Fare comunità. Il Padiglione del Cile alla Biennale di Architettura di Venezia

In una piccola e composita wunderkammer, il Padiglione del Cile, curato da Emilio Marin e da Rodrigo Sepúlveda, racconta il quartiere José Maria Caro di Santiago. Un luogo che ha fatto della convivenza tra comunità diverse e variegate la propria strategia di vita quotidiana.

La mostra Testimonial Spaces, curata da Emilio Marin e Rodrigo Sepúlveda per il Padiglione del Cile, è custodita negli spazi dell’Arsenale all’interno di un volume di legno, colorato in blu elettrico, dal carattere volutamente provvisorio. Pensata come una sorta di “stanza delle meraviglie”, la mostra racconta 500 testimonianze trasformate in 500 quadri che illustrano momenti di vita quotidiana nell’emblematico e importante quartiere di José Maria Caro a Santiago del Cile, costruito formalmente sul finire degli Anni Cinquanta per fornire strutture e servizi agli agglomerati informali esito dell’esodo della popolazione rurale verso le aree più prossime alla capitale.
Un’operazione raffinata e straordinaria nella sua totale semplicità, che riporta le memorie e i ricordi degli abitanti e della storia del quartiere come infinite possibilità di convivenza, restituendo al visitatore un’esperienza visuale più vicina a una composizione sonora che non a un testo scritto da tante parole. Ne abbiamo parlato con i due curatori.

Com’è nata l’idea di raccontare la vita di questo quartiere?
Rodrigo Sepúlveda: José Maria Caro è un luogo interessante, proprio perché è vissuto da diverse comunità che nel corso di sessant’anni si sono qui costituite e consolidate trovando modi e spazi autonomi di condivisione e crescita. Abbiamo deciso di raccontare le loro storie per rispondere alla domanda di Hashim Sarkis, How Will We Live Together?, proponendo una riflessione su come potremmo vivere insieme in una comunità. Le testimonianze raccontate nei dipinti sono pensate come un lavoro collettivo, di collaborazione e dialogo che racconta ricordi, semplici fatti, brani di vita quotidiana del quartiere.

Perché avete deciso di usare il dipinto come strumento di comunicazione?
Emilio Marin: Cercavamo un modo più narrativo per raccontare le testimonianze del quartiere, e abbiamo pensato che i dipinti potessero essere uno strumento più universale e trasversale per comunicare lo stesso messaggio: nel dipinto si fa una sintesi, in un certo senso, di quanto viene raccontato e non c’è necessariamente un legame preciso con un luogo esatto, lo possono comprendere una vasta gamma di persone, mantenendo il messaggio essenziale di ciascuna di queste testimonianze.

17. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2021. Padiglione Cile. Testimonial spaces. Photo © gerdastudio

17. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2021. Padiglione Cile. Testimonial spaces. Photo © gerdastudio

DIPINGERE UNA COMUNITÀ

Quali parametri vi siete dati per la realizzazione dei dipinti?
Emilio Marin: I ricordi sono cose molto fragili. Abbiamo deciso di utilizzare l’olio per la pittura e non il tratto del disegno tradizionale dell’architettura perché troppo secco e deciso, non rappresenta l’essenza effimera dei ricordi. Abbiamo pensato che l’uso dell’olio ci avrebbe permesso di rendere i singoli quadri più leggeri e vicini a un pubblico più ampio, anche non legato al mondo dell’architettura.

Quindi quale legame avete trovato con l’architettura?
Emilio Marin: In qualche modo, fin dall’inizio, abbiamo cercato di unire la narrazione, il dipinto e la rappresentazione architettonica: ogni quadro è disegnato secondo un’angolazione specifica per avvicinare il disegno alla raffigurazione dell’architettura, utilizzando però il tratto dell’olio che in qualche maniera si dissolve nel disegno stesso.

Che cosa è emerso da questa raccolta di testimonianze e ricordi delle persone che vivono a José Maria Caro? In che modo la comunità integra modi diversi di abitare il quartiere?
Rodrigo Sepúlveda: José Maria Caro è cambiato molto nel corso della sua storia. Tuttavia, ancora oggi è una realtà fatta di contraddizioni e di stereotipi, ma anche di assonanze e d’immaginazione. Ci vivono comunità di persone di diverse estrazioni sociali, in una mixité che lavora quotidianamente sul proprio equilibrio. La ricchezza delle infinite possibilità di vivere insieme si trova nel continuo dialogo di contrattazione tra spazi formali e informali, tra luoghi e circostanze comuni, e tattiche che fanno convivere funzioni diverse e spazi canonici.
Emilio Marin: Alcune delle testimonianze raccolte nei dipinti provengono dai primi abitanti del quartiere così come altre sono di persone più giovani. Questo ha permesso di avere una combinazione di racconti che qui sono disposti secondo una composizione visiva e senza seguire una specifica linea temporale. Ci interessava costruire un paesaggio fatto di ricordi, un territorio che esplora le infinite possibilità e dimensioni del vivere insieme nella vita quotidiana, in un misto fatto di contraddizioni ma anche di assonanze. I dipinti rappresentano i tasselli di questo paesaggio.

17. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2021. Padiglione Cile. Testimonial spaces. Photo © gerdastudio

17. Mostra Internazionale di Architettura, Venezia 2021. Padiglione Cile. Testimonial spaces. Photo © gerdastudio

IL PROGETTO DEL PADIGLIONE CILE

Come avete raccolto le 500 testimonianze?
Rodrigo Sepúlveda: Attraverso la collaborazione dei rappresentanti delle diverse comunità del quartiere abbiamo coinvolto gli abitanti, che liberamente hanno trasmesso i loro ricordi a un team di storici che li hanno trasformati in racconti brevi, dipinti poi in un secondo momento dai pittori.
Emilio Marin: In effetti, non abbiamo lavorato veramente insieme, lo abbiamo fatto separatamente, in ciascuna fase, ma pensando a un esito che fosse collettivo. I pittori avevano il compito specifico di disegnare i racconti brevi seguendo un set di dieci parametri specifici, tra cui, per esempio, la dimensione dei singoli quadri, la necessità di non raffigurare mai i visi delle persone e di non dettagliare i materiali delle superfici, con un set prestabilito di colori da mescolare.

Questo per avere un esito formale di tutti i quadri pressoché comune, e permettere al visitatore di interpretare ciascun quadro solo come un momento di un paesaggio più ampio?
Emilio Marin: Sì, volevamo che l’attenzione del visitatore fosse concentrata sull’azione raccontata nei diversi quadri e non sulle persone o sugli spazi. Per questo abbiamo deciso che tutti i quadri fossero dipinti con lo stesso linguaggio, senza interpretazione, e senza personalismi. Questo, forse, significa vivere in una comunità: lasciare che la dimensione personale si riconosca e prenda forma in quella collettiva, parlando ciascuno con la propria voce ma cantando un’unica canzone.

‒ Simona Galateo

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Simona Galateo

Simona Galateo

Architetto e curatore, ha studiato alla Facoltà di Architettura di Ferrara, Urban Studies alla Brighton University con una borsa di studio post-laurea e ha ottenuto un Master di II livello in Strategic and Urban Design al Politecnico di Milano. Prosegue…

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