Ricerca, museologia e didattica. Parola a Mercedes Auteri

Mercedes Auteri, anche firma di Artribune, è attiva da alcuni anni a Milano, dove è arrivata partendo dalla Sicilia, con una importante tappa in Messico. Qui descrive il suo lavoro di ricercatrice indipendente.

Cosa significa essere una ricercatrice “indipendente” nell’ambito della museologia, della didattica dell’arte o meglio della mediazione dei pubblici oggi in Italia?
Il panorama italiano, rispetto a quello estero, è meno aperto a dare questa possibilità: i concorsi sono rari, i contratti nei musei sono spesso a termine e anche i bandi per realizzare progetti di ricerca nelle istituzioni museali sono molto limitati. L’offerta di lavoro non è tanta e le condizioni sono spesso precarie. Però non è impossibile. Io, dopo diversi anni all’estero, ho voluto trovare un poco di stabilità e ho potuto realizzare alcune ricerche e collaborazioni importanti grazie all’insegnamento di Didattica per il museo all’Accademia di Belle Arti di Brera.

In che settori e ambiti è possibile muoversi o fare ricerca?
Prevalentemente, insieme agli studenti del mio corso, ci siamo dedicati allo studio dei pubblici dei musei come strumento di valutazione dell’impatto sociale delle esposizioni sui visitatori e come mezzo educativo da utilizzare per valorizzare l’esperienza al museo. Si tratta di comprendere, attraverso il coinvolgimento del pubblico, tramite domande, laboratori e attività correlate alle mostre, come cambiano i punti di vista, le percezioni, le emozioni del visitatore stesso. Abbiamo lavorato alla Pinacoteca di Brera e al PAC di Milano, con risultati sorprendenti.

Mercedes Auteri durante una visita guidata al Granaio della Fondazione Orestiadi, Gibellina

Mercedes Auteri durante una visita guidata al Granaio della Fondazione Orestiadi, Gibellina

Quali filoni e progetti vuoi segnalarci?
Gli ambiti su cui fare ricerca per generare progetti di qualità che permettano al museo di avere un reale impatto sociale sono diversi, posso citarne alcuni che secondo me dovrebbero essere da modello: la stretta relazione tra medicina e cultura, che crea reti per il benessere della popolazione come quelle realizzate in Canada (The art hive al Museo di Belle Arti di Montréal), dove le “prescrizioni culturali” vengono emesse dal medico anche come misura preventiva oltre che come terapia o, per rimanere a Milano, il progetto realizzato presso il Museo Teatrale della Scala da Fondazione VSM con pazienti portatori di disturbi neuropsichiatrici. Per quanto riguarda l’utilizzo dell’arte come rottura dello stereotipo e del patrimonio culturale come matrice comune dell’uomo, cito tra gli altri l’importante dibattito avviato al Museo Egizio di Torino su Museum and Stereotypes. In tema di musei come luoghi di dialogo tra le culture, si possono seguire gli sviluppi del progetto AMIR, acronimo di Accoglienza Musei Inclusione Relazione, realizzato presso vari musei fiorentini, che invita gli immigrati in Italia a varcare le soglie dei musei, ad appropriarsi di una storia e di una identità nuove e a raccontare come vedono, leggono, sentono e interpretano il nostro patrimonio.

Nel tuo curriculum, sin da giovanissima, ci sono collaborazioni con le maggiori istituzioni di arte contemporanea siciliane. Quale ti porti nel cuore? C’è un progetto in particolare di cui ci vuoi parlare?
In Sicilia torno sempre con grande desiderio di fare. L’istituzione che mi porto nel cuore, con cui collaboro ogni volta con grande piacere e affetto, è la Fondazione Orestiadi di Gibellina (Trapani), non solo perché è il primo museo dove ho lavorato e dove tutto è cominciato. Gibellina è un simbolo e un monito. Colpita da un terribile terremoto nel 1968, fu ricostruita da intellettuali, artisti e architetti del tempo, e ricorda al mondo la possibilità di rinascita attraverso le arti. Carla Accardi, Alighieri Boetti, Alberto Burri, Pietro Consagra, Emilio Isgrò, Fausto Melotti, Alessandro Mendini, Mimmo Paladino, Arnaldo Pomodoro, Mario Schifano e moltissimi altri hanno creato per Gibellina un alfabeto unico e poetico, fatto di scultura e pittura, con cui esorcizzare il dolore e rinominare la vita, riscoprire quello che Consagra chiamava “il diritto umano a non subire le sopraffazioni, il patrimonio della propria esistenza, la possibilità di scegliere e reagire con una propria coscienza che proviene dai contatti umani, dagli oggetti vicini e sognati, dall’avversità e dagli amori, dai propri sensi, dagli odori e dal tatto, dalla memoria dove si attacca, dall’attenzione dove si posa, dalle voglie, dai desideri che si rinnovano, dal cervello che fantastica“.

La città dell'elefante (Splen, Mascalucia 2019)

La città dell’elefante (Splen, Mascalucia 2019)

La tua ultima pubblicazione, La città dell’elefante, edita dalla casa editrice Splen, è un lavoro a più mani dedicato alla tua città, Catania. Di cosa parla e a chi si rivolge?
La città dell’elefante, scritto insieme ad altre colleghe catanesi (Bianca Caccamese, Giamina Croazzo, Valeria Di Loreto), è il nome che gli arabi diedero a Catania e che si lega a uno dei suoi simboli più amati, il Liotru, l’elefante di pietra della fontana di piazza del Duomo.
Il libro parla del patrimonio artistico che è un racconto fantastico a ogni latitudine, di un’amicizia multietnica, di un viaggio iniziatico, al Bene, e fisico, per le strade di Catania. Questo racconto di accoglienza e integrazione di cui la nostra isola è stata esempio nei secoli è pensato per le nuove generazioni. È un romanzo ma anche una guida-gioco ideata per i catanesi e per chi viene da fuori e vuole conoscere meglio la “città dell’elefante”, divertendosi (che è il modo migliore di imparare). Mentre intrecciavo la vicenda pensavo a come Gianni Rodari, Italo Calvino, Roberto Piumini, Marco Dallari, Patricia Geis, Jean Jullien, Roald Dahl, Michael Ende, Hayao Miyazaki e tanti altri grandi maestri della “grammatica della fantasia” hanno raccontato con leggerezza cose molto profonde e quanto fosse importante fare lo stesso con il patrimonio di storie delle città. La scoperta del patrimonio artistico e le mille avventure del viaggio di conoscenza diventano un percorso iniziatico che porterà i protagonisti e i lettori de La città dell’elefante a evolversi, a cambiare, a giungere diversi alla fine del libro. Una fine che è solo un inizio perché ci aiuta a comprendere che senza conoscere l’arte e la storia, le proprie origini, le commistioni di popoli che hanno fatto di noi quello che siamo oggi, non possono germogliare la bellezza, la solidarietà, il senso civico, il rispetto del prossimo e dell’ambiente con cui, davvero, salvare il mondo e il futuro.

‒ Annalisa Trasatti

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Annalisa Trasatti

Annalisa Trasatti

Sono laureata in Beni culturali con indirizzo storico artistico presso l'Università di Macerata con una tesi sul Panorama della didattica museale marchigiana. Scrivo di educazione museale e didattica dell'arte dal 2002. Dopo numerose esperienze di tirocinio presso i principali dipartimenti…

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