La voce dei sogni alla Triennale Milano. Intervista a Reverie

“Sogno 3: La camera degli specchi” è l’opera site specific che l’artista di origine toscana ha ideato appositamente per il festival FOG ‒ Triennale Milano Performing Art. Lei stessa ci ha raccontato il proprio legame con l’onirico, la performance al Teatro dell’Arte e l’evoluzione dei suoi ultimi lavori.

Sono passati due anni da quando Reverie (Vinci, 1994) ha inaugurato negli spazi della Fondazione VOLUME! di Roma il primo esperimento onirico, iniziando un nuovo ciclo di lavori dedicati alla tematica del sogno. Se immaginare a occhi aperti l’accompagna fin da bambina, oggi questa pratica privata, singolare e inconscia si è evoluta fino a divenire un esperimento collettivo. Con la performance Sogno 3: La camera degli specchi, andata in scena il 13 giugno durante la ricca programmazione del festival FOG alla Triennale Milano, l’artista continua la condivisione di una dimensione fantastica e ultraterrena attraverso il coinvolgimento sociale degli spettatori. Il proprio corpo è divenuto solo voce guida, effimera, ma reale allo stesso tempo, mentre il Teatro dell’Arte si è trasformato in una stanza di superfici riflettenti nelle quali perdersi e ritrovarsi. Uno spazio nel quale l’artista ha accolto il pubblico, una persona alla volta, attraverso la propria voce e la costruzione di un ambiente intimo.

INTERVISTA A REVERIE

Sei capace di creare un immaginario evocativo dall’aurea ascetica, ma leggera, quasi impalpabile. Quanto il tuo nome anagrafico, Reverie, credi ti rappresenti?
Io sono il mio nome. Sono molto grata a chi mi ha battezzato Reverie, i miei cari che hanno scelto per me l’insolito, trasformando il filosofare di Bachelard in un nome proprio. Potrebbe apparire come una “predestinazione”, ma la scoperta del sé non è mai semplice. Sono riconoscente a me stessa per l’essermi cresciuta da sola e soprattutto per essermi trovata, accettata e chiamata Reverie. Quando ero piccola, chiedevo di non interrompermi durante i viaggi perché anche con gli occhi aperti ero sognante. A oggi, questa facoltà di immaginare la ritrovo molto viva nella mia pratica, nel senso che quando devo pensare a un nuovo progetto mi rilasso in una dimensione apparentemente silenziosa mentre a occhi aperti immagino, vivo. L’incontro con la rêverie è stata una scoperta doppia: capire chi ero, capire il mondo dietro a questa poetica mi hanno portata a indagare questo tema senza fermarmi mai.

Scoperta, accettazione, ma anche valore collettivo.
Infatti, il ciclo sul sogno al quale attualmente lavoro non è assolutamente una tautologia o semplicemente una scelta legata al mio nome, ma viene dopo quello dei “Sacramenti atei”.
La decisione di portarlo alla luce viene dagli approfondimenti fatti durante tutta la mia vita, studiando l’onirico attraverso diverse discipline fino ad arrivare sempre più consapevolmente alla formazione di un mio personale alfabeto. Nel momento in cui avrei voluto mostrare le opere nate del ciclo precedente, ho capito invece che non era il tempo giusto, ma che era importante muoversi nella comprensione dell’adesso attraverso questo tema che avevo tanto approfondito durante tutta la mia vita. Credo fortemente nell’attualità del lavoro e che attraverso il sogno, ma soprattutto i sogni collettivi e il coinvolgimento sociale del pubblico, sia possibile dare risposte, o comunque aprirsi/aprire domande che oggi hanno un senso e un significato.

Solitamente tu affermi che “ogni lavoro sembra venire al mondo da una gestazione sporca”, per poi concludersi con la produzione dell’opera in sé. Raccontaci il processo.
Basta un’immagine: la perla della conchiglia. Questo è il mio operare oggi.
Ogni mio lavoro nasce come la ferita che rompe l’equilibrio dell’ostrica, permettendo a un singolo granello di sabbia di creare qualcosa che è un corpo estraneo, ma che al nostro occhio può diventare prezioso: un essere con una sua estetica e identità autonoma.
La gestazione è il mio vivere quotidiano proprio perché fa parte della mia vita, anche e soprattutto nel suo lato banale e rozzo. Rispetto a chi penserebbe per me a forme di ascesi, annullamento e meditazione, nulla di questo mi appartiene: vivo immersa nel fango del contemporaneo esistere e anche io sono sporca, ma nel mio equilibrio, e così mi trovo serena sempre al centro di mille difetti personali e collettivi.

Reverie, Sogno 3. La camera degli specchi. Triennale Milano Teatro, 13 giugno 2021. Photo L. Mugri

Reverie, Sogno 3. La camera degli specchi. Triennale Milano Teatro, 13 giugno 2021. Photo L. Mugri

LA PERFORMANCE ALLA TRIENNALE MILANO

Sogno 3: La camera degli specchi è il terzo appuntamento di un ciclo iniziato alla Fondazione VOLUME! di Roma con Sogno 1: L’archetipo del sé (2019) e Sogno 2: The Sleeping Muse (2020) alla Palazzina Liberty di Milano. Da dove nasce l’idea di quest’ultima performance?
Ho sempre immaginato di dedicare al Teatro dell’Arte ‒ realtà che stimo profondamente e nella quale ho visto spettacoli vicini alla mia sensibilità ‒ un lavoro sulla maschera. Per la quarta edizione di FOG ho deciso di unire poi lo specchio: questi sono i veicoli che hanno portato lo spettatore ad attraversare un sogno lucido.
La camera degli specchi è un tema noto all’arte. Io ne ho avuto esperienza diretta sin da piccolissima nelle ricostruzioni del Museo Ideale Leonardo Da Vinci, attraversando varie riflessioni nel tempo fino agli specchi di Joan Jonas, fondamentali per i miei passi. Ho pensato così di creare una personale visione di questo ambiente.

Ecco il perché del titolo dell’opera.
Confesso che, quando l’idea è nata, un anno e mezzo fa, la stanza avrebbe dovuto essere come un labirinto di specchi, un luogo in realtà “aperto” in una dinamicità spaziale che coinvolgeva uno spettatore alla volta insieme al mio corpo, visibile ma irriconoscibile, occultato perché totalmente coperto dalla testa ai piedi. Con il nuovo anno, la pandemia e la necessità per me fondamentale di realizzare opere sempre legate all’attualità, ho capito che il primo progetto doveva essere modificato. Siamo realmente stati da soli con noi stessi in questo tempo virale? Abbiamo imparato a conoscerci? Ci siamo incontrati? Cosa ha significato quella solitudine che, come la sofferenza del parto, tutti a ora sembrano aver rimosso? La camera degli specchi è così diventata “una stanza tutta per sé”. Ha accolto sempre uno spettatore alla volta come era già da progetto originario, ma in un luogo intimo e raccolto, mentre il mio corpo era presente soltanto in voce. Ritengo che questo sia stato l’unico modo per analizzare pubblicamente la maschera, attraverso un’esperienza unica.

Reverie, Sogno 3. La camera degli specchi. Triennale Milano Teatro, 13 giugno 2021. Photo L. Mugri

Reverie, Sogno 3. La camera degli specchi. Triennale Milano Teatro, 13 giugno 2021. Photo L. Mugri

VOCE E PUBBLICO SECONDO REVERIE

La tua voce: un elemento che ricorre in tutto il ciclo, prima come racconto, poi come canzone e infine come mezzo che utilizzi per ricercare un rapporto con gli spettatori. Che valore ha per te questo strumento?
La voce è fondante. Nel primo sogno la voce era una guida che ti prendeva per mano, che ti rassicurava sul fatto che, anche se a occhi chiusi, non ti sarebbe accaduto niente e tutto quello che fosse successo sarebbe stato per te. Nel secondo la voce era un grido liberatorio per tutti, un canto libero che esorcizzava e permetteva di respirare, come se neonati aprissimo i polmoni per la prima volta. Nel terzo, la voce è stata come un’ombra di cui non ti accorgi, ma che in realtà è sempre con te e non ti abbandonerà mai, nemmeno in assenza di luce.
Per quanto riguarda un discorso più generale, oggi la nostra è una “società dell’invisibilità” in cui viviamo tutto a distanza scenica, in cui anteponiamo l’essere teatrale all’esperire, in cui la parola “persona” incarna, ancora di più virtualmente e non solo fisicamente, la sua etimologia, ovvero “maschera”. Ma l’invisibilità ha il potere del suono.

Attraverso la tua voce hai guidato il pubblico, il quale si è dovuto fidare ciecamente di te. Una volta conclusa l’esperienza performativa, cosa hai voluto lasciare agli spettatori?
Il mio progettare una performance è solo un momento, per quanto centrale, di un percorso in cui gli spettatori sono i veri protagonisti. Tutto inizia dalla stesura dei testi e la creazione di opere in divenire, ma è con l’azione che si stabilisce un contatto che porta infine alle opere di sintesi. La performance per me è un momento di vita vera che condivido con il pubblico, senza prove o costruzioni imposte, e i Sogni non sono altro che sogni collettivi. Quando qualcuno entra in un mio lavoro, gli viene data una lettera dedicata in cui non solo lo rendo consapevole del progetto ma lo invito a raccontarmi, se vorrà, la sua esperienza o un elemento specifico di essa. Le opere finali raccontano non soltanto la visione stessa degli spettatori presenti, ma uno spaccato sensibile della società di oggi e portano il nome della performance stessa, mentre altri lavori, nati nel corso del progetto e della produzione, hanno titolo, identità, materia, vita autonoma. Paragonerei la mia figura a un megafono, ma non sono mai soltanto io a parlare.

Quali saranno i tuoi Sogni futuri?
Ogni giorno si apre con la scrittura del mio diario di specchi che ho deciso di portare avanti per trecentosessantacinque giorni di riflessi e riflessioni e continua con costanti pellicole in bianco e nero che modifico a mano e che chiamo “sogni fisici”.
Il ciclo attuale si sviluppa poi attraverso le performance, ma anche e soprattutto attraverso le nuove opere. Continuo, infatti, assiduamente la produzione di ceramiche, che sono i miei “oggetti da sogno”, mentre il nuovo sognare mi porterà anche a vivere un’Alba Lunare: questo è il titolo della mia performance a Montelupo alla Festa Internazionale della Ceramica il 16 luglio prossimo, e a un volo “poetico” sul mare di Napoli in autunno. Nel frattempo, sto lavorando all’opera di sintesi del Sogno 2, ovvero a un disco d’artista di cui non posso anticipare troppo, ma che conterrà dieci brani/sogni musicali, ciascuno di diversa natura, scritti dal pubblico e da me, che sto musicando con la collaborazione di sette eccezionali compositori. Inoltre, ho terminato una prima sperimentazione su nuovi materiali, come opere in tessuto, sculture in vetro, altre in cera, metallo e chiodi che attualmente si trovano nel mio studio. Anche queste sono parole, specchi, maschere.

Erica Massaccesi

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Erica Massaccesi

Erica Massaccesi

Erica Massaccesi, marchigiana di nascita, vive a Milano. Laureata in Scienze dei Beni Culturali all’Università Cattolica del Sacro Cuore, nel 2018 inizia a lavorare per Cittadellarte - Fondazione Pistoletto, dove affianca l’artista Nico Angiuli nella produzione e direzione della sua…

Scopri di più