura ha saputo avere – perché anche l’autoritarismo può essere maniacalmente perfetto o cialtronescamente grottesco, oggi ne sappiamo più di qualcosa. 

L’architettura tra tradizione e mutazione 

E allora bisogna che una domanda ce la facciamo. In un mondo in cui si sono finalmente messi in discussione persino i linguaggi, persino i vocaboli, perché si è capito che è già dentro al modo di parlare – potremmo aggiungere di vestirsi, di gesticolare, di camminare, di guidare, eccetera – che si nasconde ciò che pensiamo (e quindi, per esempio, i segni del sessismo, dell’omofobia, del razzismo e di tutte le altre buone vecchie maniere – non sono anche loro tradizione?), è ancora possibile pensare che proprio l’architettura, solo perché è sempre stata lì, le siamo affezionati e funziona ancora, debba continuare a prodursi perfettamente uguale a come è sempre stata? Come se proprio lei, la nostra carta d’identità su questo pianeta, possa essere immune alle nostre stesse mutazioni e a quelle del mondo che noi e la nostra architettura abbiamo provocato? Certo che sì, naturalmente. Possiamo continuare a scommettere sull’esistenza della natura come altro da noi, e quindi sulla lotta, sulla sopraffazione e sul possesso – a cosa fanno pensare questi vocaboli? Ed è proprio un caso? – di cui parla Botta. Possiamo chiuderci in casa ad aspettare che questi tempi bui passino, sperando che ecologia e cambiamento climatico siano fregnacce, come dice Trump, che infatti vorrebbe spianare tutto per farne grossi colonnati neoclassici. E augurarci che, come dicevano gli antichi prima della vicenda troiana, gli Dei tengano i lupi sui monti e le mogli nei nostri letti. 

Mario Coppola 

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Mario Coppola

Mario Coppola

Mario Coppola è un architetto e scrittore italiano. Insegna progettazione alla Federico II di Napoli e si occupa delle relazioni e dei conflitti tra spazio costruito, comunità e cambiamenti climatici. Ha scritto saggi e racconti fra cui il "Manifesto dell’architettura…

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