Da Marina Abramović a Marta Jovanović. Utopia e arte radicale in Jugoslavia

Un focus sulla scena artistica jugoslava dagli Anni Settanta ai Novanta. Fra socialismo, censura e lotta all’autoritarismo.

Negli Anni Settanta la Jugoslavia ha conosciuto un decennio di produzione artistica così originale da essere apprezzata a livello internazionale. Il fatto che tale fermento culturale sia emerso in un Paese socialista e autoritario è interessante quanto quell’arte in sé. Come fu possibile tale movimento? Occorre fare un salto indietro alle famose contestazioni del ’68, considerando che nell’Europa dell’Est solo la Cecoslovacchia con la sua “Primavera di Praga” e la Jugoslavia vissero le proteste giovanili. A Belgrado l’università fu occupata per una settimana e gli studenti resistettero ai duri scontri contro la polizia fino allo sgombero. Rivendicavano riforme civili, economiche, un rinnovamento del sistema socialista e le donne, dal canto loro, manifestavano il rifiuto della famiglia patriarcale. L’autorevole presidente, il Maresciallo Tito, in un famoso discorso alla nazione solidarizzò con gli studenti, chiese la fine delle barricate e promise migliori condizioni per i giovani. L’esito delle promesse non si fece attendere e la Jugoslavia visse un’irripetibile stagione di libertà sconosciuta agli altri Paesi socialisti dove lo Stato sosteneva gli artisti con incentivi e un fondo pensionistico senza chiedere propaganda in cambio.

LE ARTI E IL SOCIALISMO IN JUGOSLAVIA

In quel clima favorevole, una generazione emerse grazie alla possibilità di investire sul proprio talento, inaugurando un’età dell’oro per cinema, teatro, pittura e narrativa. Tale scena è nota come “Radicalismo”, poiché questi creativi erano accomunati dalla volontà di scioccare il pubblico. Le loro opere puntavano il dito sulle contraddizioni della società jugoslava che cercava un equilibrio tra autoritarismo e autogestione, socialismo e consumismo. Facendosi beffe del Partito, fomentarono il paradosso del sistema politico che li finanziava, sostenendo che criticare la loro arte significava criticare il Socialismo. Il Partito a volte censurava, ma tendenzialmente chiudeva un occhio permettendo la “dissidenza creativa” e la diffusione anche di performance estreme. Alcuni artisti erano tollerati perché davano prestigio alla Jugoslavia in Occidente.
Degni di nota furono i serbi del Belgrade Six, dei quali Marina Abramović era il più famoso membro; la performer femminista croata Sanja Iveković, la punk band femminista slovena Tozibabe; Goran Bregović e la sua rock band di Sarajevo Bijelo Dugme; il fotografo e artista visuale croato Tomislav Gotovac e i collettivi sloveni di registi OHO Group, di poeti Pupilija Ferkeverk e di designer Neuer Kollektivismus.
Una nouvelle vague di film controculturali ribattezzata “Movimento Nero” ‒ per il pessimismo e l’esaltazione di messaggi anarchici ‒ reinventò il cinema jugoslavo. Lungi dall’essere opere clandestine, avevano sostegno ufficiale da parte del governo, anche se i risultati nel migliore dei casi venivano bloccati dalla censura. In alcuni casi mettevano proprio nei guai i produttori, come capitava a Karpo Godina di OHO Group per i suoi film psichedelici che abbracciavano la cultura hippy. Vent’anni prima di Transpotting, in una sua opera, gli attori assumevano realmente droga e recitavano sotto l’effetto dell’LSD! Per Godina le droghe allucinogene rappresentavano una visione di verità in una società controversa, senza diritti civili reali, dove la liberazione della mente era metafora del desiderio di libertà politica.

Sanja Iveković, invece, la combinò ancora più grossa nel 1979 con la sua performance femminista di 18 minuti chiamata Triangle, messa in atto durante la visita di Tito a Zagabria. Triangle era un atto di sfida contro la legge di sicurezza che vietava alle persone di assistere dai balconi alle visite presidenziali. La Iveković si posizionò sul terrazzo del suo appartamento con un libro e un bicchiere di whisky, simulando un gesto masturbatorio mentre il corteo presidenziale sfilava in strada… Non passò molto tempo prima che l’artista suscitasse la reazione che sperava, ricevendo l’ordine dagli ufficiali di rientrare subito in casa.
Marina Abramović è l’artista che ha avuto più successo a livello internazionale. Studentessa all’Accademia di Belle Arti di Belgrado dal 1965 al 1970, dopo la laurea insegnò arte all’Accademia di Novi Sad. Fu lì che teorizzò e mise in scena nel 1974 la sua prima esibizione da solista chiamata Rhythm. La parte più famosa di questa performance è uno spettacolo di sei ore in cui il suo ruolo è completamente passivo di fronte al pubblico. Aveva posizionato su un tavolo 72 oggetti che le persone potevano usare su di lei a scelta. Alcuni di questi oggetti potevano darle piacere, mentre altri potevano essere maneggiati per infliggerle dolore e ferirla. Tra questi oggetti c’erano una pistola e un proiettile. Al principio il pubblicò reagì con cautela, ma con il passare del tempo ‒ e Marina che rimaneva passiva ‒ gli spettatori iniziarono a comportarsi in modo più aggressivo e la performance divenne pericolosa. Uno spettatore con il coltello le procurò un taglio per poi bere il suo sangue, un altro arrivò persino a puntarle la pistola alla testa finché tutto degenerò in una rissa tra i presenti! Trasferitasi ad Amsterdam nel 1976 ‒ dove avrebbe incontrato il compagno di una vita Ulay, iniziò a esibirsi in tutta Europa. In Italia Rhythm fu portata a Napoli. Con questa performance spinse il suo corpo al limite del rischio e raggiunse lo scopo di dimostrare che l’interazione del pubblico poteva essere illimitata. Questa divenne la chiave del successo che l’ha portata ai prestigiosi riconoscimenti dei nostri giorni: dalla Biennale di Venezia nel 1996 ­ – dove ha vinto il Leone d’Oro con Balkan Baroque – alla retrospettiva dedicatale dal MoMA di New York nel 2010.

Marta Jovanovic - In God We Trust - mostra Lumina Terrae, Lecce 2011

Marta Jovanovic – In God We Trust – mostra Lumina Terrae, Lecce 2011

LA DIASPORA DEGLI ARTISTI

La ribellione hippy e la liberazione sessuale potrebbero sembrare ingenue oggi, ma in Jugoslavia furono usate come richiesta di maggiore trasparenza in un Paese al bivio. Il Radicalismo mise in scena le contraddizioni dell’utopico modello socialista dell’autogestione: la Jugoslavia era uno stato dove c’erano libri banditi dalla censura ma si poteva acquistare Playboy, dove alcune persone vivevano grazie ai buoni per comprare latte e pane (come in ogni altro regime socialista) ma si trovano anche supermercati in stile occidentale. Il Radicalismo denunciava una classe politica incapace di riformarsi democraticamente trascinando la Repubblica federale in un vicolo cieco. Dalla metà degli Anni Ottanta il Paese entrò gradualmente in difficoltà economiche e l’odio etnico fece da detonatore. Quando il socialismo crollò all’inizio degli Anni Novanta, esplose la guerra civile.
Con la guerra tanto capitale umano è andato disperso e c’è stata una diaspora di artisti. Oggi, al Museo d’Arte Contemporanea di Belgrado, grazie al lavoro di un’altra artista di livello internazionale come Marta Jovanović, si sta cercando di portare nel futuro il knowledge balcanico sulla performance art. Lei e altri giovani performer hanno assorbito il bagaglio della tradizione jugoslava, pur proponendo idee nuove e originali. Da dove sono ripartiti? Chi ha visitato una mostra retrospettiva sulla Abramović, avrà scoperto che gli artisti di quella stagione post ’68 avevano archiviato tutti gli appunti sui loro lavori sperimentali e folli.
La Jugoslavia non esiste più, eppure quell’eredità artistica ha ancora molto da dire sull’utilità “politica” dell’arte nella cultura contemporanea.

‒ Francesco Sani

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Francesco Sani

Francesco Sani

Giornalista pubblicista, membro di redazione della rivista "Firenze Urban Lifestyle", scrivo per Il Fatto Quotidiano e altri magazine online.

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