Intervista a Rebecca Allen, la pioniera dell’arte digitale

Fra gli artisti in mostra alla Fondazione Julia Stoschek di Düsseldorf, Rebecca Allen è stata fra i primi a usare il computer come strumento per fare arte. Abbiamo ripercorso insieme a lei l‘evoluzione della tecnologia digitale

Worldbuilding. Gaming and Art in the Digital Age è la mostra inaugurata di recente alla Fondazione Julia Stoschek di Düsseldorf, a cura di Hans Ulrich Obrist. Visitabile per un anno e mezzo, riunisce oltre trenta artisti internazionali dagli Anni Novanta a oggi che operano su e con virtuale, videogame, 3D, metaverso e Intelligenza Artificiale. Fra questi artisti ci sono personalità attive da anni nel settore, come JODI, Peggy Ahwesh, Cory Arcangel, Sturtevant, autori più giovani, come the Institute of Queer Ecology, LaTurbo Avedon, e artisti cosiddetti più tradizionali come Ed Atkins. Fondamentale è la presenza, con la sua opera interattiva Bush Soul 3 (1999), della pioniera Rebecca Allen (Michigan, 1953), un caposaldo mondiale dell’arte digitale, da lei sperimentata fin dai primi Anni Settanta. Dopo la laurea alla Rhode Island School of Design e al MIT di Boston, è stata presidente fondatore del Dipartimento di Design e Media Art all’Università U.C.L.A. di Los Angeles, dove vive. Combinando ricerca artistica e tecnologica, sin dai suoi esordi si interessa all’uso del computer come strumento artistico per investigare sulla simulazione del movimento e comportamento umani e sugli algoritmi dell’intelligenza Artificiale. Fra le mostre personali istituzionali spiccano Sync(Emerge(Consciousness)), QUAD, Derby (2019); Life Without Matter, Zabludowicz Collection (2019), fra le collettive you feel me_, FACT, Liverpool (2019-20); Enter Through the Headset 5, Gazelli Art House, Londra (2020), Among the Machines, Zabludowicz Collection (2022), nel 2023 al LACMA, Los Angeles e in Italia nella mostra The Trilogy of Matter, alla GAMeC di Bergamo. Esposta in tutto il mondo, i suoi lavori fanno parte delle collezioni permanenti del Centre Georges Pompidou di Parigi, del Whitney Museum of American Art e Museum of Modern Art di New York. Ha collaborato con artisti, musicisti e coreografi quali Nam June Paik, Kraftwerk, Twyla Tharp e Mark Mothersbaugh.

Rebecca Allen, The Bush Soul 3, 1999

Rebecca Allen, The Bush Soul 3, 1999

INTERVISTA A REBECCA ALLEN

Bush Soul è una serie ispirata a videogame ma anche ad alcune culture dell’Africa occidentale, per le quali esistono molte anime in un individuo, fra cui la “Bush Soul”, appunto, legata al mondo animale. L’opera implica l’interazione fra diverse personalità di vite artificiali. È stata scelta proprio Bush Soul 3 per la mostra alla JSC di Düsseldorf. Cosa rende questa serie significativa nell’ambito della tua opera?
Negli Anni Novanta, poiché avevo lavorato a lungo nella grafica tridimensionale, collaborai con la Virgin nell’ambito dei videogiochi, che stavano diventando appunto tridimensionali. Dopo questa esperienza decisi di creare un’opera che usasse gli stessi strumenti dei videogame. Parliamo ormai tutti di realtà virtuale, ma mi sono chiesta: dove si colloca il nostro corpo in questo contesto, nel quale sussiste la nostra mente ma non il nostro corpo? Avevo letto di questa credenza africana per cui abbiamo molte anime, e mi dissi di usare la “Bush Soul” per muovermi in un mondo virtuale simile alla jungla.

In questo videogioco però non c’è scopo, cioè non è un gioco con regole di vittoria o sconfitta. Perché?
Esiste tutta un’area del virtuale e del gioco che non è legata alle regole strette di un tipico videogame ma che mira piuttosto alla costruzione di un mondo altro nella realtà virtuale. Non solo, ma con quest’opera ho voluto protestare contro una certa concezione riduttiva del videogioco dove le persone entrano per uccidere e distruggere. Ho voluto creare invece un mondo immersivo di esperienza, dove creature artificiali hanno personalità e comportamenti specifici, anche psicologici, e l’interazione fra le diverse creature, di assorbimento dell’una o dell’altra, viene avviata liberamente dal programma. Gli artisti a mio avviso devono contribuire a prefigurare il futuro e immaginare mondi alternativi. Anziché esplorare Marte o la Luna e portare distruzione, si possono esplorare mondi virtuali cercando di capire la natura dell’interazione, per mezzo dell’intelligenza Artificiale, delle creature che li popolano.

Tutto ciò è reso possibile da quello che fu un vero e proprio avvento nel mondo della ricerca sulla grafica tridimensionale, il software che avete inventato con la tua squadra, Emergence, atto a fornire un linguaggio alla simulazione di forme di vita artificiali nel campo dell’intelligenza Artificiale. In cosa questo software fu un apripista?
Il termine viene da “emergere” non da “emergenza”. Si tratta di un sistema in cui disponi le regole, ma quello che viene fuori è autonomo. Si chiama appunto comportamento emergente. Come artista è davvero interessante, crei comportamenti ma poi non controlli cosa ne deriva. Per creare Bush Soul 3 ci vollero tre anni. Era il 1999, ora è normale avere le tecnologie per arrivare a questo, ma in quegli anni dovetti creare io stessa il programma e il suo linguaggio, con una piccola squadra di studenti. In qualità di artista, ritengo che non si possa prescindere dall’impatto che la tecnologia ha sull’essere umano. Oggi voglio portare l’attenzione su cosa si può fare con questi mezzi, che non sia solo comprare online o accedere ai social network.

Sembra che il trend della realtà virtuale e aumentata, in campo artistico almeno, sia quello di essere superato da un’estetica più visionaria. Che sia perché il digitale si sta comportando come la pittura e poi la fotografia, che nacquero per rappresentare la realtà, e poi quando furono superate da un’altra tecnologia andarono oltre il mero realismo?
Assolutamente sì. Quando la fotografia ha spodestato la pittura dalla rappresentazione della realtà, è nata la pittura astratta. Va detto che quando io feci Bush Soul non avevo una tecnologia sofisticata per la realtà virtuale e aumentata, mentre oggi molti giovani artisti, abituati all’iperrealtà dei videogiochi, operano in questo senso. Io non penso che sia necessario. Preferisco, in quanto artista, spingere il realismo oltre i suoi limiti.

Rebecca Allen, The Bush Soul 3, 1999

Rebecca Allen, The Bush Soul 3, 1999

ARTE E DIGITALE SECONDO REBECCA ALLEN

Quando studiavi alla Rhode Island School of Design ti interessasti alla ricerca durante l’era industriale, a inizio secolo scorso, da parte del Costruttivismo, della Bauhaus e del Futurismo, con la loro concezione dell’uomo-macchina. Ora, con l’Intelligenza Artificiale, il rapporto sembra inverso, cioè non è più l’uomo a comportarsi come la macchina ma viceversa. Pensi sia un’evoluzione logica del fenomeno o un aspetto diverso dello stesso fenomeno?
Posso dire che, quando mi interessai a questi movimenti, mi accorsi come gli artisti investigassero sugli effetti della tecnica e della macchina sul comportamento umano. Negli Anni Settanta mi chiesi se non sarebbe stata l’era elettronica a determinare nuovi comportamenti umani. Mi accorsi però che nel mondo matematico, elettronico e tecnologico, mancava del tutto il corpo umano. Per cui decisi di trovare una via per immettere il corpo nel computer, un corpo femminile. Il mondo del computer era infatti essenzialmente maschile.

Il tuo primo modello femminile in 3D realizzato nel 1981 con i primi software di animazione fu un modello femminile che aveva la funzione di interpretare Santa Caterina nel video coreografico di Twyla Tharp, The Catherine Wheel, con le musiche di David Byrne, uscito nel 1982.
Ancora prima di The Catherine Wheel realizzai la mia prima animazione in 3D con un modello femminile nel 1981 in un breve video dal titolo Swimmer, quindi feci il video STEPS e infine Santa Caterina. Il video di danza prevedeva infatti la presenza di Santa Caterina, ma una Santa non visibile realisticamente. Una Santa in fondo è come una Wonder Woman. Fu uno dei primi esempi di modello tridimensionale di un corpo in movimento generato al computer. Volli contrastare il modello del sexy robot femminile che già imperava in quegli anni. E fu la prima volta che un modello in 3D così intricato veniva trasmesso in televisione.

Pensi sia ortodosso immaginare un parallelo fra religione e tecnologia laddove entrambi mirano a ipotizzare l’inimmaginabile, mondi altri rispetto al nostro?
Nell’universo del digitale la religione non viene contemplata né lo spiritualismo, perché nulla può essere comprovato dai fatti. Personalmente, benché non religiosa, penso vi sia qualcosa nel nostro spirito, nella nostra coscienza, che non conosciamo e non capiamo. Forse si tratta di una energia di cui non possediamo ancora gli strumenti per definirla.

Un tempo gli artisti si confrontavano con la politica, oggi con la tecnologia. Perché?
Perché ormai la tecnologia è diventata un’estensione del nostro corpo e della nostra mente, che lo vogliamo o no. Anche nell’arte più tradizionale, come pittura o fotografia, non si prescinde più dal computer come strumento artistico.

All’inizio dei tuoi studi, ti venne sconsigliato in quanto artista di usare il computer. Perché?
Sì, fu molto frustrante. Il computer nel mondo dell’arte non veniva considerato come mezzo espressivo. Eppure, ripeto, io ritengo che gli artisti debbano indicare il futuro, dargli forma. Invece mi era impossibile mostrare il mio lavoro, e spesso mi veniva detto dagli addetti ai lavori dell’ambiente artistico “non ci capisco niente”. Ma non vi era nulla da capire, restava pur sempre un’esperienza estetica. Non serve capire come si scolpisce il marmo per apprezzare una scultura in marmo. È la stessa cosa. Questa resistenza è durata per tutta la mia carriera.

In senso opposto invece, descrivi la tua esperienza con Nicholas Negroponte al MIT di Boston come molto diversa. Qui, lavorando nella squadra dell’Architecture Machine Group sull’Aspen Movie Map nel 1977-78, che anticipò quello che oggi è Google Streetview, è stata la tecnologia a ricorrere a te in quanto artista.
Fui davvero fortunata. Era la fine degli Anni Settanta e come artista non avevo luoghi dove lavorare con il digitale. Va detto però che Negroponte era un’eccezione. Era diverso da tutti, essendo un architetto era interessato all’arte. Altrimenti, era molto raro che un artista potesse entrare nei laboratori di ricerca digitale. Fui accettata, anche successivamente, da un lato perché avevano bisogno di produrre immagini, ma dall’altro perché avevo una preparazione tecnica e conoscevo il linguaggio informatico. Finalmente negli Anni Novanta, quando ho creato il dipartimento artistico di Design e Media Art a U.C.L.A., fui libera di portare la tecnologia nell’arte, anche perché i mezzi a quel punto costavano meno rispetto ai decenni precedenti. La tecnologia ormai non è più il futuro, è il presente.

Eppure affermi che gli artisti debbano sempre prefigurare il futuro. Come è possibile concepire il futuro oggi che lo stiamo vivendo?
Nel mio caso ad esempio quello che mi interessa attualmente è la relazione fra virtuale e corpo fisico, l’immersione fisica nel virtuale. In particolare sto studiando con un amico scienziato come insegnare al computer il camouflage inteso come strumento di sopravvivenza, in natura come nel virtuale. La mimetizzazione in natura esiste per predatori e prede. Desidero verificare se un fenomeno analogo può esistere nell’intelligenza Artificiale.
Il tutto è sempre legato alla prospettiva potenziale della tecnologia futura. Ciò detto, quello che mi spaventa è che fino a poco fa l’idea precedeva la scoperta, cioè si aveva un’idea e si cercava il modo di realizzarla. Oggi invece la velocità tecnologica è tale, che precede l’idea. Abbiamo degli strumenti per qualcosa a cui ancora non abbiamo pensato, e questo può essere pericoloso.

Rebecca Allen, The Bush Soul 3, 1999

Rebecca Allen, The Bush Soul 3, 1999

IL RAPPORTO TRA RELIGIONE E TECNOLOGIA

La tua prima opportunità di mostrare il tuo lavoro al di fuori dai laboratori scientifici fu MTV, per cui producesti i due video Adventures in Success e Smile. Due video emblematici del mito di quegli anni, il mito per cui era possibile trasformare la nostra persona, fisicamente, finanziariamente e socialmente. Decenni dopo quel sogno si è rivelato illusorio. Pensi che il desiderio successivo di crearsi un avatar in una seconda vita virtuale derivi anche dal fallimento di quel mito: dal momento in cui abbiamo compreso che non era possibile cambiare la nostra vita e la nostra persona, siamo andati in cerca di un mondo altro e di copie di noi stessi?
Non ci avevo mai pensato, ma in effetti potrebbe essere così. Ovviamente nel video Adventures in Success non raccontavo una mia visione del mondo, era un video su commissione, ma fu la prima occasione di operare artisticamente al di fuori dall’universo dei laboratori. Sì, decisamente quello che non abbiamo potuto trasformare del nostro corpo e con il nostro corpo lo abbiamo fatto fare agli avatar. D’altronde avatar è parola antica (nella religione induista l’avatar era la discesa di Visnu in un corpo per riportare la giustizia nel mondo, N.d.R.), le civiltà hanno sempre immaginato esseri a metà fra il divino e l’umano, o in parte umano e in parte animale. Questo bisogno profondo si trova anche nei social media, dove le persone cercano di darsi identità diverse dalla loro o nella volontà di trasformare e preservare i nostri corpi con la tecnologia.

Di nuovo torna un parallelo fra religione e tecnologia.
Nel mondo virtuale esiste un vero desiderio di liberarsi dalla gravità. Credo che abbiamo sempre avuto un desiderio di sapere cosa accade dopo la morte, e questi mondi virtuali potrebbero essere un tentativo di immaginarli.

Un tempo questi mondi erano rappresentati dai grandi affreschi, come la Cappella Sistina.
Certamente, ed erano esperienze immersive in spazi virtuali e al contempo fisici. Ed è strano che, come ho già fatto notare, molti ancora sostengono che il computer non pertiene all’esperienza umana, mentre si tratta di uno strumento che ripercorre culture da sempre presenti nella nostra storia.

La situazione è ancora così?
All’inizio fu difficile accedere ai laboratori e lavorare con la tecnologia digitale, o perché ero un’artista o perché ero una donna. Adesso invece cominciano a dirmi che è perché sono troppo vecchia e si ritiene che i “nativi digitali”, essendo nati nell’era digitale, ne capiscono di più. Io ritengo invece di essere stata fortunata a osservare e a vivere l’intera evoluzione dell’arte immersiva dal suo principio. Se nasci con uno smartphone in mano, la tua prospettiva è diversa. Cosa puoi inventare?

Angela Maria Piga

Düsseldorf // fino al 10 dicembre 2023
Worldbuilding. Gaming and Art in the Digital Age
JULIA STOSCHEK FOUNDATION
Schanzenstrasse 54
https://www.jsc.art/

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Angela Maria Piga

Angela Maria Piga

Artista, nata a Roma nel 1968, di famiglia di origine australiana, dopo una laurea in Letteratura Francese all'Università La Sapienza di Roma, lavora nel mondo dell'arte contemporanea, come gallerista prima, poi come giornalista e critica d'arte. Dal 2015 al 2017…

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