Intervista all’artista Paolo Bufalini: “faccio arte per insoddisfazione”

C’è inquietudine ma anche un senso di calma nelle opere di Paolo Bufalini, che usa perlopiù la scultura e l’installazione, ma che si dedica anche alla curatela, alla scrittura e alle arti dal vivo

Hanno il carattere inquietante e placido di una vanitas le opere di Paolo Bufalini (Roma, 1994). Difficile leggere le intenzioni dell’artista: l’impressione è quella di essere di fronte a piccoli enigmi senza soluzione, cortocircuiti visivi che nascono dall’assemblaggio di elementi dissonanti, eppure perfettamente in equilibrio. Forse è da qui, dall’equilibrio compositivo e formale, che deriva la strana tranquillità che sembra pervadere le sue opere; e, a proposito di vanitas, verrebbe da assimilare gli interventi di Bufalini a nature morte, realizzate a partire dall’accostamento di oggetti che suggeriscono un’origine antica (teschi umani, cotte di maglia, sfere di cristallo, selle di cavallo) e altri decisamente contemporanei (motociclette, cuscini, coriandoli, palette per raccogliere la spazzatura da terra). Negli ambienti dove prendono spazio i suoi interventi aleggia un’aura sinistra ma lontana da pericoli imminenti, quasi rassicurante. Una stasi che sembra generata dalla tensione tra la compostezza e la fragilità delle opere, tra la loro carica poetica e la costante sensazione di un vuoto, di una mancanza.

Nella tua pratica c’è un ricorso costante all’assemblaggio di elementi già esistenti. Un prelievo del reale che tuttavia sortisce effetti stranianti e tutt’altro che realistici. Mi sembra questo uno degli aspetti più incisivi della tua pratica: la capacità di generare visioni quasi oniriche a partire da ricontestualizzazioni e spostamenti apparentemente minimi.
Nel comporre le opere, effettivamente, vado spesso a ricercare accostamenti e alterazioni semplici, ad applicare un’idea a uno o più oggetti in maniera lineare. Mi pare che in questo modo si possa, da un lato, arrivare a una trasformazione degli elementi che compongono un’opera, al renderli altro da sé e, dall’altro, ribadirli nella loro letteralità. Mi interessa questo tipo di ambiguità, questo essere sulla soglia tra due mondi (realtà/finzione, sonno/veglia, utopia/distopia). Mi piace il fatto che tu abbia usato l’avverbio quasi, perché suggerisce un’incertezza, incertezza che si scontra con l’aspetto delle opere, che sono abbastanza apodittiche. Mi interessa materializzare delle atmosfere, delle sensazioni. L’ordine e la fissità sono solo due modi per tentare di approssimarsi a qualcosa di oscuro, di sconosciuto.

La tua sensibilità mi pare orientata verso questioni che accompagnano l’essere umano da sempre, piuttosto che temi legati all’attualità più stringente.
Mi è difficile nominare dei temi a cui ricondurre la mia ricerca, il mio modo di procedere è più legato all’intuizione che all’intenzione. Questo non significa che non ci siano riferimenti a questioni attuali, ma agiscono sottotraccia e sono ricontestualizzati in una prospettiva più ampia. I nodi problematici del presente, mi sembra, altro non sono che configurazioni provvisorie di questioni più vaste, manifestazioni di un nocciolo problematico più profondo, impermeabile all’azione umana. La mia pratica ha più a che fare con il mettere in scena quest’impotenza che con la prefigurazione di possibilità utopiche o di riscatto, e non perché non ne riconosca l’importanza, semplicemente il processo artistico mi porta altrove.

Che conseguenze ha tutto ciò sulla ricezione di quel che fai?
Anche per la sua stessa natura, ellittica e allusiva, il mio lavoro può risultare difficile da inquadrare. Per me è più importante creare un teatro di apparizioni, di presenze enigmatiche, che indicare delle categorie di lettura di tipo tematico.

Paolo Bufalini, Proposal, 2020, cuscini, arduino, schede xbee, stampa 3d, power bank, 2 elementi 50 x 50 x 20 cm ciascuno, courtesy l'artista. Photo Manuel Montesano

Paolo Bufalini, Proposal, 2020, cuscini, arduino, schede xbee, stampa 3d, power bank, 2 elementi 50 x 50 x 20 cm ciascuno, courtesy l’artista. Photo Manuel Montesano

IL MONDO DELL’ARTE SECONDO PAOLO BUFALINI

Sempre a questo proposito mi aveva colpito recentemente una dichiarazione di Andrea Bellini, nella quale il direttore del CAC di Ginevra se la prendeva con “il tentativo maldestro di acquisire capitale morale” da parte del mondo dell’arte, affermando inoltre che, “se la causa è buona, la sua banalizzazione cammina con essa”. Qual è il tuo punto di vista sulla questione?
Ci sono opere – penso ad esempio a certi film di Pasolini, o ad alcune opere di Francis Aly͏̈s – che, pur essendo al limite del didascalico, riescono ugualmente a essere belle e profonde. Un’altra artista che mi viene in mente è Jade Kuriki Olivo (Puppies Puppies), che integra l’attivismo alla sua pratica in modo molto potente. È difficile tracciare una linea di demarcazione, potenzialmente tutti gli approcci sono validi e ci sono molti tipi diversi di arte. Sono comunque d’accordo con il fatto che alcune questioni andrebbero maneggiate con attenzione e rispetto, anche per evitare appropriazioni indebite. Per quanto mi riguarda, fare arte è legato a un’insoddisfazione, quasi a una rivolta direi, tanto nei confronti di ciò che mi circonda che di me stesso, per cui mi è difficile pensare a questo come a un modo per acquisire capitale morale.

Puoi parlare di una tua opera rappresentativa di quest’insoddisfazione, ma anche del senso di incertezza e di impotenza a cui accennavi prima?
Prima hai citato la vanitas, un genere che interroga la fiducia o la speranza che riponiamo nelle cose mondane. Artaud ha scritto che “l’essere non è all’altezza del tempo”, un frammento che mi ha sempre fatto pensare all’impossibilità di aggrapparsi a qualcosa di stabile, fosse anche la possibilità di pensare noi stessi in maniera definita. È questo sentimento, credo, che mi induce a ricercare nelle opere una forma di perfezione, di imperturbabilità. È un modo di verificare la discrepanza tra virtuale e reale, tra l’assenza di gravità di quanto è immaginato e il peso di ciò che è fattuale. A questo proposito menzionerei un’opera e una mostra. L’opera è Proposal (2020), una coppia di cuscini meccanizzati che simulano un respiro lento e sincronico. Il titolo allude a un’ipotesi di armonia, di concordanza incorruttibile. Questa concordanza, per certi versi lirica, è anche straniante nel suo essere sempre uguale a se stessa, slegata dalla vita. La mostra, invece, è eve (Massimo, 2021), che ho concepito come una sovrapposizione di piani temporali – il futuro e il passato profondo, il già accaduto e l’imponderabile, l’origine e la fine. Ciò che è accaduto, in forma di detriti discorsivi o di reperto, è in dialogo con un altrove, il futuro evocato dalla sfera di cristallo, che è, a mio modo di vedere, tanto un’apertura quanto un ridimensionamento dell’umano e della sua presa sul mondo.

A proposito di futuro – del tuo in particolare –, che prospettive vedi come artista emergente in Italia?
Non posso fare paragoni con altri contesti che conosco solo superficialmente. Riscontro comunque, al momento, una certa difficoltà nel realizzare progetti un po’ più ambiziosi dal punto di vista produttivo. È raro trovarsi nella condizione di poter investire in un progetto, a meno che non lo si faccia in prima persona, ammesso che si possa farlo. Questo può rallentare non solo il percorso professionale, ma l’evoluzione stessa di una poetica.

Saverio Verini

https://paolobufalini.com

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #68

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Saverio Verini

Saverio Verini

Saverio Verini (1985) è curatore di progetti espositivi, festival, cicli di incontri legati all’arte e alla cultura contemporanea. Ha all’attivo collaborazioni con istituzioni quali Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, MACRO, Accademia di Francia…

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