Il Macro Asilo e la politica italiana e romana. L’opinione di Raffaele Gavarro

Anche Raffaele Gavarro partecipa al dibattito attorno al Macro Asilo di Roma. Creando un parallelismo fra quest’ultimo e la politica attuale.

Devo dire che sono parecchio impressionato (prendetelo come un eufemismo decisamente insufficiente) da tutto quello che sta succedendo in Italia e molto di più da quello che capita a Roma e molto di più ancora da quanto si è approntato e si sta conducendo nei confronti della cultura e molto, molto di più, per ovvi motivi, verso quell’ambito di persone e fatti che costituiscono l’arte contemporanea nella Capitale.
Se fossi il marziano immaginato da Ennio Flaiano nel lontano 1954 sarei, ne sono certo, meno disorientato. Lo so, vi attendete che parli del Macro Asilo, ed è ovvio che lo farò, anche se sinceramente non è che ne abbia tutta questa voglia. Ma ho deciso di farlo comunque perché questo micro accadimento, specifico per tema e per geolocazione, è per nulla affatto dissociabile da tutto ciò che sta avvenendo intorno, prima nel Paese e poi a Roma.
Non essendo io, come nessuno di voi, in alcun modo assimilabile a quel citato marziano atterrato un 12 ottobre nel prato del galoppatoio di Villa Borghese, immagino che dovrei, dovremmo, avere chiare le ragioni che stanno conducendo a tutta una serie di fatti che stanno cambiando molto della nostra vita e molto della realtà nella quale si svolge. Ma sinceramente ho in tal senso poche idee e molto poco chiare, tanto da poterle dire solo ipotesi.
Tra queste quella che ritengo più significativa, nonché decisamente inquietante, riguarda la micidiale saldatura che si è prodotta tra una forte insofferenza verso la cultura e verso gli intellettuali con quel rancore più generalizzato, di natura politico-socio-economica, che ha individuato il nemico nella cosiddetta casta, anche se il plurale a oggi è senz’altro più appropriato.
Se la gestazione dell’insofferenza verso la cultura è avvenuta prima nel ventre del berlusconismo, per poi trovare compimento in quello del renzismo, il rancore è stato invece appassionatamente coltivato tanto dai pentastellati che dai leghisti, e la fusione dei due sentimenti in un unico mood era solo questione di tempo. Il segnale dell’avvenuta unificazione tra queste due componenti mi pare sia ben espressa da quel “me ne frego” che, gridato, sussurrato o silenziosamente sotteso, è diventato la reazione insofferente e liquidatoria a tutta una serie di condizioni precostituite, ma anche di riflessioni stringenti sulle varie questioni in gioco. Il motto, com’è noto dalle nefaste origini, ha così ritrovato diritto di pronuncia di volta in volta nei confronti delle regole europee, dei mercati, dei migranti, quando necessario del potere giudiziario, ma nondimeno è utilizzato verso le competenze, almeno di quelle che non sono riconducibili alle esigenze e ai fini di chi è oggi al governo. Così dalle sale capitoline a quelle dei palazzi poco distanti, il “me ne frego” è diventato nella sostanza più che un motto un vero e proprio modus operandi, che ovviamente per sua natura non tiene conto degli esiti.

Quello che c’insegna questa storia del Macro Asilo è che l’arte non ha alcuna capacità politica, né alcuna vocazione etica, quando corrisponde banalmente allo stato delle cose”.

Un altro aspetto essenziale da osservare (ma ripeto, si tratta solo di un’altra ipotesi) per venire a capo del senso di ciò che sta capitando, è lo sviluppo esponenziale di una confusione che sta minando sin dalle sue fondamenta quei baricentri valoriali di riferimento intorno ai quali da sempre ruotano le comunità democratiche. Il paradosso, aspetto tra l’altro non manchevole d’ironia, è che il bailamme che ci sta assediando procede dalla stesura di un documento per definizione portatore di regolazioni chiare e dettagliate: il contratto, appunto. Stipulato in nome e per conto di quei cittadini che hanno espresso la loro preferenza alle due parti contraenti, e che ne hanno, in parte, suggellato il gradimento con voto online o voto in gazebo. Una maggioranza elettorale che, vale la pena ricordare, almeno alla data del 4 marzo 2018, non era una maggioranza reale nel Paese.
In ogni caso la confusione alla quale assistiamo si compone sempre più chiaramente come una strategia, una specie di cortina di fumo fatta di detti e contraddetti, azioni e inerzie, accordi e disaccordi. Il caso esemplare di questo procedere dualistico è senz’altro rappresentato da una parte dalla difesa dei diritti dei lavoratori e della povertà, il cosiddetto reddito di cittadinanza per intenderci, e dall’altra dall’attacco discriminatorio verso i migranti che trova compiutezza nel decreto sicurezza e immigrazione, ma nondimeno dalla logica solo apparentemente egualitaria della flat tax. Due, tre cose che moralmente e politicamente non possono stare insieme, non possono essere condivise, e che pure appartengono alla stessa faccia della medaglia dell’attuale compagine di governo. Ne deriva appunto una confusione che conduce all’indistinto morale e politico, ben oltre quindi quel tanto citato superamento delle differenze tra ideali di destra e di sinistra, in nome di una contrattualizzazione di interessi definiti come di tutti (?), e che trova in quel “me ne frego” il suggello inevitabile e definitivo, tanto da superare con un sol balzo la complessità che diviene confusione, appunto.

IL MACRO ASILO

Ma, vi starete chiedendo, che c’entra tutto questo con il Macro Asilo?
Molti, compreso me, stanno da tempo ragionando su quali siano oggi le relazioni tra arte, società e politica, e se sia opportuno rintracciare proprio in quest’ambito la possibilità dell’arte attuale di riconquistare un ruolo decisivo nel mondo attuale. Di solito si affronta questo tema prendendo come punto di vista l’arte, procedendo cioè da questa verso la realtà come si configura in un preciso tempo. Ma proviamo a ribaltare. Consideriamo quanto detto sopra come ipotesi, immagino plausibili per molti, utili a interpretare la realtà in cui siamo, e cerchiamo di arrivare all’arte, e nello specifico al caso del Macro Asilo, attraverso questo punto di vista.
La trasformazione del Macro in Macro Asilo, ma anche la perdita degli spazi del Testaccio, così come il passaggio del museo sotto la gestione della Fondazione Palaexpo, nascono da una scelta politica di Luca Bergamo, assessore alla Crescita Culturale di Roma, nonché vicesindaco, che a buon diritto possiamo dunque considerare condivisa dall’intera giunta.
L’idea era quella da una parte di non dare seguito a un’inutile (sic!) tripletta museale (Macro, Maxxi, Galleria Nazionale) con produzioni di mostre ed esposizione delle relative collezioni, mentre dall’altra si è considerata l’esperienza del Maam come tanto interessante e innovativa (sic!) da meritare un’istituzionalizzazione.

UNA CONFUSIONE POCO ALLEGRA

Veniamo così alla prima onda di confusione che di concerto al quasi immediato e sostanziale, ancorché non esplicitamente pronunciato, “me ne frego”, ci portano sin qui.
Considerare inutile l’attività di un museo, che nello specifico ha anche una missione territoriale, anche se lo abbiamo detto in più occasioni che questo aspetto non è mai stato affrontato e assolto in modo convincente, solo perché come gli altri fa mostre, acquisisce opere, mostra la propria collezione, ha un’attività didattica, un nucleo di biblioteca, protocolli di collaborazione con Accademia e Università, in conseguenza del fatto che sullo stesso territorio (che non dimentichiamo è una Capitale con 3 milioni di abitanti e un flusso di turisti di 11 milioni solo nel 2017) ci sono altri due musei con ruoli, missioni e collezioni evidentemente molto differenti, appare una considerazione generata tanto da un deficit di conoscenza dell’arte contemporanea, quanto dalla mancata comparazione con situazioni analoghe in molte città europee.
Si dirà “eh ma qui nei musei d’arte contemporanea non ci va nessuno”. Bene, anzi male, ma forse era proprio questo il problema da porsi.
La soluzione invece è stata il Macro Asilo, presentato come un luogo aperto, ritmato da un palinsesto serratissimo di incontri, performance, parole, autoritratti, artisti al lavoro in gabbie di cristallo, una parte della collezione asserragliata su una parete della sala espositiva principale senza alcuna indicazione, e una lista di iscrizione aperta a chiunque voglia fare qualcosa, di artistico ovviamente, connessa e conseguente a una automappatura, sempre artistica ovviamente, del territorio romano. A questo proposito vorrei per inciso dire che se la logica dell’“uno vale uno” in politica si sta rivelando per quello che era, uno slogan di lancio del prodotto a cinque stelle, da che l’arte è arte uno vale per molti o non vale, con buona pace di tutti.
In ogni caso, che il risultato sia una poco allegra confusione è sotto gli occhi di tutti quelli che hanno fatto o faranno un giro nel museo. Confusione alimentata dal sostegno di artisti e intellettuali ampiamente accreditati dal loro lavoro e dalla loro storia, e che spesso non hanno saputo o avuto modo di prendere le misure della realtà nella quale sono stati chiamati a dare il loro contributo, e che in diversi casi si sono ritirati o hanno giustificato la loro presenza con argomenti piuttosto incerti.
Ma la confusione è soprattutto quella che sta assediando e assiederà nei prossimi quindici mesi quel pubblico, di turisti ma soprattutto di cittadini romani, che invece di trovare nell’istituzione museale la possibilità di apprendere e comprendere, si trova, e si troverà, a vagare in uno spazio dove accadono cose per la maggior parte senza né capo né coda.
Quello che c’insegna questa storia del Macro Asilo è che l’arte non ha alcuna capacità politica, né alcuna vocazione etica, quando corrisponde banalmente allo stato delle cose, quando non assume una netta posizione critica di fronte al potere, foss’anche quello più rivoluzionario, o più modestamente del cambiamento. Ma ci insegna anche che l’arte è un fatto culturale che, al pari di tutti gli altri, non è determinabile da un’azione politica e dal conseguente adeguamento a essa, ma che diventa tale solo quando si afferma attraverso un riconoscimento collettivo e specialistico e quando è esso stesso ad assumere una significanza politica.

Ovviamente riprodurre quest’articolo in un libro, con tanto di codice ISBN e relativo prezzo di vendita, senza esplicita autorizzazione dell’editore e in particolare dell’autore, cioè del sottoscritto, è severamente vietato, nonché punibile secondo i termini della legge sui diritti d’autore.
Così questa volta nessuno potrà dire di non sapere o di non essere stato avvisato.

Raffaele Gavarro

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