L’arte e la dissidenza. Intervista a Minerva Cuevas

Virginia Negro ha intervistato l’artista Minerva Cuevas dopo averla raggiunta nel suo studio a Città del Messico. Una riflessione su uomo, ambiente e risorse naturali.

All’angolo tra Calle Bolivar e Calle Repubblica di Uruguay spicca dall’intonaco bianco una griglia dorata, il volto antropomorfo di una creatura oscura. Mi affaccio al cancello in ferro battuto e guardo dentro: azulejos azzurri. Salgo le scale, guardo in alto, soffitti infiniti, e vedo Minerva aprire la sua porta grigia. Quest’edificio è eccezionalmente bello, prezioso, e dentro lo studio di questa artista messicana la luce è tale che dobbiamo chiudere alcuni scuri per poter vedere lo schermo del computer.
Minerva mi mostra subito alcuni dei suoi lavori, senza un ordine cronologico, ma dopo questo paio d’ore passate insieme sarò in grado di vedere chiaramente la direzione del suo cammino. Una premessa: Minerva Cuevas (Città del Messico, 1945) è un’artista messicana ecologista. Il tema ricorrente, sempre politicizzando, mai declinato con lo stesso linguaggio, è quello dell’ambiente, dell’intervento umano sull’ambiente e del cambio che quest’ultimo impone, con tutte le conseguenze del caso. Un’altra evidente caratteristica è la passione per il rimando semiotico-storico: essere uno spettatore dell’opera di Minerva è un’impresa che richiede attenzione, volontà per attivare il rizoma segnico e una certa enciclopedia di riferimento per poterlo fare efficacemente. Non è un’arte per cervelli spenti: è un’arte interpretativa.
Un’artista contemporanea, messicana, di Oaxaca ‒ la terra di Francisco Toledo ‒, riconosciuta internazionalmente: non ce ne sono molte.
La sua mostra Disidencia è arrivata alla Mishkin Gallery di New York con una serie di video che dialogano direttamente con le conseguenze delle ideologie economiche dominanti e i problemi globali, ecologici e sociali. Minerva affronta questioni come il declino del sistema mesoamericano, passando per la barriera corallina, la globalizzazione aziendale degli Stati Uniti e una mappatura video delle proteste e della resistenza. Minerva Cuevas utilizza tutta la gamma di supporti ‒ pittura, video, fotografia, scultura e installazione ‒ per indagare le relazioni politiche e di potere che permeano i legami sociali ed economici.

Minerva Cuevas, Banderas, 2012. Courtesy of the artist and kurimanzutto, Mexico City. Photo Michel Zabé Omar Luis Olguín, 2012

Minerva Cuevas, Banderas, 2012. Courtesy of the artist and kurimanzutto, Mexico City. Photo Michel Zabé Omar Luis Olguín, 2012

L’INTERVISTA A MINERVA CUEVAS

Cosa significa essere un’artista donna oggi in un Paese come il Messico?
Credo che sia naturale tenere un aspetto dissidente radicato in me, come messicana, artista e donna, anche se nelle mie opere non risulta sempre in modo ovvio, ad esempio in una della mie prime videoperformance, Drunken (1995), in cui mi riprendo per alcune ore bevendo tequila. Uso il corpo e i suoi limiti e le conseguenze delle sue modificazioni, alterazioni: essere donna trasforma evidentemente l’opera.

Da dove nascono le tue opere?
Sento che sono sempre legate alla mia terra: il Messico, in un modo o nell’altro è qui che nascono le mie esplorazioni archeologiche. Un esempio: dopo aver studiato la funzione del cacao come valuta in epoca pre-ispanica, ho iniziato a indagare sull’attuale situazione del cioccolato in Messico. Durante il processo di produzione, ho scovato diversi conflitti e interessi commerciali nell’industria del cacao, scoprendo che le piantagioni coprono dal sud del Messico fino al Venezuela: una zona che si è scoperto essere ricca di petrolio e dove pressioni economiche hanno costretto i lavoratori ad abbandonare i campi di cacao per dedicarsi a pozzi e oleodotti. Da allora, il petrolio è un mio leitmotiv, incarnando la trasformazione apocalittica del mondo.

Nel 2015 la tua opera esposta nella galleria Kurimanzutto ruotava attorno al cioccolato, con sculture di ossa umane rivestite di cacao. Il corpo è centrale nelle tue opere.
Sì. Volevo collegare il cacao come risorsa naturale al colonialismo e al cannibale, un concetto sfruttato dai coloni europei. Chiunque fosse brutto o diverso era considerato un cannibale e meritava di essere conquistato. Ho scelto le orecchie perché avevano una connotazione simbolica in epoca pre-ispanica, le orecchie erano collegate alla persona e al sacrificio. Oggi come ieri oggi l’orecchio reciso fa parte dell’equazione della tortura e della violenza, ancora presente in questa nostra epoca post colonialista.
Ho usato il cioccolato messicano, che è molto difficile da trovare ora perché tutto viene esportato in Belgio e Svizzera; l’industria del cioccolato messicana impiega cioccolato africano per uso domestico perché è molto più economico: a dimostrazione di come il colonialismo continua in altre sottili forme.

Minerva Cuevas, Del Montte, 2003. Courtesy of the artist and kurimanzutto, Mexico City. Photo Michel Zabé Enrique Macías

Minerva Cuevas, Del Montte, 2003. Courtesy of the artist and kurimanzutto, Mexico City. Photo Michel Zabé Enrique Macías

Tornando al petrolio, è anche il protagonista delle opere esposte al Jeu de Paume di Parigi.
La serie nella sua interezza si chiama Chapopote, fotografie e oggetti imbevuti nell’oro nero, una parola nahuatl di uso comune in Messico, dove è stata utilizzata fin dall’antichità per riferirsi al petrolio greggio, indicando a volte specificamente le fuoriuscite di petrolio nell’oceano, come il terribile disastro petrolifero della Deepwater Horizon nel 2010. Ho indagato l’uso che del petrolio facevano i maya, per impermeabilizzare e per le otturazioni dentali. Le due opere selezionate per la mostra terminata a fine febbraio appartengono appunto alla miniserie Idrocarburi. Shell è il più grande distributore multinazionale di lubrificanti e sottoprodotti petrolchimici in Messico. Con un approccio metaforico e ironico, ho immerso una lattina con il logo della Shell e una nel catrame, come nella realtà delle catastrofi petrolifere.

Il tuo filo rosso sembra essere l’attivismo e l’arte critica: quale futuro per questa produzione dissidente?
Appunto! Disidencia è il mio maggiore progetto: un progetto permanente e itinerante, che inizia nel 1994 con Francis Alÿs e Melanie Smith durante l’esposizione Extramuros, fino alla gigantografia del logo modificato di Del Monte, “giocando” con l’omofonia con Efraín Ríos Montt, il dittatore guatemalteco, Paese dove l’azienda agroalimentare statunitense possedeva il 40% del territorio nazionale, per poi attraversare il Rio Bravo nella frontiera nord del Messico con gli Stati Uniti. Là dove il fiume si restringe e dove, per passare sull’altra riva, le persone muovono le rocce, rocce che ho verniciato di bianco. Rio Bravo Crossing è un’opera che racconta di un muro impossibile. Basta guardare la frontiera, un deserto di migliaia di chilometri, quasi largo come l’intera Europa, come si può pensare di murarla? Così nasce la serie di video e immagini di Rio Bravo Crossing, che celebra l’atto dissidente di camminare e l’impossibilità di sbarrare l’immensità naturale.

Quali sono i prossimi passi?
Ripartendo da questa serie presentata nel 2010 a San Francisco, adesso mi sono interessata alla migrazione animale, che appunto non accetta muri, un ecosistema estremamente dissidente. Sto cominciando un’esplorazione per la prossima biennale coreana sul mondo delle muffe e dei funghi, sulla loro speciale funzione parassitaria e al tempo stesso generatrice, una potenza straordinaria e contemporaneamente così banale e quotidiana ai nostri occhi. Come stiamo sperimentando proprio ora, quando la natura ci ricorda la nostra irrilevanza in questo sistema mondo.

‒ Virginia Negro

www.kurimanzutto.com/en/artists/minerva-cuevas

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Virginia Negro

Virginia Negro

Dopo aver studiato Comunicazione e giornalismo tra Bologna e Parigi, ha continuato le sue ricerche con un progetto finanziato da un consorzio di università internazionali che l’ha portata a vivere prima in Spagna, poi in Polonia e infine a Buenos…

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