Chi era Enric Miralles. Il maestro dell’architettura catalana raccontato da Benedetta Tagliabue

Benedetta Tagliabue ci ha accompagnato in un inteso viaggio nella vita, nella carriera e nel pensiero di Enric Miralles. L’architetta è co-curatrice del programma MIRALLES, che in alcuni luoghi simbolo della città di Barcellona rende omaggio al visionario architetto, designer e docente, prematuramente scomparso nel 2000.

2021: sono passati 20 (+1) anni dalla morte di Enric Miralles, architetto catalano di fama internazionale. In veste di curatori, Benedetta Tagliabue, con cui Miralles fondò lo studio Miralles Tagliabue EMBT, e Joan Roig i Duran (dello studio Battle i Roig) hanno scelto di commemorarne l’opera con quattro mostre che avvicinino al suo lavoro tutti, non solo il pubblico specializzato. Inaugurano così: MIRALLES. A quarts de quatre… presso il Saló de Tinell che nel 1956, a 30 anni dalla morte di Antoni Gaudí, ospitò la grande retrospettiva dedicata al “pilastro dell’architettura catalana”; MIRALLES. Photos & Collages, curata da Salvador Gilabert Sanz e allestita al Centre d’Arts Santa Mònica de la Generalitat de Catalunya; MIRALLES. To be continued…, che nella Fundació Enric Miralles analizza il lavoro dello studio dopo la scomparsa dell’architetto; MIRALLES. Perpetuum Mobile al Disseny Hub del Ajuntament de Barcelona, sulla sua produzione come designer. A questi progetti espositivi si sommano inoltre MIRALLES. A l’escola presso la Escola Tècnica Superior d’Arquitectura de Barcelona (ETSAB), con un focus sul suo lavoro accademico, e MIRALLES. Converses con Rafael Moneo, Beatriz Colomina, Soraya Smithson, Carmen Pinós e la stessa Tagliabue, che si terranno al Col.legi Oficial d’Arquitectes de Catalunya (COAC).

Benedetta Tagliabue. Photo Vicens Gimenez

Benedetta Tagliabue. Photo Vicens Gimenez

INTERVISTA A BENEDETTA TAGLIABUE

La celebrazione della figura di Enric Miralles è sentita in tutto il mondo, non solo a Barcellona. Leggere l’“incertezza” all’interno del linguaggio e l’approccio al mestiere di Enric, e come i due temi ‒ architettura e incertezza ‒ si legano tra loro, spiccano dal titolo della mostra principale.
Con Joan Roig, che ha sicuramente uno sguardo nuovo nella lettura del lavoro di Enric, abbiamo scelto di non tradurre i titoli delle esposizioni. A quarts de quatre è un modo di dire catalano, complesso come la scansione delle ore in questa lingua, che si potrebbe interpretare come “più o meno”. È calzante con ciò che Enric spesso affermava: “Il nostro motto è più vicino a More or less che non Less is more di Mies Van der Rohe”. Non era affatto una persona imprecisa, ma gli piaceva dare la possibilità a una situazione o circostanza, al caso o al momento di avere un’impronta nel progetto. Un grado di incertezza che nasceva dal divenire stesso delle cose.

Lo stesso spirito si ritrova anche in fase di studio dei suoi progetti, tanto che è molto originale l’idea di stabilire un contatto e una continuità tra il suo punto di vista da osservatore nei primi sopralluoghi e l’elaborazione grafica mediante l’uso del collage, molto legato al mondo dell’arte. Nello studio è stato assorbito e fa ancora parte della vostra progettazione?
Credo che lo abbiamo assorbito, ma anche cambiato, adattato al momento. L’influenza dell’arte nell’architettura di Enric e per lo studio è stata importante, anche perché era una maniera per introdurre altri temi: se osservi solo architetture, finirai per riprodurre solo quelle, ma se allarghi lo sguardo agli artisti e hai la capacità di mescolare, allora probabilmente arriverai a risultati diversi.

Come funzionava per Enric il ricorso al collage?
Inizialmente era una maniera per sperimentare, per arrivare ad avere qualcosa di nuovo. Ricordo che visitammo il MET di New York, nel 1988, proprio mentre c’era la grande retrospettiva su David Hockney. Lui è stato uno degli artisti più amati da Enric, per la sua freschezza, spontaneità, assenza (apparente) di pretese intellettuali. I suoi collage di fotografie, che assieme formano un’immagine che puoi deformare, lo colpirono al punto che tornando in studio iniziò a realizzare le “foto Hockney”, un sistema che gli permetteva di trasformare la realtà vedendola alla propria maniera. Abbiamo continuato a usare questo strumento anche dopo la morte di Enric: prima di ogni progetto raccogliamo una serie di input, tradotti in immagini. Lavorare su queste suggestioni, rimontarle in un’altra maniera, diviene il primo movimento del progetto. Tanti anni fa Enric iniziava il progetto con la sua mano, con uno schizzo; adesso lo avviamo in maniera collettiva, con un collage, che a volte diventa il progetto, a volte lo accompagna. Non necessariamente è la base ma ci aiuta a iniziare.

Enric Miralles, Benedetta Tagliabue & RMJM Scotland, Nuevo Parlamento de Escocia en Edimburgo, 1999 2004

Enric Miralles, Benedetta Tagliabue & RMJM Scotland, Nuevo Parlamento de Escocia en Edimburgo, 1999 2004

L’ARCHITETTURA SECONDO ENRIC MIRALLES

Uno degli aspetti che emergono nello studio di Miralles architetto è lo stretto legame con il luogo del progetto, tanto che dal Cementerio di Igualada (1988-1993) al Mercado y Barrio di Santa Caterina a Barcellona (1995-2005) le architetture sembrano essere appartenute a quel luogo da sempre. In quale modo lasciate che il luogo permei così profondamente l’edificio a tal punto da, infine, appartenervi?
Il luogo per noi ha un’importanza grandiosa nel progetto ed esso stesso ha un’influenza sul luogo, come un sasso che cade nell’acqua generando un movimento della superficie liquida quasi infinito. Non si saprà mai fino a che punto un’architettura può influire sul sito che la accoglie. All’inizio, quando ancora lavoravamo a mano, a china, facevamo molti disegni del piano di situazione, che è importantissimo per imparare a conoscere il territorio, come sono fatte le montagne, dove sono le strade. A seguire si facevano grandi collage fotografici di ciò che disegnavamo, e questo ha sempre avuto risvolti inaspettati.

Ci racconta un episodio?
Lavoravamo con il fotografo antropologo Domi Mora, con cui Enric faceva gli esperimenti più radicali. Un giorno chiese a Domi di fotografare solo i confini del progetto, per vedere come l’edificio li influenza. Portarono avanti tantissimi studi sulle ombre, su come la signora con il passeggino trovasse il riparo più comodo e fresco, su come una formica vede l’edifici: ci ha aiutato a visualizzare che il costruito e la sua influenza sono quasi infiniti. Una delle serie di Domi che ha avuto maggior successo è stato l’alfabeto fatto di ombre per il Padiglione del Basket di Huesca (1990-1994). Con lui ho continuato a lavorare perché il processo diviene quasi mistico, incomprensibile in fase di creazione. Per me resta memorabile una serie in cui Mora, fotografando nei tubi strutturali del Mercato di Santa Catarina in costruzione, vede il cosmo (una luna, le stelle…).

L’imprevedibile non vi ha sicuramente mai fermato, tant’è che nel 2004 avete raccolto una sfida complicatissima, in Italia: la stazione della metropolitana di Napoli nell’austero Centro Direzionale di Kenzo Tange.
Non conosco fino in fondo la storia del Centro Direzionale (completato nel 1995), ma mi ha sempre dato l’impressione di un Kenzo Tange avanti con l’età che, dopo essere stato a Napoli, esausto, sceglie di realizzare qualcosa che è tutto il contrario di quello che è la città. Il suo insediamento è organizzato per strati, molto geometrico, con percorsi e viabilità differenziate, che quasi sembra uno specchio. Molto affascinante nel suo essere quasi un “forte impenetrabile” che però, nell’equilibrio urbano, crea un distacco tanto forte da renderlo poco amato e talvolta pericoloso. Per noi la stazione era una sfida che già partiva con una connotazione positiva ‒ l’arrivo della vita dal sottosuolo ‒; abbiamo immaginato una bolla vulcanica che si riprende lo spazio in superficie e lo riavvicina alle dinamiche tipiche della città.

E, in questo processo, avete privilegiato il legno…
Abbiamo scelto materiali naturali come il legno, che entra in armonico contrasto con la durezza del Centro Direzionale. Avremmo voluto anche qui una copertura di ceramica, per rimandare alla tradizione locale delle ceramiche artistiche di Vietri e non solo. Era impossibile per motivi di budget, ma ci ha dato l’idea per realizzare un grande murale sul tetto. Stiamo lottando perché possa concretizzarsi: Napoli, anche nel campo della Street Art, ha una più nuova ma sicuramente rinomata tradizione.

Enric Miralles & Benedetta Tagliabue, Mercado y Barrio de Santa Caterina en Barcelona, 1999 2005. Photo © Alex Gaultier

Enric Miralles & Benedetta Tagliabue, Mercado y Barrio de Santa Caterina en Barcelona, 1999 2005. Photo © Alex Gaultier

MIRALLES, GAUDÌ E BARCELLONA

Per ricollegarci al parallelismo, più volte ribadito, tra Miralles e Gaudí, ci sono tre parchi che, nel nostro immaginario, “sono connessi”: il Parc Güell, il Parque Cementerio de Igualada e il Parque Diagonal Mar. Ciò che li lega è la lettura del territorio, che viene plasmato in maniera tale da sembrare di essere sempre stato lì, ma allo stesso tempo finisce per arricchirlo esponenzialmente.
Tra le lezioni più belle di Enric a cui ho assistito, una fu proprio sul Parc Güell. Era incentrata sulla trasformazione topografica fatta da Gaudí su un luogo tra i peggiori della città. Un’operazione, quella di Eusebio Güell, di nuova urbanizzazione su un lato della montagna (Monte Carmelo) assolutamente inedificabile. Gaudí, come primo gesto, ha reso vivibile un territorio che prima non lo era. Il resto dell’urbanizzazione non è mai stato portato avanti, ma è rimasto questo colpo di genio. Per Enric era di grandissima ispirazione ed è vero che Igualada è figlia di quell’idea di trasformazione topografica che rispetta l’esistente senza paura di toccarlo: apprezzarlo vuol dire avere il coraggio di intervenire scavando. In questo caso, il grande buco che scende è un gesto forte che però oggi quasi percepiamo come già esistente, precedente all’intervento dell’architetto. E qui sta il grande valore del suo lavoro. Enric giocava molto: andavamo a fare visite di cantiere di Igualada praticamente ogni settimana. Il Cementerio non finiva mai e c’erano due operai che lavoravano diretti su ogni dettaglio, un approccio molto familiare. Ricordo che la prima volta che hanno piantato i pini alla base dello scavo, Enric, scherzando, mi ha portato ed entusiasta mi ha detto: “Guarda, non è morto il pino che era già qui!”. E io sorpresa ci ho creduto, fin quando mi ha ricordato che lo scavo era sceso di 8/10 metri in profondità, dunque era impossibile che lì ci fossero pini! Il gioco però era rispondente alle volontà di Enric, ovvero fondere il preesistente con l’intervento architettonico.

E il Parque Diagonal Mar?
Testimonia una fase più cosciente. Ci sono disegni che rappresentano il parco come un giardino cinese, la sua artificialità studiata per far credere che tutto è assolutamente naturale: fu questo il nostro approccio a quest’area. Inizialmente il sito era una palude che ospitava fabbriche, desolata, piana. Il terreno è stato plasmato per ricavarne un lago, gli scavi, la cascata, le collinette, le discese, il ponte: tutto assolutamente “inventato” e, allo stesso tempo, sembra di averlo già trovato lì. La natura artificiale. Ad esempio, tutti i sassi che compongono i muri di contenimento, analoghi a quelli di Igualada, inizialmente dovevano essere artificiali utilizzando forme di cemento, ma poi costavano talmente tanto che sarebbe stato impossibile. Però tutti gli elementi che ad esempio coronano il lago e che evitano di avere corrimano sono stati realizzati in cemento come nel progetto originale.

Enric Miralles. Photo Maro Kouri

Enric Miralles. Photo Maro Kouri

MIRALLES ARCHITETTO, DESIGNER, DOCENTE

Miralles ha avuto modo di insegnare in università che hanno un approccio accademico all’architettura estremamente diverso. Sarebbe interessante capire cosa ha preso dai luoghi in cui ha insegnato e cosa invece ha lasciato ai suoi allievi e colleghi.
Enric aveva la capacità di apprendere come una spugna, molto velocemente, e spesso imparava cose che faceva finta di disprezzare. Ricordo quando ci siamo conosciuti: stavo studiando alla Cooper Union for the Advancement of Science and Art di New York, avevo una passione per John Hejduk e per il suo metodo un po’ mistico e speciale, in cui la “section” era quasi invenzione. Miralles criticava molto tutto ciò, sostenendo che la pianta fosse più completa della sezione. Invece, pochi anni dopo, iniziò a insegnare alla Scuola di Barcellona con un metodo assolutamente rivoluzionario e che a mio parere aveva preso molto dalla maniera della Cooper Union. Offriva sempre una via di cambiamento ma anche di incertezza. Per esempio alla Columbia un semestre fece disegnare miniature, e poi interrompeva la lezione invitando gli studenti ad andare in giro a esplorare. Oppure a Barcellona chiese agli allievi di disegnare una città alla maniera dei situazionisti. Era molto coraggioso e altrettanto consapevole che allievi e colleghi perdevano, con il suo approccio, i punti di riferimento conosciuti. Quando vinse la cattedra alla Städleschule di Frankfurt-am-Main, la moderna Bauhaus in Germania, in questa scuola favolosa in cui la sezione di architettura è l’unica tra sezioni d’arte, ci trovammo con colleghi artisti di altissimo livello. Di certo questa commistione fu per Enric di grande influenza.

Nonostante la progettazione “non bloccata”, i progetti dello studio sono molto complessi. Tra tutti il Nuovo Parlamento di Scozia ad Edimburgo (1999-2004). Chi entra nell’edificio ne percepisce l’armonia nella complessità. Lo stesso spirito si ritrova, in scala molto ridotta, nel progetto del tavolo “inestable”, grande precursore dei nostri tavoli in epoca pandemica. Miralles seguiva questo approccio come filosofia di pensiero o era qualcosa di intrinseco alla sua persona?
Credo sapesse che gli interessava, ma non lo rendeva una teoria intellegibile. A proposito dei nostri tavoli in epoca di pandemia, era proprio questo che voleva: “Quasi quasi potrebbe esserci la cucina” – diceva – “non c’è bisogno dell’appartamento, un tavolo è tutto e tutto si fa con questo tavolo!”. Gli piaceva molto questo concetto di libertà di interpretazione di un oggetto, ed effettivamente ha molto a che vedere con il Parlamento di Scozia. In quel caso disegnò un numero incredibile di varianti in fase di progetto: nell’esposizione abbiamo provato a mostrarlo soprattutto grazie al ritrovamento di una cartellina, che fortunatamente non era mai arrivata in studio, dove sarebbe andata persa sui tavoli di lavoro. Questa serie, disegnata a Natale, è composta da circa 50 schizzi che sono stati esposti proprio per far capire la varietà dei disegni e delle versioni dello stesso progetto, circa 15 prima della definitiva.

Sicuramente questo progetto e quello del Pabellón de Huesca hanno avuto una parabola inaspettata nella loro fortuna: nel caso di Huesca la grande aspettativa, il grande crollo e poi il meritato riconoscimento; nel caso del Parlamento, nuovamente la trepidante attesa, la grande assenza, e infine il traguardo raggiunto.
Quando è caduto il tetto di Huesca, il fatto ha avuto dell’incredibile perché nel precedente Palazzo dello sport, trent’anni prima, durante la pausa pranzo era crollato il tetto in costruzione. E quindi tutti erano terrorizzati. I giornalisti ironizzavano molto sulla possibilità che crollasse di nuovo e sicuramente la struttura progettata era molto sofisticata. Ecco, quando una notte il cliente ci telefonò e per comunicarci il crollo ci disse, testuali parole: “Finalmente è successo, è caduto il tetto di Huesca”. Per noi fu terribile, pensavamo che la nostra carriera fosse conclusa. Adesso, ritrovare gli scambi via fax con le lettere di appoggio, il coraggio e la forza di Enric di rimettersi al lavoro convincendo la ditta costruttrice a proseguire l’opera con una copertura più economica, ha gettato nuova luce sul progetto. Un finale felice che però è costato il silenzio stampa, finché noi stessi non lo abbiamo portato alla Biennale di Venezia e pubblicato.

Concludiamo con uno sguardo al futuro, quello che lo studio ha tracciato nella mostra To be continued”.
Alla morte di Enric ho avuto sempre una certezza: avremmo continuato. Ricordo molti dei collaboratori che si chiedevano quale potesse essere la direzione da prendere. Quasi come se fosse partito per un viaggio, si sono completati i progetti iniziati insieme, per poi affrontare nuovi concorsi, nuovi luoghi in cui progettare, come la Cina per esempio, che Enric non ha mai visto e in cui mi sto divertendo molto: la trovo geniale. Un altro percorso nuovo intrapreso è quello delle architetture tessili, iniziato con il Padiglione di Spagna all’Expo di Shanghai 2010, che sono certa gli sarebbe piaciuto molto.

Flavia Chiavaroli

www.mirallestagliabue.com

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Flavia ChiavarolI

Flavia ChiavarolI

Architetto, exhibition designer e critico freelance. Osservatrice attenta e grande appassionata di architettura ed arte moderna e contemporanea riporta la sua esperienza nell’organizzazione di workshop, collabora con artisti e fotografi e aggiornando i principali social network. Dal 2012 si occupa…

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