24 curatori, il lockdown e il futuro di un mestiere complesso

Il periodo di isolamento dettato dal famigerato COVID-19 ha creato non pochi squilibri all’interno di un mondo delicato come quello dell’arte. Posticipazioni, cancellazioni e rimodulazioni di eventi e mostre sono stati protagonisti indiscussi di questo periodo. Ma, in tutta questa pseudo inattività, a cosa hanno pensato e a cosa hanno lavorato i curatori?

Sebbene le condizioni di isolamento e clausura abbiano rallentato l’inarrestabile routine degli operatori culturali, costellata di eventi, talk e conferenze, questa ha trovato risvolti di piena attività anche nelle confinanti mura domestiche. Riflessioni, studi e confronti – seppur attraverso un contatto virtuale – hanno risvegliato pensieri sopiti, hanno dato modo di rivalutare i gradi di importanza di questioni che prima della pandemia sembravano fondamentali, ridimensionandoli nella sfera reale, o, per meglio dire, umana. Schermi, libri e scrittura si sono rivelati compagni di un viaggio lento e meditativo che sembra essere giunto al termine. Ma come hanno vissuto questo periodo i curatori? Come è stato il loro rapporto con gli artisti? Quali sono le loro impressioni riguardo all’uso del web per mostre e iniziative culturali? E le loro considerazioni rispetto al futuro? Ecco, cosa ci hanno risposto.

Valentina Muzi

MARCELLO SMARRELLI

Marcello Smarrelli. Photo Giorgio Benni

Marcello Smarrelli. Photo Giorgio Benni

In questi giorni tutti ci rivolgiamo continue e preoccupanti domande, ma sono uno storico dell’arte, non un’opinionista, quindi non vorrei dare risposte azzardate che sarebbero probabilmente contraddette alla prima verifica dei fatti. In questi mesi ho avuto la sensazione che il mondo, improvvisamente, avesse preso nuova coscienza dell’esistenza della morte e che in certi momenti della storia è difficile relegarla nei luoghi deputati. A seguito della chiusura di musei e istituzioni culturali abbiamo visto proliferare le iniziative online e io stesso mi sono fatto promotore di quelle della Fondazione Pescheria – Centro Arti Visive, Fondazione Pastificio Cerere e Fondazione Ermanno Casoli, chiedendo agli artisti di raccontarci la loro quarantena attraverso una serie di opere inedite fruibili sul web. Il grande successo dell’arte sui social ha spinto addirittura il Ministro Franceschini, in uno dei suoi primi discorsi durante la quarantena, a parlare della creazione di un “Netflix della cultura”. Certamente, le conseguenze economiche della pandemia saranno serissime e probabilmente gli investimenti nella cultura si ridurranno ancora di più.  Già il sistema dell’arte si mostra in tutta la sua fragilità, esibendo una categoria di lavoratori senza tutele ‒ di cui il MoMA, con i suoi violenti licenziamenti, è stato l’esempio eclatante ‒ che sembra doversi beare solo del privilegio di svolgere una professione considerata di moda. In definitiva, non so dire se le cose cambieranno e, semmai, cosa cambierà, cosa riserva il futuro a musei, fondazioni, gallerie, artisti, curatori, ma sono certo che oggi più che mai abbiamo bisogno della visionarietà e della fantasia degli artisti per trovare soluzioni geniali a problemi assolutamente eccezionali e inediti.  In passato mi pare che poco o niente sia mutato a seguito delle grandi pandemie, ma in cuor mio spero vivamente che tutto cambi, anche solo per la curiosità di vedere cosa succederà dopo.

MARIA CHIARA VALACCHI

Maria Chiara Valacchi. Photo Fabio Rizzo

Maria Chiara Valacchi. Photo Fabio Rizzo

A causa della pandemia e del conseguente lockdown si sono cristallizzati cinque progetti che mi vedevano coinvolta, di cui due avviavano inedite e importanti collaborazioni anche all’estero. Se la cosa mi ha reso inizialmente confusa, devo ammettere che questa sospensione temporale mi ha aiutato a prendere le giuste distanze da una modalità di approccio eccessivamente sbilanciata sul “quanto fare” rispetto al “come fare”. In questi due mesi, ho partecipato a molti eventi virtuali promossi in rete, ho scritto di arte e del sistema economico e, cosa che trascuravo per ovvi motivi di tempo, ho dialogato con artisti. Non sono stata felice di stare a casa, anche se ne ho goduto i vantaggi, e sicuramente non sono entusiasta di sapere che ancora una volta dovremo ricostruire il nostro mestiere sulle macerie di un sistema culturale fragile; un mestiere che credo di attuare tornando a ritmi più umani e concentrandomi su pochi progetti centrati. L’online può essere una buona via alternativa ‒ lo era già da tempo ‒, è uno spazio libero e fruibile al grande pubblico, che rispetta abbondantemente le norme vigenti di distanziamento sociale. L’unico problema paradossale è che dà voce a tutti e, mai come adesso, ci siamo resi conto che non c’è bisogno di tutti e tutto ciò per essere felici e informati.

VALENTINO CATRICALÀ

Valentino Catricalà Simposio ph Cristina Vatielli

Valentino Catricalà Simposio ph Cristina Vatielli

C’è stato un momento iniziale nel quale sembrava tutto finito. Abbiamo detto “ecco, questa è la fine del già fragile mondo dell’arte”. Ma, si sa, la speranza è l’ultima a morire, e, subito dopo lo shock iniziale, ci si è rimessi in moto. Personalmente ho iniziato a lavorare su un nuovo libro, un modo per esorcizzare e capire quello shock mai provato prima. Allo stesso tempo mi riscaldavano i rapporti che riuscivo a coltivare con colleghi e artisti e iniziavo piano piano a riprogettare. E dire che quei momenti mi sembrano così lontani ora. Ma, con il senno di poi, questa situazione ci ha dato alcune lezioni indelebili: da quelle più filosofiche, il nostro scoprirci “animali” fragili in un mondo più grande di noi, a quelle pratiche, l’avvicinamento a piattaforme digitali, la scoperta che molto del nostro lavoro poteva essere svolto senza troppi movimenti. Ma, anche, l’importanza dell’uscire, dell’incontrarsi, e la schiavitù da computer (tutto si svolge lì! Chat, email, notizie, ecc.) Questi due fattori – filosofici e pratici – avranno una influenza su tutto il comparto creativo. Se prima la mostra era fisica e il sito web era semplice vetrina della mostra, oggi, ma soprattutto domani, si penseranno sempre più contenuti integrativi, dalla necessità del fisico scaturirà una maggiore esperienza virtuale, e dai contenuti virtuali un rapporto più solido con il fisico. Abbiamo capito, insomma, che il web è un grande compagno di strada al quale si potrebbe dare più fiducia, ma non è assolutamente totalizzabile. Guardiamo al grande fallimento delle mostre online, delle rassegne online, alla noia dei format convegnistici riportati tali e quali sul web. Ma tutto ciò non servirà a nulla se non capiamo che dovrà essere accompagnato da una nuova etica: dei dati, del lavoro, delle tematiche affrontate nelle mostre e, infine, dell’uomo, visto ormai come immerso in una totalità che si impone e che dobbiamo imparare a guardare. Forse, sta proprio lì il ruolo futuro dell’arte.

TRETI GALAXIE ‒ RAMONA PONZINI E MATTEO MOTTIN

Treti Galaxie (Ramona Ponzini e Matteo Mottin) Fortezza Sotterranea del Pastiss Torino

Treti Galaxie (Ramona Ponzini e Matteo Mottin) Fortezza Sotterranea del Pastiss Torino

L’isolamento forzato è come il tempo di un viaggio con la differenza che non sappiamo la durata e abbiamo l’angoscia di non capire esattamente come la realtà nel frattempo sia mutata”, ha scritto Giuseppe Penone sull’inserto Arte de Il Foglio dedicato ai pensieri degli artisti durante la pandemia. È una metafora in cui ci ritroviamo, così come ci siamo ritrovati per settimane sullo stesso treno ma in due carrozze distinte, mentre i binari ci facevano attraversare i confini di strani stati d’animo, lunghe gallerie senza luce e tortuose curve a picco sul mare. I libri e i film all’inizio aiutavano a distrarci, ma poi ci siamo resi conto che, in quanto agenti di distrazione, perdevano dignità, e allora per rispetto nei loro confronti li abbiamo posati e abbiamo smesso di guardarli. Forse è meglio il finestrino, abbiamo pensato. Durante il viaggio fortunatamente avevamo un walkie-talkie chiamato Wi-Fi, e abbiamo sentito quotidianamente e con piacere gli artisti con cui negli anni abbiamo lavorato, con cui stavamo lavorando prima della partenza e con cui avevamo in progetto di lavorare. Questo particolare walkie-talkie però alla lunga fa un effetto strano, appiattisce tutto, ogni cosa ha la stessa cornice e smette di avere un retro. Tutte le cose hanno lo stesso peso, dopo un po’ non ci fai più caso ma smetti anche di sentirle. Quando il convoglio si fermerà, ci piacerebbe poter girare attorno alle opere, misurare la loro presenza con quella dei nostri corpi, abbracciarle, forse farcene cadere qualcuna addosso, chissà. Non sappiamo come cambierà il ruolo del curatore, forse invece di navigare a vista ci ritroveremo a nuotare a vista. L’unica cosa abbastanza certa è che il mare rimarrà sempre lì, dove l’avevamo lasciato.

RAFFAELLA PERNA

Raffaella Perna. Photo Martha Micali

Raffaella Perna. Photo Martha Micali

Negli ultimi mesi ho mantenuto contatti stretti con gli artisti e le artiste con cui collaboro, attraverso piattaforme telematiche, telefono o canali social. Ad esempio, nell’ambito della rubrica Arte e femminismi, che curo per Flash Art, la redazione ha avviato un ciclo di dirette Instagram (nelle prime ho conversato con Paola Mattioli, Moira Ricci, Paola Di Bello): è stata un’occasione per rapportarmi a un mezzo di cui apprezzo l’aspetto informale, immediato e, perché no, anche gli imprevisti. Invece non credo che, passata la crisi, le Viewing Room o modelli espositivi affini avranno futuro, almeno non nei miei progetti curatoriali. Sono legata all’irriducibile presenza fisica delle opere, al contatto personale con gli artisti e il pubblico. Prima della chiusura, stavo progettando una mostra da Apalazzo Gallery, intitolata Il volto sinistro dell’arte: Romana Loda e l’arte delle donne, dedicata al lavoro svolto da Loda negli Anni Settanta a fianco di artiste come Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Renata Boero, Giosetta Fioroni, Lucia Marcucci, Libera Mazzoleni, Lucia Pescador. Con Chiara Rusconi, fondatrice di Apalazzo Gallery, abbiamo deciso di posticipare l’opening, ma di fare nel frattempo alcune anticipazioni tramite il sito e Instagram, senza tuttavia trasferire in rete una mostra concepita ad hoc per gli spazi della galleria. Ritengo infatti che la gran parte delle mostre virtuali, soprattutto nel caso di progetti espostivi con un taglio storico, siano un surrogato. Per di più la fruizione di questi eventi, malgrado le potenzialità della rete, all’atto pratico risulta spesso ristretta.

PAOLA UGOLINI

Paola Ugolini. Photo Donata Zanotti

Paola Ugolini. Photo Donata Zanotti

Aspettavo con ansia che la ruota delle meraviglie primaverile ripartisse con quel suo imprescindibile corredo di montagne russe emotive fatte di aerei, treni, allestimenti, opening, conferenze stampa, lezioni e talk che da anni danno un senso alla mia vita e di cui in passato mi sono lamentata e che poi ho rimpianto. Invece tutto è stato diverso e in maniera così radicale che neanche nella peggiore distopia mi sarei potuta immaginare quel tempo di cristallo in cui il lockdown ci ha fatto vivere per due mesi. Le prime tre settimane sono state crudeli, confuse e faticose, il cervello paralizzato e la capacità di concentrazione azzerata. Fondamentale è stata la confortante e intelligente presenza di un meraviglioso gruppo di colleghe, artiste e amiche con cui ho continuato a dialogare. Con Cecilia Canziani e Lara Conte abbiamo creato una stanza virtuale dove incontrarci settimanalmente con alcune delle artiste con cui stavamo lavorando prima del lockdown per leggere insieme saggi e poesie sul concetto di domesticità. Con Beatrice Bulgari, Leonardo Bigazzi e Alessandro Rabottini abbiamo messo in piedi il progetto di video-arte Mascarilla 19 codes for domestic violence che vedrete a ottobre. Mi sono virtualmente innamorata del prof Alessandro Barbero di cui ho seguito compulsivamente le appassionanti lezioni di Storia medievale e moderna. Benedico quindi la tecnologia per averci permesso di rimanere connessi, le riunioni di lavoro su Zoom non sono poi così male e anche le lezioni di yoga online si sono rivelate meglio del previsto. Le mostre e gli amici invece preferisco vederli nella vita reale, anche se il tour virtuale della mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale ha infinitamente allietato una giornata particolarmente buia. Il mondo dell’arte è una comunità ed è proprio il senso di appartenenza che ho riscoperto durante questa pandemia. Il Forum dell’Arte Contemporanea quest’anno è online e questa modalità ha permesso anche a molte persone che non vivono in Italia di partecipare senza prendere aerei, una maniera meno inquinante a livello ambientale per lavorare insieme. Non so se questo modello sostituirà le vecchie consuetudini, ma trovo che sarebbe auspicabile per il bene del pianeta.

LUDOVICO PRATESI

Ludovico Pratesi

Ludovico Pratesi

Chi scrive e studia in genere lavora in solitudine quindi non ho particolarmente sofferto il lockdown, anche se non è stato possibile incontrare gli amici di persona e questo è stato un pochino pesante. Tra gli artisti ho sentito Alfredo Pirri e Marco Tirelli, ma mi sono confrontato in maniera più regolare con Gian Maria Tosatti che ho coinvolto in un nuovo progetto: le trasmissioni sull’arte contemporanea che conduco insieme a Marco Bassan ogni martedì alle 17, dedicate agli artisti che hanno anticipato con le loro opere il futuro. Per quanto riguarda i miei prossimi progetti espositivi ce ne sono tre, che si dovrebbero svolgere in due città italiane tra ottobre 2020 e gennaio 2021, e mi auguro che non vengano rimandati. Una previsione sul futuro dell’arte contemporanea? Credo che all’inizio dovremo tutti abituarci a nuove modalità di lavoro, più lente e approfondite e, mi auguro, di maggiore qualità. Verranno tempi meno frenetici, e probabilmente più interessanti. Sarà l’occasione di studiare la nostra storia dell’arte della seconda metà del Novecento, ancora troppo poco indagata. Il digitale? È un mezzo, non un fine. Non credo possa sostituire del tutto la realtà, ma sopperirà alle problematiche del mondo fisico, messo a dura prova dal Coronavirus. “Adelante con juicio” dice il cancelliere Antonio Ferrer al cocchiere Pedro nei Promessi Sposi: avanzare con giudizio è il consiglio che mi sento di dare alle persone per avere uno sguardo corretto rivolto al futuro.

LUCREZIA LONGOBARDI

Lucrezia Longobardi

Lucrezia Longobardi

È stato un periodo calmo per me, dedicato alla riflessione e allo studio. Le mie abitudini quotidiane non si sono allontanate molto dalla routine che da ormai due anni coltivo nella nuova casa-studio in cui abito. Per me che porto avanti da anni una ricerca sullo spazio esistenziale è stato un tempo molto prezioso questo; d’altronde, la mia ricerca è nata esplicitamente dal mio rapporto con lo spazio domestico. Gli artisti che ho sentito più spesso sono stati i miei compagni di viaggio nell’ultima mostra, Notturno con figura. Primo corollario sulla vibrazione: Carlo e Fabio Ingrassia ed Eugenio Tibaldi. Alla domanda se il ruolo del curatore cambierà, non posso che rispondere affermativamente, ma le ragioni di questo cambiamento sono da cercare nel nostro sistema dell’arte, e non nella pandemia di questi giorni. Probabilmente un virus ci aveva attaccati tempo fa, facendo germogliare figure professionali improvvisate e goffe, gallerie domatrici di un circo sinistro e musei poco incisivi. Ciò che credo necessario nel ruolo del curatore sto provando a metterlo in pratica da alcuni anni, e risiede in due fattori per me imprescindibili: l’autorialità e la ricerca della verità. Per quanto riguarda la direzione dei prossimi progetti espositivi immagino che al centro delle riflessioni saranno presenti i temi che animano questo momento storico, al fine di aiutare l’intera comunità del Paese a elaborare il trauma. Rispetto ai contenuti multimediali immagino che l’attenzione esplosa rimarrà immutata, essendo un canale primario di comunicazione, mentre spero crescano le competenze di tutti coloro che ne usufruiranno e che, nell’immediatezza del momento, hanno dato vita a risultati poco incoraggianti che hanno delineato, in alcuni casi, soltanto la paura di scomparire.

DANIELE CAPRA

Daniele Capra. Photo Giovanni De Angelis

Daniele Capra. Photo Giovanni De Angelis

Curare vuol dire avere cura nelle scelte di campo, nei progetti che si svolgono, con le persone coinvolte. Tali principi sono inderogabili, anche in un momento in cui le relazioni personali dirette sono impossibili. Personalmente ho sofferto l’impossibilità di fare gli studio visit, di discutere direttamente con gli artisti e di avere le opere sotto gli occhi. Gli studi sono degli universi del possibile con una logica propria, e poi i lavori hanno un ingombro, delle intenzioni o del senso che risulta impossibile cogliere attraverso uno schermo, in cui tutto è ridotto a immagine. Ho visto svariate mostre online con diverse modalità di ricostruzione degli spazi, ma le ho trovate tutte deludenti, tanto più perché le ho percepite come negozi di interior design, con i curatori che mi sono sembrati essenzialmente dei vetrinisti. A mio avviso hanno invece senso i progetti che non scimmiottano la realtà e le modalità ordinarie di visita, ma quelli sottesi a una logica editoriale in cui le opere, i testi e il design – che è centrale – sono costruiti per trasmettere un’esperienza intellettuale e visiva pensata per la fruizione dei contenuti che abbiamo sul web. Penso che i curatori dovrebbero sottrarsi alla logica di essere esclusivamente dei selezionatori di opere e creatori di relazioni, e curare non può essere solo ricerca della visibilità e presenza sui social network. Il curatore deve avere delle ambizioni intellettuali, altrimenti è solo una persona che rimescola la minestra. La curatela è costruzione di pensiero, è una forma di scrittura che, ci si auspica, possa incidere sulla realtà.

SIMONE CIGLIA

Simone Ciglia

Simone Ciglia

Ho cercato di valorizzare le possibilità offerte da questo periodo d’isolamento come occasione di studio, dedicandomi a una componente fondamentale della mia pratica, quella della ricerca ‒ accompagnata alla didattica. Il dialogo con gli artisti è naturalmente proseguito tramite i canali a disposizione, ma la quarantena mi ha privato di uno dei maggiori piaceri quando indosso le vesti di curatore, quella del contatto personale con l’artista e del confronto diretto con il suo lavoro. Da questa prospettiva, l’esplosione nell’utilizzo delle piattaforme digitali mi sembra abbia costretto a un tipo di fruizione indirizzata agli aspetti più smaterializzati dell’oggetto artistico, che da un lato presenta certamente grandi potenzialità (ancora davvero da studiare), dall’altro è appiattita su una dimensione mutila, priva della prossimità, a mio avviso insostituibile, con l’opera d’arte. In questo, l’emergenza ha enfatizzato tendenze ‒ già ampiamente in corso ‒ di una mediazione tecnologica sempre più prepotente. Dall’altra parte, queste circostanze hanno comportato anche una riflessione di ampia portata su questioni fondamentali, sicuramente salutare. Difficile valutare in questo momento ‒ e in questa sede ‒le forme che il ruolo del curatore assumerà dopo queste vicende; con ogni probabilità, il carattere mediato resterà un punto determinante. Personalmente, l’attenzione nei futuri progetti espositivi sarà indirizzata a una sempre maggiore integrazione della componente teoretica nella progettualità.

BENEDETTA CARPI DE RESMINI

Benedetta Carpi De Resmini. Courtesy National Gallery of Art, Vilnius

Benedetta Carpi De Resmini. Courtesy National Gallery of Art, Vilnius

Una domanda che ci stiamo ponendo tutti quanti in questo periodo, è Che fare? Mario Merz utilizzò questa frase in un suo lavoro nel 1968. Adesso è ritornata più incisiva che mai. Merz, probabilmente, si chiedeva cosa potesse fare un artista di fronte a un futuro precario, conscio del ruolo dell’arte nell’esperienza umana quotidiana ma motivato soprattutto dalla convinzione che un artista può mostrare qualcosa di altrimenti impossibile da spiegare. Ritengo quindi che un ruolo primario in questa fase l’avranno gli artisti perché hanno, da sempre, la capacità di saper guardare oltre l’ostacolo. Noi curatori svolgiamo un ruolo da comprimari di una stessa scena, dobbiamo non solo collaborare con gli artisti, andare avanti assieme viaggiando con le utopie! Perché sono queste le cose che smuovono la cultura, soprattutto in epoche come la nostra. In questi mesi sono stata in contatto con molti artisti per il progetto di Rodari Online. Attraverso i video pubblicati ci hanno fornito le chiavi per interpretare o affrontare l’epoca attuale. Elena Mazzi è stata l’artista con cui mi sono confrontata di più, negli ultimi tempi. In seguito a una ricerca che aveva avviato durante la sua residenza per Magic Carpets a Berlino (piattaforma europea di residenze di artista da me concepita nel 2017), abbiamo condiviso idee per stabilire come sviluppare pratiche di condivisione e di supporto all’interno dell’industria artistico culturale nell’era del COVID-19. In questo periodo molte cose sono cambiate e alcune domande si sono fatte più urgenti, altre hanno totalmente perso di senso. Noi curatori in futuro dovremmo cessare di invadere gli spazi espositivi di mezzo pianeta, dovremmo avere un coinvolgimento più diretto con le comunità locali, con l’ambiente con cui ci confrontiamo, insomma riappropriarci del rapporto sempre proficuo con il “locale”. Le piattaforme digitali dovranno essere un mezzo per intensificare e consolidare i rapporti con il pubblico con cui andremo a interagire.

CHRISTIAN CALIANDRO

Christian Caliandro. Photo Chiara Piccolo

Christian Caliandro. Photo Chiara Piccolo

Il periodo di isolamento l’ho vissuto un po’ come tutti, credo: tra alti e bassi, cercando di affrontare l’impatto di questo evento imprevisto ed enorme. Ho letto, ho scritto le puntate della serie L’arte rotta, ho tenuto le lezioni a distanza per l’Accademia in cui insegno. Con gli artisti che conosco e con i quali sono in contatto mi sono confrontato per scambiare le rispettive opinioni e idee su ciò che stava accadendo – per comprendere insomma la portata di tutto questo e le conseguenze su quello di cui ci occupiamo normalmente. Conseguenze che non sono lievi, né di poco conto. Questo virus è uno straordinario amplificatore di processi che erano già in atto, in tutti i campi della vita collettiva, ma che scorrevano sotterraneamente, nascosti dalla routine, dalla frenesia, dal “rumore bianco”. Questa azione riguarda, ovviamente, anche il territorio dell’arte: il ruolo dell’artista, così come quello del curatore, si scoprono investiti da un cambiamento che però, se guardiamo bene, era già iniziato. Ho la sensazione che questo cambiamento abbia e avrà a che fare con una minore attenzione rivolta al “consumo” culturale e una maggiore concentrazione sull’esperienza ‒ e su una dimensione intima del rapporto con l’opera. Per quanto riguarda invece l’utilizzo delle piattaforme digitali da parte di musei e gallerie, penso che esse si siano rivelate utilissime durante il periodo dell’emergenza (caratterizzato dall’impossibilità di accedere fisicamente agli spazi), offrendo contenuti spesso originali; credo che questo utilizzo sia un elemento destinato a permanere e a svilupparsi ulteriormente nel prossimo futuro, ma che esso non possa sostituire la relazione diretta con le opere d’arte e con il loro contesto.

MARIA ABRAMENKO

Maria Abramenko. Photo Ruggero Lupo Mengoni

Maria Abramenko. Photo Ruggero Lupo Mengoni

Il surrealismo è semplicemente il riflesso del processo della morte. È una manifestazione di una vita rivolta verso l’istinto, un virus che accelera la fine inevitabile”, Henry Miller.
Quest’ultimo periodo di isolamento globale l’ho vissuto molto intensamente. Ho continuato a studiare e approfondire tematiche presso il MA in Curating Contemporary Art in RCA (che, attualmente, si è trasferito online), curando una mostra settimanale per Cardi Projects in collaborazione con Cardi Gallery e occupandomi di una rubrica per NASTY magazine. Numerosi sono gli artisti intervistati, con i quali sono in contatto e in collaborazione da qualche mese. Devo dire che cerco di essere positiva quando penso al come cambierà e cosa accadrà nel mondo dell’arte post apocalittico. Siamo arrivati a una saturazione del consumismo. Quello che, di conseguenza, ci ha portato quasi a perdere di vista il romanticismo e la bellezza che c’è nell’arte, in ogni suo linguaggio ed espressione. Spero davvero che, dopo questa pausa di riflessione collettiva, risorgeremo in un mondo più puro, in tutti i sensi e ambiti possibili, soprattutto nel mondo dell’arte. Riguardo alle piattaforme digitali, secondo me hanno avuto un notevole ruolo a livello informativo. Certo, non si può sostituire l’emozione che si prova di fronte a un’opera, ma è anche vero che è stato importante per non fermarci e non deprimerci in questo periodo. Penso che questo sia fondamentale! Dunque, credo che il COVID-19 ci abbia permesso di rivalutare tanto ‒ a livello operativo ‒ il web, ovviamente mi riferisco agli spazi fisici, alle gallerie, alle mostre e alle attività culturali che inevitabilmente si declineranno in altre forme di fruizione.

IRENE SOFIA COMI

Irene Sofia Comi. Photo Federica Iannuzzi

Irene Sofia Comi. Photo Federica Iannuzzi

Ho vissuto il periodo di isolamento in isolamento. Questo però interessa poco ai lettori: che si parli di artisti o curatori, siamo esseri umani come tutti. Come categoria, e non come individuo, ho invece constatato la totale mancanza di modelli lavorativi sostenibili. Nel pensare al mio rapporto con gli artisti, con i quali sono in contatto in modo più stabile, è inevitabile che il venir meno di una dimensione di socialità abbia cambiato il modo di intrattenere questi rapporti. È imprescindibile mantenere un dialogo spontaneo, che dal vivo si tramuta in un’azione tra le parti (un’attivazione, questa, che non può certo essere restituita a pieno tramite la mediazione di uno schermo). Questo momento ci ha mostrato che è possibile cambiare l’arte come comunicazione, ma non l’arte in quanto arte. La fruizione di mostre online si è rivelata fallimentare nella maggior parte dei casi (e questo accade soprattutto quando non si è un colosso economico, d’altra parte ogni tecnologia ha la sua téchne). Con queste modalità la fruizione di contenuti visivi digitali rischia di generare un’indifferenza sintomatica diffusa più che un reale avvicinamento. Spero di evitare un’eccessiva semplificazione nel dire che l’uso del digitale da parte del sistema dell’arte può essere orientato in altre due direzioni, entrambe lecite: può fare da cassa di risonanza o diventare uno strumento per la creazione di nuovi linguaggi e formati. Da una parte la democratizzazione dell’arte (difficile e da sempre discussa), dall’altra la ricerca. In ogni caso ‒ e questo vale anche per le manifestazioni offline ‒ sarà necessario concentrarsi meno sull’arte come merce e più sull’arte come esperienza.

EUGENIO VIOLA

Eugenio Viola. Photo Camilo Delgado Aguilera (Camo), Bogotà. Courtesy Museum of Modern Art Bogotà   MAMBO

Eugenio Viola. Photo Camilo Delgado Aguilera (Camo), Bogotà. Courtesy Museum of Modern Art Bogotà MAMBO

Vivo il periodo di isolamento (qui ancora in vigore [a Bogotá, N.d.R.]), lavorando per poter riaprire il MAMBO al pubblico. Il ruolo del curatore deve adattarsi alle contingenze: le mostre in programma per marzo, quella sul colombiano Fernando Arias e la retrospettiva dell’australiano Mike Parr, non hanno mai inaugurato. Questo ci ha costretto a posticipare la retrospettiva di Tania Bruguera, realizzata in collaborazione col PAC di Milano. Dovremo adeguarci ai protocolli di biosicurezza e alle difficoltà di spostamenti lavorando con artisti internazionali. Sotto il profilo tematico ritengo la nostra programmazione debba riflettere questa nuova situazione e supportare gli artisti. Lunedì lanciamo Efectos secundarios, un concorso nazionale sul rapporto tra territorio e pandemia volto alla produzione di due nuovi lavori multimediali. Le campagne digitali sono alleate preziose: ne abbiamo approntate cinque differenti, proponendo, tra l’altro, percorsi curatoriali all’interno della collezione del museo e offrendo contenuti che dialogassero con i temi legati alla programmazione del 2020: il rapporto tra arte e politica, arte e comunità, arte e impegno sociale. Tuttavia, ritengo necessario proporre anche una strategia di segno diverso, per raggiungere una fascia di pubblico che non necessariamente si identifichi con esperti e-user. È nato così il progetto #de voz a voz, realizzato in partnership con El Tiempo, il quotidiano più importante del Paese, invitando una serie di riconosciuti artisti colombiani, di generazioni differenti, a reagire alla pandemia con un lavoro pensato per essere riprodotto in un inserto collezionabile pubblicato dal giornale: due uscite settimanali per sessanta artisti. Presenteremo la mostra degli originali al museo.

GIORGIO VERZOTTI

Giorgio Verzotti con Domenico Bianchi. Photo Leonardo Morfini

Giorgio Verzotti con Domenico Bianchi. Photo Leonardo Morfini

Ho passato la quarantena come tutti chiuso in casa e lottando contro la depressione, all’inizio pensando solo ai bisogni primari, salute e nutrimento, poi riprendendo i contatti col mondo ma con la mediazione dei social. Molto su Facebook, anche per avere notizie, ma quasi niente sugli altri. Il contatto col mondo è stato il telefono e l’email e Skype. Non ho interrotto le mie relazioni di lavoro e amicizia con gli artisti con cui avevo due progetti, a Milano e vicino al lago d’Orta; con loro abbiamo per così dire modificato concettualmente i progetti stessi in vista delle nuove regole “comportamentali”. Questo è uno dei ruoli di un curatore, credo, mutare di obiettivi in corso d’opera qualora le circostanze lo impongano, senza però rinunciare e anzi facendo, come si usa dire, di una costrizione una opportunità. Ci stiamo riuscendo, si riesce sempre quando c’è collaborazione intorno a un progetto comune. Ma non si è trattato solo di colloqui di tipo organizzativo, sto lavorando da un po’ di tempo con artisti con cui finalmente posso intavolare discussioni di tipo generale, teoriche se si vuole, non solo strategiche. Questo dovrebbe essere la lezione che la contingenza, cioè la pandemia ci insegna per il futuro: lavoriamo al meglio, non ci perdiamo dietro a velleità solo carrieristiche, l’arte vale di più.                                                          P.S.: In tempi normali di solito funziona così: l’artista ti invita in studio e ti parla un po’ del suo lavoro ma soprattutto di strategie, dove posso esporre e con chi. Il ruolo del critico o curatore diventa allora simile a quello dell’agente promotore, quando non del pubblicitario. Da tempo non mi interessa più lavorare con quella logica, che sta influenzando ormai anche l’azione dei musei, soprattutto quelli di grandi dimensioni, e che si identifica sempre più pericolosamente con l’attitudine a salire sul carro del vincitore. Gli artisti con cui lavoro più volentieri e con cui abbiamo intrapreso i progetti di cui parlo non badano alle mode culturali e ai richiami del mercato. E finalmente si parla di arte, di questioni formali, del rapporto fra forma e contenuto, di teoria, di filosofia dell’arte, del ruolo dell’opera nella realtà, tutte cose che ho appreso all’università ma non molto dibattuto durante la mia carriera.

ANTONIA ALAMPI

Antonia Alampi. Courtesy SAVVY   Geographies of Imagination. Photo Patrik Bablo

Antonia Alampi. Courtesy SAVVY Geographies of Imagination. Photo Patrik Bablo

Penso che il ruolo del curatore negli ultimi decenni si sia sviluppato in maniera estremamente dinamica, versatile, diversa in ogni contesto (geografico, storico, culturale): ecco perché non credo possa essere confinato in un’unica forma o “modello”.  Proprio per questo, penso che la trasformazione sia una costante alla quale il curatore si adatti naturalmente, per definizione.  Un cambiamento radicale post-pandemia credo riguarderà in primis e più facilmente i viaggi, gli spostamenti, il globetrotting così caro al mondo dell’arte. La pandemia mi auguro possa rappresentare una sorta di sveglia riguardo al nostro rapporto con l´ambiente e con il mondo, rendendo evidente come la convinzione occidentale che l´uomo possa in un certo senso rimanere immune alle catastrofiche ferite inferte a madre natura grazie alla scienza sia solo un’illusione, anche per i più ricchi (a questo proposito rimando a libri importanti rispetto alla natura dei virus come Spillover: Animal Infections and the Next Human Pandemic di David Quammen). Spero che quanto sta accadendo incoraggi una riconsiderazione del nostro lavoro (del contesto artistico appunto) rispetto a viaggi continui, rapidi ed estremamente consumisti (specularmente al fatto che è la cultura stessa a essere rapidamente consumata). Mi auguro che acceleri riflessioni già in fieri rispetto all’usa e getta di materiali, di allestimenti, ecc. rispetto alla necessità di ripensare l’organizzazione di mostre e anche le collezioni, ovvero al senso di opere in diversi contesti non solo in termini di contenuti ma anche di materiali, smettendola fra l’altro di considerare le istituzioni artistiche come scatole chiuse in cui ricreare condizioni climatiche totalmente artificiali (non solo metaforicamente).
Infine, a proposito dell’esperienza digitale, credo che non cederà mai il posto all’esperienza reale e allo “scambio” profondo che solo questa può garantire. Diverso è il concetto per conferenze e talk che, da remoto, hanno dato modo a un pubblico vasto e variegato di partecipare. Il sapere deve essere libero e non c’è necessariamente bisogno di spostarsi per fruirne. Credo che questo stravolgimento rispetto a un “prima” acritico e irresponsabile, a parte tutti i lati ovviamente negativi in termini di crisi economica e di incremento della precarietà lavorativa, abbia dato modo ‒ almeno ai “privilegiati” sani, con una casa e con la possibilità di trascorrere accettabilmente il lockdown ‒ di guardare con occhi nuovi a quello che fino a poco tempo fa forse rimaneva ancora un po’ opaco o tutto sommato non prioritario: l’insostenibilità dell’attuale modalità di produzione e di consumo nel (del) pianeta.

DAVIDE FERRI

Davide Ferri

Davide Ferri

Tra le cose che vuoi sapere posso dirti con precisione solo riguardo alla prima: in queste settimane ho fatto molte lezioni su piattaforma digitale fissando sempre lo stesso muro di casa (dove c’è appeso un dipinto di Claudio Verna che si intitola Rado); attraverso lo schermo del pc ho visto anche, dietro le facce dei miei studenti, molti muri (di conseguenza ho fatto alcune lezioni sui muri di alcuni ritratti della storia della pittura); ho preso appunti per diversi testi che ho solo iniziato (testi un po’ farraginosi e concitati, hai presente le lettere che scrive Herzog nel romanzo di Saul Bellow?), tra i quali: una recensione in cui ammetto di invidiare Vincenzo Latronico, che di recente ha scritto un bellissimo saggio breve su L’architetto di Luc Tuymans, dal mio punto di vista uno dei quadri più importanti del nostro tempo; un articolo in cui spiego perché il lavoro figurativo di Milton Avery mi sembra incredibilmente più vivo di quello di Rothko (di cui Avery, da una posizione di apparente retroguardia, fu molto amico). Cose così, su cui credo di aver dilapidato tutto il tempo che sembrava essersi generosamente srotolato davanti a me all’inizio della quarantena (mi ero imposto di non impegnare i miei pensieri su previsioni e massimi sistemi; sarà per questo che non so rispondere alle tue domande se non in modo vago). Certo che in queste settimane ho sentito diversi artisti, discorsi di routine per lo più, con alcuni ho immaginato mostre, ma da realizzare solo quando tutto tornerà più o meno come prima, perché questo sì, l’ho pensato, credo che la mia speranza sia che il mondo dell’arte torni più o meno com’era prima (una cosa su cui in fondo non ho molti dubbi) e se cambiasse troppo drasticamente non so se avrei la forza, visto che ci ho messo parecchio tempo a sentirmi a mio agio nel mondo dell’arte com’era prima, di rimodellare la mia identità o il mio ruolo, già abbastanza labile come quello di quasi tutti i curatori. Probabilmente, se le cose si mettessero così, finirei per voltarmi costantemente indietro, verso le opere, gli artisti e le mostre che ho amato nel mondo di prima. E non sarebbe poi così male, un vizio che non sopporto di certi curatori maturi è proprio la sovreccitazione da futuro.

SAVERIO VERINI

Saverio Verini. Photo Ela Bialkowska

Saverio Verini. Photo Ela Bialkowska

Il periodo di clausura è stato davvero spiazzante. Oltre alla sospensione di alcune attività e al rinvio di diversi progetti, ho dovuto fare i conti con una strana inquietudine che mi ha impedito di approfittare come avrei voluto di questo momento di relativa calma. Ma credo sia fisiologico, è stato lo stesso per tanti amici artisti e curatori. Ho cercato comunque di portare avanti come potevo alcuni progetti e di dedicarmi a cose per me nuove, per esempio una serie di conversazioni con artisti confluite in un podcast della piattaforma Pillow Talk. In generale, sono stato sempre in contatto con gli artisti, condividendo non solo smanie e preoccupazioni, ma anche riflessioni sul futuro. Nel breve-medio periodo l’esperienza di fruizione dell’arte cambierà, è certo: niente inaugurazioni affollate in favore di un rapporto più intimo (e forse più attento) con le opere. Non so se questo inciderà sul ruolo del curatore: forse sarà chiamato a svolgere più di prima la propria “funzione” di mediatore? Magari si produrranno testi più limpidi e sarà dato maggior peso all’interazione con il pubblico? Vista la difficoltà di viaggiare da un Paese all’altro, è probabile che borghi e campagne rappresenteranno una specie di “nuovo esotico”. Da questo punto di vista il progetto straperetana che curo da quattro anni in un piccolo centro in Abruzzo, in collaborazione con Paola Capata e Delfo Durante, mi sembra che si adatti bene al momento che stiamo vivendo e spero possa aprirsi a metà luglio. Per quanto riguarda le piattaforme digitali, credo che il loro utilizzo in questa fase sia stato inevitabile: non tutti i contenuti sono stati memorabili, ma si è trattato di un modo per far sentire la propria presenza. Video e immagini (spero sempre più curati) saranno necessari per vedere quel che accade in luoghi dove magari non riusciremo ad arrivare fisicamente, almeno per un po’, anche se non potranno sostituire del tutto l’esperienza dal vivo.

GIULIANA BENASSI

Giuliana Benassi. Photo Priscilla Benedetti

Giuliana Benassi. Photo Priscilla Benedetti

Ho vissuto l’isolamento domestico come un’esperienza di hortus conclusus, dove al posto delle piante ho avuto modo di coltivare le cose essenziali: la famiglia, la lettura e lo scambio di messaggi e telefonate, spesso anche videochiamate, con i legami più autentici, tra questi tanti artisti con i quali ho attivato un confronto di stati d’animo e riflessioni audaci sullo scossone che ha investito il mondo dell’arte contemporanea: dalla perdita di riferimento dei canonici contenitori espositivi alla volontà di costruire la figura sociale dell’artista in Italia, dal venir meno di molti lavori alla necessità di attivare congegni di risposta all’emergenza attuale. Un’occasione di scambio reciproco che non ha mai smesso di germinare idee e ridisegnare nuovi orizzonti possibili. Ora più che mai lo sguardo è rivolto al territorio, a quei luoghi che appartengono al pubblico e che l’arte può riattivare donando alle persone una nuova visione. Questa è una direzione progettuale che personalmente svolgo da anni, portando mostre e artisti in luoghi non-convenzionali, da scoprire pochi alla volta e in tempi brevi affinché lo sguardo possa andare in profondità mettendo le opere al centro. Dopo che il panorama drammatico dell’emergenza sanitaria ha fatto esperire la nostalgia dei corpi, quei corpi nei quali ci siamo trovati prigionieri, quei corpi che erano ovunque costante memento mori, credo che sarà proprio dalla corporeità fisica dell’esperienza che tutto o molto potrà ripartire.
Le piattaforme digitali delle quali abbiamo abusato in questo periodo fino a trasformare l’altro corpo in schermo non credo che potranno sostituire l’esperienza di vivere uno spazio reale votato all’incontro diretto con l’opera d’arte, piuttosto penso che siano importanti strumenti da utilizzare come incubatori per potenziali progetti futuri.

ROSSELLA FARINOTTI

Rossella Farinotti. Photo Zeno Zotti

Rossella Farinotti. Photo Zeno Zotti

Quando, durante i giorni di quarantena, mi è stato chiesto “come stai?”, “come va il lavoro?” ecc., ho sempre esordito rispondendo che, prima di tutto, mi sentivo una privilegiata poiché quattro pareti che mi proteggono le ho, e anche la fortuna di poter lavorare con un computer da casa. Queste righe per raccontarti la mia posizione, rispetto al mestiere di critica e curatrice che svolgo da tempo, nei giorni pre-durante-post COVID-19. Penso che il ruolo del curatore non possa di tanto cambiare per diversi motivi: il rapporto con gli artisti, personalmente la cosa più importante, rimane e, anzi, si è fatto più intenso grazie al tempo condiviso dalle proprie case. La scrittura è andata avanti, per il bisogno di contenuti dato dal fattore dei luoghi chiusi, che dunque vanno raccontati più che mai. Da un punto di vista pratico ed economico, invece, certo che le cose sono cambiate, ma precarie erano, precarie rimangono. Con o senza COVID, le urgenze del mestiere e dei ruoli non bene definiti, in Italia, sono semplicemente venute a galla. Qualcosa è cambiato nel rapporto curatore/artista, perché si è intensificato e personalizzato. Oltretutto, in questo momento, avevamo a disposizione solo parole e idee astratte, non più uno spazio fisico in cui, su cui, lavorare. Per quanto riguarda la tua domanda sull’online: il pensiero va su due livelli. Da un lato l’online ci ha fatto rimanere vivi, attivi. Forse troppo. Ma è stato utile per quanto riguardava le relazioni umane, affettive e per cercare e studiarsi artisti, eventi, storie passate o presenti che non conoscevamo. Dunque, sì alle piattaforme che veicolano il lavoro degli artisti. Dall’altro: troppa invasione, ansia di “esserci” e di mostrarsi. Una attitudine che è risultata un po’ nociva e che ad alcune realtà non ha giovato.

CLAUDIO LIBERO PISANO

Claudio Libero Pisano. Photo Monica Napoli

Claudio Libero Pisano. Photo Monica Napoli

Questi mesi sono stati un tempo fuori registro, nessuno era preparato a subirlo. Ciascuno lo ha affrontato a suo modo, applicando modalità di sopravvivenza conosciute a qualcosa fuori dalla portata dei singoli. C’è chi è stato zitto e ne ha fatto motivo per resistere e ripensare, chi ha sentito la necessità di condividere colazione, pranzo e cena. Ogni soluzione era lecita, si fanno i conti con la propria storia e con il carattere di ognuno. Non ho mai creduto alle favole che, nel dopo, saremmo stati tutti migliori. In questo Paese già esiste una parte migliore, nel mondo dell’arte esiste una parte migliore. Ma la si guardava con occhi miopi e benevoli, come si sorride a un parente di cui ci si ricorda poco. Non credo che questo tempo sghembo cambierà molto il sistema delle mostre. Il ruolo del curatore non cambierà, penso che cambieranno alcuni curatori, in meglio spero. Un altro modo di gestire il sistema dell’arte c’era già prima, era sotto gli occhi di tutti. L’uso delle piattaforme digitali è esploso con un tempismo perfetto nelle prime 24 ore di quarantena. Per quanto ne so, nella maggior parte dei casi ho percepito una strana paura e ossessione di essere dimenticati. E il risultato singolare è stato che, in alcuni casi, l’utente servisse a far compagnia all’oratore di turno, cosicché si sentisse meno solo. Il lockdown ha messo in luce una carente dimestichezza con certi mezzi. Perché scarso è stato l’investimento precedente. Ho intravisto anche modi interessanti di gestire la crisi. Meno rumorosi ma più consapevoli.

CECILIA CANZIANI

Cecilia Canziani

Cecilia Canziani

Rispondo dalla stanza dove ho passato la maggior parte del tempo, da quando è iniziato l’isolamento e che in questo momento è inondata dalla luce del pomeriggio. C’è un enorme mazzo di peonie che le mie amiche mi hanno fatto arrivare per il compleanno, e sculture, quadri e carte che raccontano una rete di interessi, di scambi e anche di affetti, e che hanno rappresentato un argine molto solido alle immagini e alle voci che arrivavano dallo schermo, davanti al quale anche ho trascorso gran parte di questi quasi tre mesi. Lo schermo è diventata la soglia per entrare in tante altre stanze. Un po’ per mestiere un po’ perché il mio corso all’università prevedeva site visit che ho potuto fare, da un certo punto in poi, solo in maniera virtuale, le stanze che ho visitato sono state per lo più quelle dei musei, in un momento in cui ‒ in generale ‒ gli spazi dell’arte contemporanea sono stati attivi come non mai. Mi chiedo cosa resterà di questa ansia da presenza. La visita in VR non regge il confronto con i videogiochi, le dirette Instagram e Facebook all’inizio mi hanno incuriosito, alla lunga affaticato e a volte infastidito. A me la presenza delle opere e l’alleanza dei corpi sembra imprescindibile, e credo che si tornerà a fruire delle opere come abbiamo fatto fino a ora. Probabilmente saranno le opere – magari non nell’immediato – a problematizzare questo tempo che abbiamo vissuto tutti, e ciascuno individualmente. La frenesia di racconto da parte delle istituzioni credo abbia sollevato un problema e anche una possibilità: ci dice che c’è un desiderio di immaginare nuove modalità di narrazione che possano affiancare e accompagnare l’esperienza dell’opera. Cose che mi sono piaciute: il messaggio che La Galleria Nazionale ha comunicato con la sua riapertura sostituendo al “distanziamento sociale” la rivoluzione praticabile di una distanza ravvicinata; lo spazio intimo della lettura di corrispondenze ne Il giro del giorno della GAMeC di Bergamo; Cosmo Digitale che ospita opere, riflessioni, storie sul sito del Castello di Rivoli: un progetto tutto sommato classico (e forse l’efficacia e la bellezza di questi progetti sta proprio nel loro sottrarsi alla logica dell’evento riflettendo sulle possibilità narrative dell’arte); il MAMbo che offre i suoi spazi come studio agli artisti in un momento di emergenza (e anche questa è un’idea semplice, e bella). Non credo del resto che i musei siano in pericolo di vita, come da molte parti si è letto: i musei hanno le loro collezioni, che ne sono la spina dorsale, e che devono tornare centrali nel re-istituire il rapporto tra spettatore e museo, al di là della logica dell’evento, dell’inaugurazione, del consumo. E ora spengo il computer, e prima di chiudere la giornata saluto le vere presenze che mi circondano.

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Valentina Muzi

Valentina Muzi

Valentina Muzi (Roma, 1991) è diplomata in lingue presso il liceo G.V. Catullo, matura esperienze all’estero e si specializza in lingua francese e spagnola con corsi di approfondimento DELF e DELE. La passione per l’arte l’ha portata a iscriversi alla…

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