Mohamed Ahmed Ibrahim rappresenterà gli Emirati Arabi Uniti alla Biennale di Venezia 2022

Mohamed Ahmed Ibrahim rappresenterà gli Emirati Arabi Uniti alla Biennale di Venezia 2022. La carriera dell’artista si intreccia con l’avvento dell’arte concettuale negli UAE. L’incredibile storia di quest’artista e di una comunità che nasce nel racconto di Benedetta Leone

Gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato che sarà l’artista Mohamed Ahmed Ibrahim a rappresentare il Paese alla Biennale di Venezia nel 2022. “Abbiamo lo spazio e abbiamo gli strumenti. Quello che è importante adesso è il messaggio di per se: sto pensando a come mostrare e presentare la mia cultura a gente di altre nazioni. Tutte le culture del mondo saranno là, penso a come cominciare un dialogo fra noi e loro”, ha spiegato l’artista al The National. In controtendenza rispetto al passato, è stato nominato prima l’artista che ha poi indicato in Maya Allison, direttrice e curatrice della NYU Abu Dhabi Gallery e da anni promotrice delle avanguardie negli Emirati, la curatela del padiglione. Ibrahim partecipò anche alla 53. edizione della Biennale. L’edizione 2009 segnava una tappa storica: era infatti la prima volta che uno stato del Golfo prendeva parte alla manifestazione presentando una collettiva di artisti nazionali.  È a ragione ritenuto un precursore dell’arte concettuale negli EAU. Qui negli anni ‘80 e ‘90, insieme ad un gruppo di altri quattro artisti (Hassan Sharif, Hussein Sharif, Abdullah Al Saadi e Mohammed Kazem) ricordati oggi come i The Five, contribuì a gettare le basi di quella che poi sarebbe divenuta una fiorente comunità artistica locale. Il suo lavoro è oggi parte di importanti collezioni: il British Museum, il Centre George Pompidou, la Sharjah Art Foundation, l’Art Jameel, per citarne alcune. Nel 2018 La Sharjah Art Foundation gli dedica la retrospettiva Elements,curata da Shaikha Hoor Al Qasimi, che spaziava tra tre decenni di prolifica produzione artistica.

CHI È MOHAMED AHMED IBRAHIM

È nato e cresciuto negli Emirati Arabi Uniti, a Khor Fakkan, una località dell’Emirato di Sharjah che si affaccia sul Golfo di Oman, circondata dalle montagne di Hajar; un paesaggio insolitamente imponente, dinamico. A differenza di gran parte degli Emirati, dove sono i grattacieli ed il cemento ad avere la meglio, qui la natura si fa sentire. È il legame con questa terra e con il paesaggio circostante ad influenzare prevalentemente l’arte di Mohamed che a tratti presenta forti affinità con la Land Art di Robert Smithson, che tanto lo ispirò all’inizio della sua carriera cominciata alla fine degli anni ‘80. Molte le deviazioni, o meglio i percorsi formativi alternativi: un viaggio in India da adolescente, una laurea in Psicologia, un lavoro in banca, che contribuirono a fare di lui l’artista eclettico che è poi diventato. Ibrahim si esprime attraverso la pittura, la scultura, l’arte murale. Il suo linguaggio semi-figurativo investiga la tensione fra il paesaggio ancestrale della sua terra e l’inevitabile avanzare dell’urbanizzazione. La rappresentazione della forma è al centro della sua ricerca pittorica: simboli, linee o geometrie astratte, che alle volte ricordano la pittura rupestre, trovano nella reiterazione quasi catartica un modo per segnare il tempo ed imprimere i ricordi. Le sue sculture in papier-mâché contengono elementi organici (terra, foglie, materiali raccolti dall’artista nei suoi vagabondaggi in montagna) e spesso ricordano oggetti primitivi, ossa o parti di alberi, che sembrano quasi più reperti antichi portati alla luce da uno scavo archeologico che sculture di recente fattura. Un uso sgargiante del colore caratterizza tutta la sua opera: i rosa, gli arancioni, i gialli, i colori del tramonto che l’artista nella sua infanzia non riuscì mai a vedere perché nascosto dalle montagne, sembrano voler supplire a questa carenza del passato e si impongono con potenza, infondendo vitalità alle sue opere. 

LA NASCITA DI UNA COMUNITÀ ARTISTICA  

Questa applicazione spensierata del colore è in linea con l’approccio ludico all’arte condiviso dal gruppo dei The Five, gravitanti intorno alla figura del carismatico Hassan Sharif, scomparso nel 2016. La maturazione artistica di Ibrahim è stata grandemente segnata dall’incontro, dall’amicizia e dallo spirito di comunità e aggregazione che lo legò a questo gruppo di artisti per tutta la durata degli anni ottanta e novanta. Ibrahim incontra Sharif nel 1986, l’amicizia con lui costituisce un momento di svolta nel suo percorso formativo. Sharif lo coinvolge nella Emirates Fine Arts Society, di cui era stato fondatore nel 1980 e che si occupava di dare voce, attraverso mostre ed eventi culturali, ad espressioni artistiche controcorrente. Sharif, che ha studiato arte a Londra, procura libri a quei tempi introvabili nel Golfo e accende discussioni che contribuiscono a far maturare un forte spirito critico: intorno a lui nascono le prime conversazioni a proposito del ruolo che arte contemporanea ed artista dovevano avere nella società. Tante sono le occasioni di incontro e di scambio e i luoghi che li ospitano: la casa di Hassan, nel cuore di Satwa, uno dei quartieri più vivaci e autentici di Dubai, gli ateliers di Sharjah e Khor Fakkan e l’amato deserto, dove nel corso degli anni novanta prende vita un singolare ritrovo di intellettuali, nato attraverso il passaparola, il Sand PalaceArtisti, poeti, musicisti, attori, si incontrano intorno ad un falò, dandosi appuntamento ad una precisa duna nel deserto, al confine fra le città di Ajman e Sharjah. Qui si filosofeggia, si suona, si recitano poesie, si contribuisce insomma a creare e diffondere una cultura emiratina tout court. Spesso non vengono capiti, non sono accettati. Il lavoro che fanno, l’arte concettuale che per la prima volta importano nella regione, è ancora troppo lontana dal gusto locale, che vede nei ‘dipinti di cavalli e di cammelli’, per dirla con Sharif, l’arte di riferimento per pubblico ed istituzioni. Le installazioni con oggetti di recupero di Hassan Sharif (che tanto lo avvicinano all’arte povera di un Pistoletto), le sculture primitive di Ibrahim ed il suo linguaggio semi-figurativo, o i criptici dipinti di Mohamed Kazhem, si impongono con la forza della novità e della diversità, con la voglia di rompere con una tradizione artistica che non si è ancora mai interrogata sulla funzione e natura dell’arte.  La necessità di formare una vera e propria scuola non si presentò mai ma è un dato di fatto che la comunità di artisti che gravitava intorno alla figura di Sharif beneficiò di una comunanza di ideali e di percorsi che permise loro di entrare a far parte, nell’arco di qualche decennio, del mondo dell’arte internazionale, quello delle grandi collezioni, delle istituzioni e delle rassegne importanti.

Benedetta Leone

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Benedetta Leone

Benedetta Leone

Dopo una laurea in Storia dell'arte presso l'Università degli Studi di Bologna, persegue un master in Business Internazionale fra I campus di Parigi e Londra dell'università francese ESCP. Per alcuni anni si stabilisce nel sud est asiatico, a Bangkok, dove…

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