Biennale di Istanbul. L’intervista con Elmgreen & Dragset

Abbiamo intervistato Elmgreen & Dragset, la coppia di artisti-curatori che dirige la Biennale di Istanbul di quest’anno. E abbiamo parlato di arte, certo, ma anche tanto di politica.

Come senz’altro saprete, una parte del mondo dell’arte ha criticato la vostra scelta di curare la Biennale di Istanbul, data la delicata situazione politica in Turchia. Perché avete accettato l’invito?
Crediamo che ogni edizione della Biennale abbia avuto un ruolo importante nella vita culturale della città e questo non è il primo anno in cui la Biennale di Istanbul si tiene in concomitanza di importanti problemi politici – anche l’edizione durante le proteste di Gezi Park ha affrontato alcune sfide estreme. La Biennale di quest’anno è un’occasione per riunire la comunità internazionale nel supportare la scena artistica turca e un grande evento culturale come una biennale può essere un’occasione per potersi radunare, proprio in un momento in cui altri raduni non sono permessi a causa dello stato di emergenza che ora vige in Turchia.
Subito dopo il tentativo di colpo di Stato nel luglio 2016 e quando è iniziata l’epurazione del governo, siamo andati a Istanbul per incontrare persone provenienti da ogni tipo di ambito professionale, per farci un’idea più chiara della situazione. Certo, eravamo in dubbio: aveva senso fare la Biennale? Perciò ci siamo incontrati non soltanto con persone che appartengono alla scena dell’arte, ma anche con giornalisti, accademici, storici e figure culturali chiave come Orhan Pamuk.

E cosa è emerso da questi incontri?
Tutte le persone con cui abbiamo parlato ci hanno detto: “Per favore, non cancellatela. Ora più che mai, in questa situazione critica, abbiamo bisogno di dialogare con la comunità internazionale”. Ritenevano che la cosa peggiore che potesse succedere fosse che il mondo si dissociasse dalla Turchia e isolasse le forze progressiste locali. Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo visitato Istanbul ogni mese e ci abbiamo vissuto nei due mesi precedenti l’inaugurazione. Dopo aver avuto tante conversazioni e discussioni con gli abitanti a proposito dell’escalation politica in Turchia, abbiamo capito che la solidarietà con coloro i quali sono minacciati di esser messi a tacere è più importante che voltar loro la schiena e boicottare la Turchia.
La gente dovrebbe venire qui per mostrare agli intellettuali, agli artisti e alle persone dalla mente aperta che non sono soli. È importante non dimenticare il genere di questioni esistenziali che l’arte può affrontare, quindi abbiamo curato una mostra che in sé è un omaggio alla diversità, con artisti provenienti da diversi ambiti e con molti modi di esprimersi.

La conferenza stampa della 15. Biennale di Istanbul. Photo Mahmut Ceylan

La conferenza stampa della 15. Biennale di Istanbul. Photo Mahmut Ceylan

In questi ultimi mesi il pubblico è stato testimone di due diverse maniere di intendere l’arte: da un lato, Documenta ha enfatizzato il potenziale che l’arte ha – o dovrebbe avere – nel rapportarsi in modo proattivo con l’attualità, provando a cambiare direttamente la realtà; d’altro canto, la Biennale di Venezia ha scelto di tornare ai fondamentali dell’arte, ovvero gli artisti, e ha proposto un’idea di arte che non è strettamente connessa con le questioni urgenti del presente. Qual è la vostra posizione in merito, in quanto artisti e curatori? Quale prospettiva prevale nella vostra Biennale di Istanbul?
È ingenuo pensare che eventi artistici come una Biennale possano avere un impatto diretto e misurabile sulle principali questioni politiche. L’arte politica può essere buona arte, ma spesso è politica scadente. Il pericolo è che il mondo dell’arte si auto-conforti, cullandosi nell’idea di essere impegnato ad affrontare gravi questioni politiche, mentre allo stesso tempo dimostra una totale mancanza di coinvolgimento politico nella vita reale. Gli eventi artistici possono riunire le persone e fungere da piattaforma per lo scambio intellettuale, che può poi portare ad azioni reali e ispirare un impegno politico diretto. Vogliamo che la nostra edizione della Biennale di Istanbul ricordi al pubblico il potenziale politico nella storia personale.

Partire da sé, insomma.
Nel complesso paesaggio geopolitico attuale, tutti dobbiamo trovare il nostro modo di tornare alla politica, senza limitarsi a rispondere ai messaggi semplificati dei leader populisti o dei mass media. Per molti artisti, sono le loro biografie personali a fare da traino: sono il loro punto di partenza, il loro orientamento e il loro materiale. Il lavoro di un artista si capisce meglio alla luce del suo background e, come hanno mostrato diverse generazioni di artisti, anche il personale è politico.
Soprattutto gli artisti turchi sperimentano il fatto che la loro vita personale è stata cancellata, non solo a causa della censura del governo, ma anche perché tutto il mondo vuole solo guardare le loro opere in relazione alla situazione politica. Immaginate se ogni artista americano fosse recepito solo in relazione a Trump, o gli artisti tedeschi nella prospettiva dell’ala destra dell’AfD [l’Alternative für Deutschland, Alternativa per la Germania, partito populista di destra, N.d.R.].

Non è la prima volta che vestite i panni del curatore. In particolare, nel 2009 avete curato i padiglioni danese e nordico alla Biennale di Venezia.
A Venezia stavamo operando con un concetto diverso da quello di Istanbul. Per la mostra, intitolata The Collectors, avevamo trasformato i padiglioni danese e nordico in ambienti domestici: uno, l’appartamentino da scapolo di un collezionista gay, il quale galleggiava a faccia in giù nella sua piscina; l’altro, la casa di una famiglia disfunzionale che aveva lasciato dietro di sé le tracce di una miserabile vita familiare. Abbiamo invitato altri ventitré artisti a esporre opere che sono state incluse nella nostra installazione e che hanno contribuito a una struttura narrativa che, a sua volta, era il pubblico a dover completare.
A Istanbul non c’è una “storia” in questo senso: è invece il tema della convivenza a guidare la mostra, e le storie personali dei cinquantasei artisti invitati fungono da disegno complesso e sfaccettato.

Biennale di Istanbul 2017. Ph. Sahir Ugur Eren

Biennale di Istanbul 2017. Ph. Sahir Ugur Eren

Come vi sentite nel ruolo di curatori? Dal punto di vista di un artista, cosa significa selezionare altri artisti? Quali sono i criteri che adottate?
Ci sentiamo abbastanza bene nel ruolo di curatori, perché a noi non interessa granché come ci etichettano. Non abbiamo mai percepito questa gran divisione fra artisti e curatori. La nostra stessa pratica si è sempre basata sul dialogo e spesso abbiamo avuto buoni dialoghi collaborativi, anche creativi, con i curatori con i quali abbiamo lavorato nel corso degli anni. Anche il nostro processo di scelta degli artisti si è basato sul dialogo. Durante la preparazione della Biennale abbiamo viaggiato in tutto il mondo per incontrare gli artisti e abbiamo fatto moltissimi studio visit: è una naturale estensione del nostro modo di lavorare insieme, dal momento che le nostre stesse opere emergono dal dialogo tra noi due.
Ci siamo impegnati in questo tipo di comunicazione con gli artisti il ​​cui lavoro era in relazione con il tema della Biennale e connesso ad altre opere incluse in mostra. Siamo anche stati aiutati dagli operatori delle scene artistiche locali: ci hanno dato consigli importanti e intuizioni che hanno contribuito a delineare il contesto per le opere, e ci hanno suggerito nuovi artisti da valutare. Non c’era un layout rigoroso e programmatico per la nostra selezione: eravamo interessati agli approcci teorici e personali degli artisti che abbiamo invitato a partecipare. Abbiamo inoltre lasciato che la mostra subisse delle metamorfosi e assumesse nuove forme in funzione dei progetti degli artisti. Il nostro concept si è evoluto mentre i diversi progetti artistici si sviluppavano e prendevano forma. Ci sono oltre trenta nuove commissioni in mostra, quindi, come puoi immaginare, molto è cambiato nel corso del tempo.

Il titolo della Biennale è “un buon vicino”. Cosa significa?
Il termine ‘vicino’ non si riferisce soltanto a qualcuno che vive alla porta accanto o nel tuo quartiere; si riferisce anche ai conflitti geopolitici e a come l’impatto di ciò che succede in una parte del mondo risuona altrove. Da quando abbiamo scelto il titolo, ci sono stati parecchi sviluppi importanti a livello internazionale, come la Brexit, l’elezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti, il tentativo di colpo di Stato in Turchia e la crisi migratoria in corso – e ognuno di essi ha aggiunto nuovi significati e nuovi livelli al concept.

Biennale di Istanbul 2017. Ph. Ilgin Erarslan Yanmaz

Biennale di Istanbul 2017. Ph. Ilgin Erarslan Yanmaz

Com’è stato interpretato il tema da parte degli artisti?
La maggior parte degli artisti ha risposto in modo molto personale. Hanno scelto molti approcci diversi per affrontare questioni come lo sviluppo urbano, il rapido cambiamento demografico nelle nostre metropoli, il dislocamento forzato, le dinamiche familiari, guardando a come sperimentiamo collettivamente la memoria culturale e storica, o ancora all’impatto sull’ambiente causato dall’attività umana.

Ci raccontate qualche esempio?
Il progetto di Alper Aydın all’Istanbul Modern consiste in un bulldozer che ha spinto in un angolo dei giovani alberi tagliati dal sito del nuovo aeroporto di Istanbul. Latifa Echakhch ha fatto un murale, e anch’esso è stato in parte scalfito: raffigura dei manifestanti, e potrebbero essere quelli coinvolti nelle manifestazioni di Gezi Park. Al Pera Museum, Andra Ursuta ha creato due sculture che sembrano maquette: raffigurano una camera da letto e una dispensa, e si riferiscono all’infanzia dell’artista in Romania durante gli Anni Ottanta. L’installazione di Mahmoud Obaidi alla Scuola Elementare Greca di Galata è un archivio pieno di schizzi, ritagli di giornali e altri ephemera che ha raccolto dopo aver lasciato l’Iraq; un archivio racchiuso in strutture metalliche protettive, come se dovesse essere preservato dalla guerra e dalla distruzione.
Tutte insieme, queste e le altre prese di posizione artistiche che abbiamo esposto sono un esperimento in co-esistenza. Statement artistici differenti e addirittura contrastanti sono fianco a fianco – per un po’ di tempo diventano dei vicini – e funzionano insieme incoraggiando il dialogo, la riflessione e il dibattito.

Biennale di Istanbul 2017. Ph. Ilgin Erarslan Yanmaz

Biennale di Istanbul 2017. Ph. Ilgin Erarslan Yanmaz

Com’è stato lavorare in un Paese come la Turchia, che è costantemente in evoluzione? Che atmosfera avete respirato in questi mesi?
Ovviamente a volte è stato molto difficile: la situazione politica è molto tesa e le cose cambiano continuamente. Saremo sempre grati ai team della Biennale di Istanbul e dell’IKSV e alla popolazione locale che ha avuto il tempo di parlare con noi della situazione, di condividere le loro conoscenze e di aiutarci a navigare in questi tempi pazzeschi. L’atmosfera che abbiamo sperimentato era di energia costante, meravigliosa ospitalità e fiera determinazione a continuare a lavorare nonostante le circostanze repressive.

Carolyn Christov-Bakargiev ha lavorato a un format diffuso, che ha permeato e “occupato” l’intera città. E nel vostro caso?
La Biennale si modifica e cambia a ogni edizione, che è in parte ciò che la rende una piattaforma vitale, con uno spiccato interesse da parte delle comunità d’arte internazionali. A differenza della precedente edizione, abbiamo scelto di concentrarci su un’area geografica relativamente più compatta, con sei luoghi che si trovano a breve distanza tra loro: Istanbul Modern, Scuola Primaria Greca di Galata, Ark Kültür, Museo Pera, l’atelier del collettivo artistico Yoğunluk e il Küçük Mustafa Paşa Hammam. Tutti insieme costituiscono una sorta di quartiere, e ogni sede rappresenta una sorta di istituzione comunitaria: museo, casa, hammam, posto di lavoro e scuola. Era veramente importante per noi concentrarci nella creazione di un’opportunità per gli artisti partecipanti, al fine di sviluppare nuove opere e installazioni spaziali estese, prendendo una classe, interi piani di un museo o abitando in una sede nella sua totalità.
Dei cinquantasei artisti partecipanti, provenienti da trentadue Paesi, trenta hanno realizzato nuove commissioni. Essere in stretta comunicazione con tutti gli artisti circa i loro progetti era un’altra nostra priorità, e per questo abbiamo deciso di invitare un numero più contenuto di artisti. Avere sei sedi crea uno spazio più intimo: vorremmo dare al pubblico il tempo di confrontarsi e riflettere sulle opere. Vogliamo che nemmeno un lavoro venga trascurato.

Marco Enrico Giacomelli

http://15b.iksv.org/home

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

Scopri di più