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Il legame mai semplice fra street art e legalità alla prova della situazione politica cinese. Dove in una città come Beijing, che conta oltre venti milioni di abitanti, i writer sono appena qualche decina.
In alcune zone del Medioriente e dell’Africa settentrionale, colpite da guerre e guidate da regimi militari, i giovani trovano nella Street Art la possibilità di far sentire la propria voce e di denunciare le ingiustizie sociali e politiche. In un Paese come la Cina, invece, la Street Art è costretta a rinunciare ai contenuti politici e di protesta, evitati anche dai writer più attivi e impegnati, a causa di pesanti sanzioni e punizioni talvolta arbitrarie.
A Beijing, città che conta oltre venti milioni di abitanti, solo quaranta writer si riconoscono come tali e, tra questi, appena una decina è realmente attiva illegalmente negli spazi pubblici, taggandosi molto raramente. Addirittura minore è il numero di chi usa i graffiti per esprimere apertamente il proprio pensiero politico. Escludendo quindi i riferimenti più espliciti, i writer ritraggono perlopiù la realtà della società cinese sconvolta dai rapidissimi cambiamenti, cercando di stimolare l’introspezione di chi osserva i loro pezzi e, allo stesso tempo, usando il colore per riappropriarsi degli spazi grigi delle enormi città.
A disinnescare la carica polemica e di denuncia della Street Art e dei graffiti cinesi contribuisce, oltre al controllo politico, anche la crescente ricchezza. Se, infatti, da una parte il governo concede spazi pubblici ai writer, come avviene in alcuni edifici dell’area 798, in cambio del controllo su ciò che viene realizzato, dall’altra la generazione di nuovi ricchi dai gusti sempre più occidentali segue la forte proposta galleristica di Street Art e la trasforma quindi in un fenomeno di moda, decorando i lussuosi attici e cercando atmosfere newyorchesi.
Martina Gambillara
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #17
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