Archeologia del futuro. La performance di g. olmo stuppia a Parigi

g. olmo stuppia ha messo in scena a Parigi una performance che parla di sorveglianza, di pudore e di condivisione. Utilizzando la tecnologia di un drone.

Archéologie du futur è il primo capitolo nomade di Cassata Drone Expanded Archive e soprattutto solista dell’artista g. olmo stuppia (Milano, 1991). Nel contesto della Galleria Colbert e prodotta all’Institut National De Histoire de l’Art (INHA) di Parigi, l’artista ha realizzato la prima performance mai avvenuta in questo luogo con un drone reinventando l’archivio del progetto siciliano e adattandolo con una formula sia performativa che espositiva: una testa decapitata della statua della libertà Anni Ottanta che è il perno visivo di tutto il progetto. Mostra e azione che si consustanziano di elementi già presenti nella mostra Désolé e di nuove sintesi installative di elementi raccolti e atomizzati nello spazio come in uno scavo archeologico aperto. Disposti come dei crateri, dei pozzi segnalati da spray rosa e adagiati su una pavimentazione che produce scoppi e suoni, come le vene aperte della Sicilia, metafora di una contemporaneità estrattiva e selvaggia. Archéologie du futur è il progetto curato da Anna Battiston, Nathalia Prikhodko e Sasha Pavak ed è il frutto della collaborazione dell’artista con Antonio Gambino, cha ha rivisitato il suono dei droni militari di Sigonella, e della performer Susanna Dimitri. Ha seguito l’azione un dibattito, distesi tra le opere, con il sociologo e PhD Julien Chandelier.

LA PERFORMANCE

La performance di g. olmo stuppia Archéologie du futur si instilla all’interno della Galleria Colbert dell’INHA di Parigi, a partire dalla rotonda coperta dove campeggia la statua di Euridice, dove sul piedistallo i performer si ritraggono con l’aiuto di due i-Phone, estremizzando l’iperiproducibilità contemporanea, intenti in una serie di moderne pratiche rituali di cura, tessendo un fil rouge che dall’antichità ci porta al presente. Un drone, a terra, attende di alzarsi in volo. Di colpo, il rombo del quadricottero invade l’ambiente, ponendosi in posizione zenitale e aggressiva rispetto ai performer. Lo “scavo” è aperto ai mille occhi, un luogo che si distingue attraverso una operazione archeologica che è anche un approccio storico – l’archeologia del sapere, diceva Michel Foucault, è quella operazione che ci permette di togliere la polvere cristallizzata sopra ogni operazione di sapere, sia esso artistico, storico o culturale –, polvere cosparsa dal rapporto di potere che si declina in ogni tempo e spazio, che è proprio del ruolo dell’intellettuale saper sollevare. L’artista non fa eccezione.
L’esperienza estetica della performance dello spettatore è mediata, nella sua rappresentazione, da un organo del potere contemporaneo: il drone sorvegliante, un leitmotiv dell’opera dell’artista mentre g. olmo stuppia e la performer Susanna Dimitri utilizzano gli smarthpone per le riprese dei loro gesti, porgono i loro omaggi a Euridice e lavano la testa mozzata di una statua della libertà, proveniente da un drive-in abbandonato nei paraggi della base Nassing di Sigonella (da cui decollano i droni dei quali si percepisce il suono di sottofondo).

g. olmo stuppia. Archéologie du futur. Performance il drone vola zenitalmente sulla testa. INHA, Parigi 2019. Photo Susanna Pozzoli

g. olmo stuppia. Archéologie du futur. Performance il drone vola zenitalmente sulla testa. INHA, Parigi 2019. Photo Susanna Pozzoli

LA LIBERTÀ E IL SUO CONTRARIO

La libertà, divinità dei nostri tempi, oramai topos occidentale, è quel sottile legame che annoda proprio la Francia agli Stati Uniti, che regalò la statua di Auguste Bartholdi agli americani in segno di benevolenza verso la nazione alleata, nel centenario della sua indipendenza. Ma sopra all’archetipo della libertà francese (la Marianna di Delacroix si intitola infatti La liberté guidant le peuple, la statua della libertà invece La liberté éclairant le peuple) trionfa il paradosso del controllo che rende questa libertà governabile: il drone non smette di volare sopra le teste dei presenti, un proiettore trasmette le immagini che coglie in tempo reale, dentro un’esperienza estetica della sorveglianza che traduce però anche un aspetto votivo. La libertà alla quale ci inchiniamo, come durante un esercizio ritualizzato, un culto, rivela però che i burocrati siamo noi, sacrificati all’altare del controllo come pendant naturale del nostro laissez faire, laissez aller. La hall dell’INHA come un moderno Panoptycon in cui nessuno si rende immediatamente conto di essere visto, ma nessuno passa inosservato. Il rito prosegue in una stanza attigua (Salle Roberto Longhi). Possiamo udire il rumore dei passi che calpestano un pavimento cosparso di pluriball, mentre la ritualità del lavacro prosegue anche all’interno: gli ingredienti siciliani che connotano l’esperienza dell’artista sono qui riproposti. Alcuni degli spettatori ridono imbarazzati, altri sorridono, mentre i performer massaggiano le mani dei presenti e le lavano – il drone torna a volare prima di essere definitivamente ricoperto da un foulard, infine, con un ciotola in terracotta, l’artista imbocca di raffinata ricotta siciliana il pubblico, tutti, con due soli cucchiaini. Alcuni assaggiano, mentre altri si ritraggono schifati, declinando l’invito alla condivisione del cibo con lo stesso cucchiaio d’argento, anch’esso rinvenuto durante le ricerche di Cassata Drone Expanded Archive.
Si mette alla prova il senso del pudore, del perimetro, dell’igiene, di una società altamente sviluppata ma anche atomizzata, il disagio che può produrre nello spettatore questa esperienza di esplicitazione della sorveglianza, ma anche la ritualità iniziatica cui non siamo più abituati – di fronte alla pratica dell’accoglienza il pubblico esita, tra il basito e il divertito, dentro un collettivo étonnement.
Ancora una volta l’esperienza artistica si rivela un luogo di riflessione che interpreta il reale senza certo volerne restituire un’analisi scientifica, pedissequa, ma capace di sollevare una riflessione profonda. È pur vero che è difficile ignorare questa testa caduta, mozzata, della libertà, che, trascinandosi sul pavimento dell’INHA, interpella i nostri valori e le nostre certezze più solide.

Alba Nabulsi

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Alba Nabulsi

Alba Nabulsi

È filosofa, sociologa di genere, formatasi a Paris 8 Vincennes Saint Denis e negli atenei patavini e veneziani. Si occupa di processi di sviluppo urbano e territoriale, di diversità e genere. Collabora con artisti e industrie creative. Vive a Padova.

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