5 lezioni imparate da Germano Celant, maestro inflessibile

Francesca Cattoi ripercorre la sua collaborazione con Germano Celant, individuando cinque lezioni apprese nel corso del tempo. Dalla progettazione di una mostra al non accontentarsi mai.

Quando ho conosciuto Germano Celant nel 2003, avevo una vaga idea della sua importanza, già allora assodata, nell’arte contemporanea e nella cultura italiana in genere. Come tanti, volevo solo capire se potevo fare altro, la routine quotidiana non mi bastava. Partecipare alla realizzazione di una mostra mi sembrava una buona idea. Dopo un incontro veloce, in cui conobbi anche Paris Murray e Argento, Anna Costantini, allora suo braccio destro, mi spiegò in modo chiaro e conciso quale sarebbe stato il mio compito e mi informò che pochi giorni dopo ci sarebbe stata la prima riunione in cui avrei dovuto sottoporgli opere da selezionare per la mostra Arti & Architettura 1968-2004, evento culminante delle manifestazioni per GeNova 2004, di cui Celant era direttore artistico. Questa avventura, iniziata per caso e senza raccomandazioni (non ci si crede), si è conclusa nel 2013 con l’uscita della monografia dedicata a Eliseo Mattiacci, ma ho potuto seguire, anche se a distanza, i successivi incredibili progetti espositivi da lui ideati e realizzati per la Fondazione Prada, dove tutt’oggi lavoro.
I dieci anni in cui sono stata quotidianamente al suo fianco, prima nello studio genovese e poi in quello milanese, oltre a essere stati per me una grande fortuna, mi hanno permesso di costruire un percorso in salita che si rinnovava ogni giorno, così come era in salita la strada che percorrevo a piedi dalla Stazione di Piazza Principe per arrivare in Salita Oregina. Una delle capacità che Celant aveva acquisito nel tempo era quella di capire cosa poteva ottenere subito da chi iniziava a collaborare con lui e in seguito trasformare queste persone in estensioni preparate per svolgere i compiti da lui assegnati. Veniva richiesto un continuo scavo all’interno delle proprie forze interiori per non perdere di vista l’obbiettivo e per seguirlo nelle varie fasi di cui era composta la finalizzazione di un progetto. Quello che era chiaro sin dal primo giorno era che quello cui tu assistevi ogni giorno, il contributo che davi, era un lavoro, una professione con i suoi ritmi e la sua remunerazione, non era un divertimento da salotto o qualcosa di cui vantarsi per entrare nel mondo glamour dell’arte contemporanea. E questa è stata la prima lezione: stavo imparando un mestiere e la persona che me lo insegnava era uno dei professionisti più agguerriti e colti che si potesse incontrare all’inizio del XXI secolo.

Germano Celant durante l'allestimento della mostra Piero Manzoni, Gagosian Gallery, New York 2009. Photo Rosalia Pasqualino di Marineo, Fondazione Piero Manzoni

Germano Celant durante l’allestimento della mostra Piero Manzoni, Gagosian Gallery, New York 2009. Photo Rosalia Pasqualino di Marineo, Fondazione Piero Manzoni

IL METODO DI GERMANO CELANT

La sua metodologia era un insieme di strategie ben collaudate che venivano trasmesse da maestro ad allievo senza un ordine preciso o un decalogo nero su bianco da seguire, piuttosto punti da tener presenti ed eseguire, innestandovi le proprie capacità e ispirazioni. Il giudizio era inflessibile, la correzione costante e implacabile, lo stato d’animo in cui si stava era di continua tensione, perché fare del proprio meglio poteva non essere abbastanza. No, non era mai abbastanza. Seconda lezione: non si deve dare mai nulla per scontato, non ci si accontenta di un buon risultato, si punta all’ottimo, non ci si ferma mai, si indaga e ricerca fino allo spasimo, senza tralasciare nulla. La ricerca dei materiali e delle informazioni, perseguita con ogni mezzo, dallo studio delle fonti e dei testi alle visite agli studi degli artisti, agli archivi delle fondazioni a loro legati, o con il contatto con le istituzioni culturali italiane ed estere, era il cardine da cui scaturiva l’impianto espositivo della mostra, del catalogo dedicato, della monografia o del libro in lavorazione. La crescita personale che si otteneva alla fine di ogni progetto era inestimabile, le conoscenze acquisite in contenuti storico-artistici e in collaborazioni andavano a costituire un bagaglio personale che poteva essere riutilizzato e che diventava la tua nuova forma di essere.
I risultati della ricerca condotta venivano trasformati in percorso espositivo, che Celant aveva chiaro nella sua mente e che attraverso le opere e i documenti si materializzava con velocità e fermezza, sala per sala, tema per tema, fino a coprire e delineare all’interno dello spazio l’idea che voleva sviluppare. Non mostrava un’esitazione, sapeva sempre dove voleva arrivare, scovava i punti deboli e incitava a colmarli, la logica con cui procedeva era ferrea, non ammetteva sbavature, non c’erano cedimenti, ogni connessione tra opere, ogni inclusione di documento era sempre giustificata. Terza lezione: la progettazione di una mostra è sempre il frutto di una seria riflessione, non si allineano opere solo per il valore estetico o per compiacere il pubblico o il committente, ma perché si ha qualcosa da dimostrare, un tema da mettere in luce, un periodo storico o un artista da indagare. Come si direbbe oggi: perché si ha qualcosa da dire. E questo si deve fare in modo inedito, così che il risultato finale possa contribuire alla riflessione e divulgazione dell’arte contemporanea. Potrebbe sembrare una banalità, ma non lo è, non lo è mai stata per lui, perché la sfida principale in questo la giocava con se stesso, ponendosi sempre una meta davanti, tentando ogni volta di forzare il già noto e intraprendere percorsi sconosciuti, non precedentemente testati.

Germano Celant - Louise Nevelson (Skira, Milano 2013)

Germano Celant – Louise Nevelson (Skira, Milano 2013)

COSTRUIRE UNA MOSTRA CON CELANT

La collaborazione con altri professionisti era molto importante nel suo metodo di lavoro. L’architetto, così come il grafico, erano figure con cui si confrontava con fermezza e assiduità e di cui avvertiva come fondamentale la presenza. Sapeva cosa aspettarsi da loro e li spronava a raffinare le loro proposte in modo da ottenere soluzioni sempre più coerenti e rappresentative del percorso studiato. Quarta lezione: l’esperienza di visitare una mostra deve essere per il visitatore una emozione in grado di colpirlo nel profondo mentre apprende il messaggio veicolato. La chiarezza dei supporti esplicativi si raggiunge attraverso l’equilibrio, continuamente indagato, tra elementi grafici e contenuto, tra parete e opere, tra sale ed edificio.
Terminate le fasi preliminari, il momento più bello era entrare, dopo mesi di lavoro in studio, nella sede espositiva con le opere a terra e seguirlo mentre, come un direttore d’orchestra o un regista teatrale, “tirava su” la mostra. Le ore passate all’interno di quelle sale per una o due settimane, seppur cariche di stanchezza e tensione, sono tra i momenti più significativi del tempo trascorso con Celant, pieni di gioia e sorpresa, nell’assistere alla magia con cui si esprimeva il suo agire. Non abbassava mai la guardia fino agli ultimi momenti prima dell’inaugurazione. Gli spostamenti, i ripensamenti potevano avvenire da un momento all’altro. Da stratega, sapendo quanto questo potesse essere fonte di frustrazione, dialogava da pari con i tecnici presenti durante l’allestimento. Molti lo conoscevano da anni, sapevano quanto fosse inflessibile, difficile da accontentare, ma serio, non capriccioso: il risultato finale era evidente a tutti e tutti si sentivano orgogliosi di averne fatto parte. Non nego le tensioni e le lamentele, ma non c’era niente da fare, alla fine, come si scherzava sempre, aveva ragione lui! I ringraziamenti arrivavano e la fatica fatta veniva alleviata dalle sue parole, ma soprattutto dalla comprensione della giustezza delle sue scelte.
L’esperienza editoriale era altrettanto entusiasmante. Il suo amore per i libri, seppur permeato da un certo feticismo, era totale. La passione di una vita, ma soprattutto uno strumento per la ricerca, da una parte, un modo per tramandare il sapere dall’altra. Una monografia, un catalogo di mostra, una raccolta di suoi testi: in ognuno di questi formati la sua capacità e competenza erano raffinate ed eleganti. Rigore nella ricerca e nella composizione dei materiali all’interno della pagina. Visione globale, con l’aiuto della grafica, di cui curava ogni aspetto. L’equilibrio tra testo e immagini era verificato su ogni pagina, il contenuto delle informazioni analizzato severamente. Il rapporto con le case editrici era serrato, ma sempre rispettoso: da entrambe le parti si sapeva che si stava lavorando a un “libro di Celant”, nessuno dava nulla per scontato, il lavoro poteva e doveva essere modificato fino all’ultimo.

La versione inglese di Arte povera. Storia e storie curata da Germano Celant (Electa, Milano 2011)

La versione inglese di Arte povera. Storia e storie curata da Germano Celant (Electa, Milano 2011)

CELANT, UNA LUCE PER TUTTI

Quinta lezione: non ci si accontenta di nessuna formula, di nessun traguardo, di nessun meritato riposo. C’è sempre un altro progetto, un’altra asticella da superare. Ogni lavoro terminato era per lui, il più delle volte, un punto di svolta e per gli altri un punto da cui partire.
Il collante di quanto descritto e schematizzato in cinque lezioni era la sua immensa passione per l’arte e la sua approfondita conoscenza della storia dell’arte del XX e del XXI secolo. Non era stato solo uno dei protagonisti, ma ne era un continuo innovatore e indagatore. Attraverso le lezioni impartite, acquisivi gli strumenti del fare e la capacità di riconoscere la forza di un pensiero sull’attualità del contemporaneo che dava nuovo significato all’esperienza del mondo. Poter vedere tutto questo quotidianamente, avere la possibilità di vivere esperienze non comuni e incontrare persone in grado di rendere speciali i momenti, ha permesso a me, e a tutti coloro che hanno avuto per tanti anni la possibilità di stargli vicino, di acquisire gli strumenti essenziali per poter costruire basi solide per le nostre future visioni. Ma, soprattutto, l’essere cresciuti con lui ha trasformato il nostro modo di vedere e sentire, ha arricchito la nostra vita, ha concretizzato la nostra passione in memorabili progetti, di cui faremo tesoro per sempre.
Nella certezza di non poterlo né volerlo emulare, sono consapevole di aver conosciuto un uomo che ha fatto la storia. Con questo pensiero, nel salutare Germano Celant, ritengo che il suo insegnamento più profondo sia stato aver testimoniato quanto impegno e dedizione siano richieste per diventare, alla fine di una brillante vita quale è stata la sua, una luce per tutti.

Francesca Cattoi

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Francesca Cattoi

Francesca Cattoi

Francesca Cattoi (La Spezia, 1968) svolge attività di ricerca nel campo dell’arte contemporanea e della creazione di progetti espositivi. Laureatasi presso il corso di laurea DAMS, Università degli Studi di Bologna, prosegue la sua formazione presso l’Università della California Santa…

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