Intervista ad Alberonero, il giovane artista italiano che fa il contadino e il bracciante

“Sono nato a Lodi, che è un po’ la campagna di Milano, e per scelta sono ritornato in un ambiente piatto dove c’è la nebbia, la merda di mucca” ci racconta Luca Boffi, in arte Alberonero

Località balneare à la mode, costruita dal nulla a metà del XIX secolo come “luogo di piacere” per l’aristocrazia e l’alta borghesia parigina, Deauville è anche un luogo dove la cultura – dal cinema alla letteratura, dalla musica all’ippica – è riconosciuta come risorsa di grande valore. Anche la fotografia ha un ruolo primario con il festival Planches Contact, realizzato dalla municipalità con il supporto del Ministero della Cultura, la Regione Normandia e il Dipartimento Calvados che, con la direzione artistica di Laura Serani (alla sua guida dal 2019) ed il coordinamento di Camille Binelli, ha appena inaugurato la sua 14esima edizione (fino al 7 gennaio 2024). La caratteristica della rassegna è quella di essere un “festival-laboratorio” dove artiste e artisti internazionali sono invitati in residenza per produrre i loro progetti in dialogo con le diverse realtà del luogo. Tra le 25 mostre inedite di Planches Contact 2023, Panorama Imaginaire di Luca Boffi (in arte Alberonero, nato a Lodi nel 1991) crea un cortocircuito visivo con la sua struttura in tubi innocenti e le immagini fotografiche stampate su tela.

Luca Boffi, Panorama imaginaire, Planches Contact 2023. Photo Manuela De Leonardis
Luca Boffi, Panorama imaginaire, Planches Contact 2023. Photo Manuela De Leonardis

Intervista a Luca Boffi, alias Alberonero

Puoi descrivere il tuo intervento?
Il lavoro è fatto per accogliere le persone che possono viverlo attraverso il suo cambiamento. Le fotografie sono stampate su tessuti semitrasparenti che si modificano con il sole, la pioggia e anche durante la giornata attraverso i cambiamenti della luce. Sono interessato a offrire un nuovo paesaggio e dare un nuovo punto di vista di quello che può essere lo spazio urbano all’interno di questo luogo. Nella mia vita faccio anche il contadino, quindi le fotografie fanno parte del contesto dei campi della Bassa Lodigiana, a sud di Milano che frequento ogni giorno quando vado a lavorare. Gli oggetti che si trovano all’interno dell’architettura, invece, sono stati donati e scambiati con i pescatori di Trouville. I pensieri poetici, infine, servono a raccontare un luogo immaginario che è rappresentato dalle fotografie.

Qual è il significato delle diverse componenti di questo progetto?
Panorama Imaginaire è fatto per trasformarsi. Adesso lo vediamo in questo modo, tra un’ora lo vedremmo in un altro. Quando piove i tessuti non sono più trasparenti: con l’acqua si riempiono e diventano pieni, quindi non si vede più attraverso. Questa è la prima caratteristica dell’immagine. In quest’opera, però, la fotografia è una parte del tutto, nel senso che siamo davanti ad un paesaggio più architettonico che fotografico. Il mio interesse era legare un paesaggio che in questo luogo non esiste – un paesaggio italiano, quindi immaginario, che evoca una pianura – con quello locale attraverso gli oggetti della pesca, che sono la tradizione di questo posto. Oggetti che sono messi come lampadari, come dei gioielli e che, in realtà, sono le catene con cui vengono pescate le capesante. Le poesie fanno parte del lavoro perché il desiderio è quello che una persona sosti su queste panchine e, attraverso la lettura, comprenda qualcosa in mia assenza. È pensato proprio per sostare. La cosa che mi interessava era di fare un lavoro brutalista, in contrasto con quello che è il sistema visivo di Deauville. La scritta “romantisme brutaliste” (romanticismo brutalista) esprime proprio la mia intenzione.

L’intenzionalità delle scritte in stile graffiti hai in sé anche un’idea di immediatezza?
È un approccio anche infantile.

Però dietro c’è un concetto molto strutturato…
La ricerca arriva dalla frequentazione della terra, quindi dalla profondità. Sono stato per più di un anno all’interno di un campo di pioppi che poi sono stati tutti abbattuti. Ne è nato un progetto che è libro e film e tratta del mio desiderio di frequentare non umani. Anche qui, in un certo senso, con le scritte tra le foto degli alberi l’intenzione è quella di far capire il concetto che siamo esseri viventi prima che esseri umani.

Dimmi qualcosa anche degli oggetti che ti hanno dato i pescatori…
È stato tutto molto bello, soprattutto la costruzione in sé e la raccolta degli objets trouvés. Mi interessava che questo grande oggetto contenesse delle piccole cose che arrivassero direttamente da chi abita il luogo, come se queste cose aiutassero a riconoscere una propria presenza lì dentro. I pescatori ci hanno dato quasi tutto. Anche la risposta a quello che accade intorno è interessante, a come si muovono le cose quando le vai a cercare. All’interno dell’opera ho cercato di decontestualizzarle dandogli altri significati. Le boe, ad esempio, che di solito sono sott’acqua le ho messe più in alto e mi è venuto subito di usarle come delle stelle, mentre le reti sono usate come ulteriori display, dispositivi di visione che alcune volte sono sommate alle foto. Le reti, tra l’altro, fanno parte anche del mestiere agricolo. Si usano tanto anche nella terra.

Invece, la struttura che ricorda un po’ una gabbia?
È una struttura in tubi innocenti che doveva avere una sua stabilità. Mi interessava fare un lavoro che avesse un animo brutale grezzo in contrasto con le fotografie che diciamo che sono più oniriche e poetiche. Credo molto nel contrasto all’interno di un unico elemento. I tubi innocenti, tra l’altro, hanno un disegno che è il più essenziale possibile per la tenuta ma che ricorda anche le diagonali delle facciate delle case di questa zona della Normandia. 

Luca Boffi, artista e contadino

Come si colloca il tuo lavoro di contadino all’interno del processo artistico?
Prima di tutto mi ritaglio del tempo anche per non fare arte direttamente, ma per faticare in campagna. Quel tempo mi garantisce poi un tempo di pensiero più leggero, perché ho dato sfogo al corpo. Il lavoro artistico alcune volte inizia con la registrazione audio di pensieri sul cellulare, perché non mi metto a scrivere. Altre volte, in giro, con la videocamera o la fotografia. Il video mi piace molto. A casa, nella mia quotidianità, ho uno studio dove dipingo e costruisco opere.

In campagna quali sono le tue mansioni?
Faccio il bracciante. Ho un capo e lavoro per lui, perché quando viaggio per il mio lavoro artistico non posso avere la responsabilità dei campi. In campagna faccio quello che c’è da fare. Quando torno a casa il mio studio è la stalla di un cavallo in un’azienda agricola. La mattina posso dedicarmi ai campi, uso il trattore e faccio altro, poi il pomeriggio lavoro nel mio studio.

Spiegami meglio questo tuo rapporto con la campagna…
È importantissimo, secondo me, raccontare l’ambiente non da un punto di vista solo green o di cambiamento climatico, ma più di personificazione delle cose, perché faticando si acquisisce una coscienza all’interno di un luogo come, nel mio caso, la Pianura Padana. Un luogo che non è bucolico o bello, che è stato completamente trasformato e nel quale abbiamo delle relazioni che dobbiamo curare. Non è stata una scelta che ho preso da subito all’interno del mio lavoro artistico, prima ho lavorato tanto su altri tipi di paesaggi come i vulcani, le risaie: paesaggi che possiamo definire straordinari. Mi sono avvicinato all’ordinarietà quando mi sono trasferito da Milano alla campagna per fare il contadino a Campogalliano, tra Modena e Reggio Emilia.

Un cambiamento radicale…
Sono nato a Lodi, che è un po’ la campagna di Milano, e per scelta sono ritornato in un ambiente piatto dove c’è la nebbia, la merda di mucca. Si tratta, forse, di riconoscere quei luoghi che fanno parte un po’ di te da sempre. Anche rispetto ai pioppi, ho ritrovato negli sketchbook del 2010 una poesia che avevo dedicato agli alberi piantati in fila nei campi, che è poi la prima poesia del libro pubblicato12 anni dopo.

Il libro a cui hai fatto riferimento è Caro Campo. Diario di lavoro, vincitore della IX edizione dell’Italian Council?
Esatto, parla della convivenza con il campo di pioppi. Ho invitato amici artisti a dedicare le loro energie e pensieri a questo argomento, tra loro ci sono anche scrittori e musicisti. In Italia è stato presentato ad Artesella, poi andrò anche alle Azzorre. Il progetto si concluderà l’anno prossimo con un’esposizione.

Torniamo al medium della fotografia, qual è il suo ruolo nel tuo lavoro?
Per me è uno strumento per riguardare la quotidianità. Sono interessato non alla foto come tecnica ma, almeno per ora, alla poetica del quotidiano, anche per una memoria personale che mi manca. La fotografia mi aiuta a tenere le coordinate.

Che vuoi dire con “memoria personale che mi manca”?
Lavoro molto sulla riduzione, quindi c’è un’intenzione di creare un alfabeto sia visivo che materico di pochi elementi. Mi piace molto la sintesi, ma allo stesso tempo non ho proprio memoria come persona. Anche il frequentare i pioppi è nato come un archivio, un modo per vivere una realtà tutti i giorni.

Manuela De Leonardis

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Dal 1993 è iscritta all’Ordine dei giornalisti del Lazio e dal 2004 scrive di arti visive per le pagine culturali del manifesto e gli inserti Alias, Alias Domenica, ExtraTerrestre.…

Scopri di più