Il “caso” Aldo Rossi. In bilico tra architettura e potere

Nell’anno della retrospettiva “Aldo Rossi L’architetto e le città”, in corso al MAXXI di Roma, il libro “The State of Architecture: Aldo Rossi and the Tools of Internationalization” esamina la fase conclusiva della ricerca e della produzione di Aldo Rossi soffermandosi sul rapporto tra architettura e Stato. In un’ottica internazionale.

Sebastiano Fabbrini, Postdoctoral Fellow presso l’Università IUAV di Venezia, dove sta conducendo il progetto di ricerca The Architecture of European Integration, è autore del libro The State of Architecture: Aldo Rossi and the Tools of Internationalization, che getta nuova luce sulla produzione dell’architetto. Ne abbiamo parlato con l’autore.

INTERVISTA A SEBASTIANO FABBRINI

Fra gli architetti italiani del Novecento, Aldo Rossi rappresenta – per molti versi –un unicum e un anticipatore di processi oggi consolidati. Forse, anche per questo, è costantemente al centro di progetti espositivi, come la retrospettiva in corso al MAXXI, di ricerca ed editoriali. Quali sono le premesse alla base della tua pubblicazione? Quali le peculiarità che la distinguono dalla ricca bibliografia dedicata a questo autore?
Il libro mette in luce il processo di internazionalizzazione che caratterizza la parte finale del percorso di Aldo Rossi, tra gli Anni Settanta e Novanta. Cercando di evitare le sirene della poesia rossiana, mi sono concentrato su una serie di strumenti che, dietro le quinte, in modo spesso inconsapevole, hanno contribuito a riposizione l’architettura in un quadro globale. Il primo esempio è il fax. Dopo l’apertura di un ufficio satellite a New York nel 1986, molti progetti vengono sviluppati attraverso un continuo scambio di disegni e documenti via fax tra l’Italia e gli Stati Uniti. Il lavoro di questa fase è contraddistinto dalla riproduzione di forme e idee elaborate nel periodo giovanile, sfruttando il valore che tale repertorio aveva acquisito negli anni. La copertina del volume mostra una copia della celebre pianta del cimitero di Modena, che Aldo Rossi fa realizzare dieci anni dopo il progetto a un allievo americano, cambiando la palette di colori, con l’idea di costruire un’immagine adatta a un’audience internazionale.

Nel libro lo “scioglimento del legame tra architettura e Stato” viene esaminato a partire dalla parabola di Rossi, riletta appunto in un’ottica internazionale. Dalla tua analisi, condotta anche negli Stati Uniti, quali sono le novità che emergono della sua visione di questo processo?
Il tema di fondo è il rapporto tra architettura e potere. Il caso di Aldo Rossi evidenzia una frattura nella struttura di potere all’interno della quale, per secoli, l’architettura ha operato: lo Stato. Dopo la vittoria del Pritzker Prize nel 1990, la rivista Time descrive la sua carriera come una metamorfosi da eroe di culto a eminenza grigia del mercato internazionale. La maggior parte dei lavori iconici della prima fase vengono realizzati nel contesto della ricostruzione post-bellica in Italia, uno degli ultimi grandi sforzi pubblici nell’ambiente costruito. Nell’ultimo decennio, invece, il principale cliente di Aldo Rossi è Disney. Nel giro di pochi anni, la tessera del Partito Comunista, uno strumento decisamente utile per lavorare in città come Modena, viene sostituita dalla tessera dell’American Institute of Architects. Non è una transizione facile, come rilevato da una lettera che Aldo Rossi manda (via fax) al CEO di Disney, dopo un diverbio sul progetto per Disneyland Paris: “Io non sarò il Cavalier Bernini, ma voi non siete il Re di Francia”.

Sebastiano Fabbrini, The State of Architecture: Aldo Rossi and the Tools of Internationalization. Il Poligrafo, Padova 2020. Courtesy l'editore

Sebastiano Fabbrini, The State of Architecture: Aldo Rossi and the Tools of Internationalization. Il Poligrafo, Padova 2020. Courtesy l’editore

ALDO ROSSI E IL TEATRO DEL MONDO

Soffermiamoci sulla struttura del volume, che segue una scansione rigorosa, con quattro saggi ciascuno associato all’immagine di un oggetto tipico dell’era “pre-digitale,” e un capitolo conclusivo. Numericamente ridotte, le immagini selezionate hanno un forte valore simbolico nella trattazione. Puoi descrivere la relazione di ciascuna rispetto ai singoli argomenti affrontati e alla più ampia questione della riproducibilità?
La struttura del volume poggia su una serie di strumenti di riproduzione e disseminazione, organizzati come correnti di oggetti – George Kubler parlava di streams of things. Si tratta di tecnologie più o meno avanzate che, in modi diversi, hanno modificato i confini dell’architettura all’alba della rivoluzione digitale. Alcuni sono strumenti che emergono negli Anni Settanta e Ottanta, come il fax e la carta di credito. Altri sono strumenti con una storia molta più lunga, come il quaderno e lo stampo, che però vengono dirottati in nuove direzioni. Le immagini che introducono i capitoli del libro mirano a evocare le tensioni dietro tali oggetti. Per esempio, il quaderno azzurro viene presentato come un veicolo per trasferire un certo modo di disegnare, che Manfredo Tafuri definiva infantile e che infatti derivava dall’educazione primaria di Aldo Rossi negli Anni Quaranta, in nuovi contesti, dalle gallerie d’arte di New York alle principali case di design, fino agli archivi di grandi istituzioni globali. Il fatto che quasi tutti i quaderni rossiani siano finiti a Los Angeles, venduti dall’architetto stesso al Getty Research Institute, è forse la migliore spia del processo di internazionalizzazione.

È in corso la 17. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia. Ancora una volta, anche in questa edizione, alcuni hanno ricordato l’esperienza del Teatro del Mondo, alla quale il libro fa esplicito riferimento nel capitolo Silver Mold. Come si colloca rispetto ai casi studio selezionati? Più in generale, quale ritieni sia stato il suo contributo nel percorso di ridefinizione del concetto di “Stato” analizzato dal libro?
Il Teatro del Mondo è uno degli oggetti più riprodotti dell’architettura italiana a livello internazionale. La prima versione ha una vita molto breve: dopo l’esperienza alla Biennale del 1980 e il viaggio a Dubrovnik, il rivestimento ligneo viene archiviato in una discarica a Marghera e i tubi metallici della struttura interna, presi in affitto da Dalmine, vengono restituiti al proprietario. Segue però una lunga serie di riproduzioni in tutti i formati, dai giochi da tavolo ai poster pubblicitari, fino alla vera e propria ricostruzione dell’edificio a Genova nel 2004. Se analizziamo i progetti americani di Aldo Rossi è difficile trovarne uno in cui non ci sia una copia del teatro veneziano. Citando Bruno Latour, potremmo parlare di migrazione dell’aura dall’originale alle copie. Una dinamica che va di pari passo con la migrazione dell’architetto. Il Teatro del Mondo opera come uno stampo architettonico – un oggetto che, in maniera non dissimile dalle caffettiere Alessi, viene costantemente riprodotto nei contesti più diversi, ampliando i confini dell’architettura. Basti pensare che, negli Anni Ottanta, la First Lady Nancy Reagan si spese in prima persona per provare a portare il totem rossiano sull’altra sponda dell’Atlantico.

Valentina Silvestrini

Sebastiano Fabbrini – The State of Architecture: Aldo Rossi and the Tools of Internationalization
Il Poligrafo, Padova 2020
Pagg. 208, € 26,60
ISBN 9788893871167
https://www.poligrafo.it/

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Valentina Silvestrini

Valentina Silvestrini

Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale fiorentina. È cocuratrice della newsletter "Render". Ha studiato architettura all’Università La Sapienza di Roma, città in cui ha conseguito…

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