Il Canada post-coloniale di Justin Trudeau
Moltissimo si sta facendo in questi ultimi mesi per riscrivere l’identità del Paese nord-americano. Ricollocando nella corretta posizione il ruolo della cultura indigena e l’identità dei tanti gruppi etnici che hanno abitato quelle terre prima dell’arrivo di francesi e inglesi. Con un tocco che è decisamente più equilibrato rispetto a quanto sta avvenendo nei confinanti Stati Uniti. Il nostro reportage da Toronto e Ottawa.
Negli ultimi mesi in Canada si è a lungo parlato di questioni identitarie, in seguito alle celebrazioni del 150esimo anniversario della confederazione del Paese, avvenuta nel 1867. Se per le istituzioni pubbliche e i politici l’anniversario è stato motivo di orgoglio e festeggiamenti, per altri – come le varie tribù “native”, anche chiamate “first nation” – si è trattato invece di un’occasione per riscrivere e mettere in discussione la narrazione ufficiale scritta dai coloni francesi e inglesi.
Consapevoli che centocinquant’anni rappresentano solo un periodo parziale di una storia culturale ben più lunga e articolata, artisti, intellettuali e operatori culturali hanno voluto portare in superficie e dare visibilità al ricco e complesso repertorio di tradizioni etniche del Paese. Istanze condivise dal giovane e fotogenico primo ministro Justin Trudeau, il quale ha affermato che, per le popolazioni indigene, il 1° luglio 1867 – giorno in cui è stato firmato il Constitution Act per formare la nazione canadese – ha segnato l’inizio di secoli di “razzismo e oppressione”. Ha inoltre aggiunto, nel giorno del National Aboriginal Day, che “è importante riconoscere il fondamentale contributo dato dagli indigeni, dalle tribù Inuit, dai meticci e di tutti i gruppi etnici, per la costruzione dell’identità del Paese, poiché sono parte del passato, presente e futuro del Canada”.
LA NATIONAL GALLERY SI RINNOVA
Perfettamente sintonizzato su tali istanze di riconoscimento ed emersione del rimosso è Mark Mayer, direttore della prestigiosa National Gallery of Canada, che ha sede nella capitale Ottawa. Fondata nel 1880, la National Gallery raccoglie la collezione più importante di arte canadese ed europea antica e contemporanea presente nel Paese, oltre a opere americane, asiatiche e indigene, una biblioteca, il Canadian Photography Institute e diverse mostre temporanee.
Dopo diversi anni di studi e un’accurata ristrutturazione, nel giugno dello scorso anno Mayer ha fatto riallestire la collezione del museo, presentando insieme opere di artisti indigeni e canadesi. Le sale che espongono la collezione permanente, chiamate Canadian and Indigenous Galleries, raccolgono più di ottocento opere tra sculture, dipinti, stampe e fotografie. “Con un variegato team di curatori, accademici e advisor, abbiamo voluto presentare in modo nuovo l’unicità della cultura visiva del Canada, per la prima volta dopo l’apertura della Galleria nel 1988, progettata da Moshe Safdie”, sottolinea Mayer. E precisa: “Le opere sono presentate in modo cronologico: si inizia con antichi artefatti indigeni ed esempi di arte religiosa della Nuova Francia (come era precedentemente chiamato il Canada Francese) come ‘Altar frontal of the Immaculate Conception’, 1686-1717, un grande ricamo su tela della suora orsolina Marie Lemaire des Anges, o la canoa Inuit presentata nella sala in cui sono esposti i dipinti dei pittori paesaggisti Group of Seven, tra i più consacrati artisti del Paese, attivi nei primi decenni del Novecento, per chiudere con sculture indigene contemporanee e dipinti astratti”.
“Il Canada è una nazione che sta mettendo in discussione questioni che, per centinaia di anni, sono state date per scontate, e questo richiede studi approfonditi, consapevolezza e determinazione. È importante essere giunti a tale, dovuto, riconoscimento”, ha affermato Christine Lalonde, curatrice associata di arte indigena, mentre commentava il nuovo allestimento. Istanze visibili anche nella comunicazione, nei pannelli di sala e nelle descrizioni delle opere: oltre a essere scritte nelle due lingue ufficiali, inglese e francese, sono state tradotte anche nelle varie lingue regionali degli artisti nativi (più di una quindicina), e le audioguide sono state registrate da indigeni per assicurare la corretta pronuncia.
NETWORKING NAZIONALE E INTERNAZIONALE
La National Gallery of Canada è coinvolta anche in altri due importanti progetti: il Sobey Art Award e la Canadian Biennial, ospitata nella sede del museo a Ottawa e quest’anno, per la prima volta, anche nell’Art Gallery of Alberta, che si trova a Edmonton, in Alberta.
Particolarità della Biennale? Selezionare opere appartenenti alla collezione del museo e le acquisizioni avvenute negli ultimi anni. “È per noi un dovere e un piacere mostrare ai visitatori come vengono investiti i soldi pubblici”, afferma il curatore Jonathan Shaughnessy, e aggiunge: “Per questa edizione abbiamo selezionato più di cinquanta artisti, alcuni di loro non residenti in Canada, come John Akomfrah, Mark Bradford, Beau Dick, Julie Mehretu, Chris Ofili, Wael Shawky, Nick Cave, a differenza delle precedenti in cui vi erano solo artisti canadesi e indigeni. Le loro opere, che si occupano di temi riguardanti la migrazione e le questioni identitarie, e sono in perfetta sintonia con il concept della Biennale, visitabile fino al 18 marzo”.
Tra le opere in mostra, la scultura sonora di Nick Cave, ideata per rivendicare le discriminazioni razziale e di genere, trova ripercussioni semantiche nelle maschere rituali di Beau Dick, discendente dalla tribù dei Kwakwaka’wakw, residenti nella Columbia Britannica. Presentate anche all’ultima Documenta, le maschere “determinano nello stesso tempo un’affermazione di vitalità e una forma di resistenza verso le violenze di carattere etnico”, ha commentato Shaughnessy, precisando che “Dick le aveva indossate a Vancouver nel 2013, per la marcia della Riconciliazione. In sintesi, le maschere permettevano a Dick di difendere i diritti degli indigeni”.
Anche il Sobey Art Award è supportato e gestito dalla National Gallery of Canada. Istituito nel 2001 dalla Sobey Art Foundation, il premio intende sostenere la scena artistica canadese contemporanea. Ogni anno vengono selezionati cinque artisti attivi in diverse aree del Paese – la costa occidentale e lo Yukon, il Nord, l’Ontario, il Québec e le Province Atlantiche – per mostrare la ricchezza e la varietà delle diverse scene artistiche. Il sostegno del premio è consistente: al vincitore sono assegnati 50mila dollari canadesi, per i selezionati il gettone è invece di 10mila dollari ciascuno.
L’Art Museum dell’Università di Toronto ha ospitato la mostra dell’ultima edizione del premio, dal 24 ottobre al 9 dicembre dello scorso anno. Quattro dei cinque artisti selezionati erano donne: Divya Mehra, residente tra Winnipeg e New York; Jacynthe Carrier, attiva invece a Québec City; Bridget Moser di Toronto; Raymond Boisjoly, discendente delle tribù di Haida e residente a Vancouver; e Ursula Johnson di Dartmouth, nella Nuova Scozia. La Johnson è stata premiata per un lavoro che mette in discussione antichi approcci etnografici e antropologici attraverso nuove pratiche relazionali. Con performance e installazioni indaga le pratiche culturali delle comunità indigene, essendo lei stessa discendente dai nativi Eskasoni Mi’qmaw.
TORONTO: HUB CULTURALE MULTIETNICO E MULTIDISCIPLINARE
Non lontano dall’Art Museum, anche l’Art Gallery of Ontario, museo di arte antica, moderna e contemporanea, fondato nel 1900 e ampliato nel 2008 con interventi architettonici di Frank Gehry, si è occupato lo scorso anno di temi riguardanti la storia del Paese. La collettiva Every. Now. Then: Reframing Nationhood esplorava tematiche riguardanti il passato, il presente e il futuro del Paese, attraverso le opere di una quarantina di artisti residenti in Canada, tra cui il collettivo femminista Sister Co-Resister. Mappe, installazioni, dipinti, videoinstallazioni raccoglievano le riflessioni e le sperimentazioni della complessa e variegata scena artistica emergente.
Sempre a Downtown è attivo 401 Richmond, un ex building industriale trasformato in cultural hub, che raccoglie molteplici associazioni e spazi indipendenti, per lo più supportati da fondi statali. È un punto di riferimento imprescindibile per lo sviluppo e la storia della cultura visuale della città, grazie alle sue tante proposte espressive: qui hanno infatti sede laboratori di design, il Textile Studio Co-operative, atelier d’artisti, case editrici, la redazione di C Magazine, agenzie di comunicazione dedicate ai millennials come Decode, bookshop e tante gallerie d’arte. Tra queste, YYZ e Prefix Institute of Contemporary Art, entrambe attive sia come spazi espositivi che come case editrici.
Non mancano archivi filmici, come il Canadian Filmmakers Distribution Centre, fondato nel 1967, e il più recente Vtape, spazio espositivo e centro di distribuzione di arte video e sonora. Al terzo piano ha sede il Center for Aboriginal Media, centro di raccolta di produzioni video di filmmaker indigeni, che ogni anno organizza ImagineNATIVE film + Media Arts Festival, per promuovere e celebrare filmmaker indigeni canadesi e internazionali. Altrettanto attivo è il Native Canadian Centre of Toronto, che dal 1962 propone progetti, workshop e attività educative riguardanti la cultura indigena, grazie a comunità attiva e attenta ai mutamenti sociali in atto.
A Downtown non mancano gli spazi commerciali. Olga Korper è stata tra le prime galleriste a trasferirsi in quell’area, precisamente in un’ex fonderia industriale. Da più di cinquant’anni la Korper è attiva nella promozione di artisti canadesi e internazionali, tra cui Will Alsos, Ilan Averbuch e Robert Mapplethorpe. La scena si è ulteriormente animata negli ultimi anni: a Tecumseth street hanno infatti aperto altre gallerie come Susan Hobbs, Cooper Cole, Robert Birch e Georgia Sherman.
LA SCENA NON PROFIT
A Toronto sono molteplici gli spazi gestiti da artisti e/o not-for-profit. Mercer Union nasce nel 1979 su iniziativa di un gruppo di dodici artisti. Nella sede attuale – un affascinante cinema ristrutturato, distribuito su 3.300 mq – vi sono due gallerie d’arte, uno spazio dedicato a workshop e conferenze, nonché studi per artisti. L’anticonformista 8eleven, ideato da artisti e attivisti, si trova a Chinatown, mentre per chi è interessato ai dialoghi tra fotografia, cinema, video e arti performative è la Gallery TPW il luogo da non perdere.
Estremamente attenta alla scena artistica internazionale è la Scrap Metal Foundation, fondata nel 2011 dai collezionisti Joe Shlesinger e Samara Walbohm, che nel corso degli anni ha presentato diverse personali di Miroslaw Balka, Ragnar Kjartansson, Eva Kot’átková, Ryan Gander, per ricordarne solo alcuni. Collabora inoltre con festival cinematografici e fotografici, rispettivamente con il Toronto International Film Festival e il Scotiabank Contact Photography Festival.
Power Plant è indubbiamente lo spazio espositivo più conosciuto all’estero. Fin dal 1980 ha organizzato grandi mostre di artisti canadesi come Peter Doig, Geoffrey Farmer o Annie Pootoogook, oltre a presentare la scena internazionale e ad avvicinare il pubblico all’arte contemporanea attraverso programmi educativi per scuole e famiglie.
Sempre sulla riva del lago Ontario, che è talmente grande da sembrare un mare, vi è l’Harbourfront Centre, organizzazione culturale not-for-profit che ospita conferenze, workshop, proiezione cinematografiche.
ASPETTANDO IL MOCA
Nell’attesa della riapertura a primavera del MOCA – Museum Of Contemporary Art – che occuperà i primi cinque piani dell’iconico Tower Automotive Building, ristrutturato dallo studio architectsAlliance di Toronto – la scena culturale canadese continua a scavare nella sua storia per “decolonizzare” il proprio passato e riscrivere il proprio futuro, nel rispetto del riconoscimento delle diversità dei tanti gruppi ed etnie presenti nel Paese.
Non è un caso che alla prossima Biennale di Architettura di Venezia saranno presentate le strutture abitative delle popolazioni indigene residenti nelle Turtle Island, con il progetto Unceded guidato dall’architetto Douglas Cardinal. Il Canada sarà inoltre rappresentato alla Biennale di Arte di Venezia del 2019 dal collettivo Isuma, videoartisti fondatori nel 1990 della prima casa di produzione video Inuit, ideata per salvaguardare la cultura Inuit, che è tradizionalmente di tipo orale, e per diffonderla, grazie al video, al resto del mondo.
BORDER CROSSINGS MAGAZINE. INTERVISTA ALLA DIRETTRICE
Meeka Walsh è la direttrice di Border Crossings, rivista quadrimestrale pubblicata a Winnipeg, nella provincia di Manitoba. Giunta al 36esimo anno di pubblicazione, è un punto di riferimento imprescindibile per la storia della cultura visuale canadese. Formatasi in ambito accademico, prima di dirigere Border Crossings la Walsh ha fatto parte della redazione di Arts Manitoba, rivista nata nel 1977 dall’idea di un gruppo di intellettuali dell’Università di Saskatchewan. La volontà era di realizzare una pubblicazione “transdisciplinare” e di approfondimento culturale attraverso l’arte. Dopo alcuni anni Arts Manitoba cambia nome e diventa Border Crossings, mantenendo però la medesima linea editoriale, l’attitudine investigativa e di analisi attraverso articoli, recensioni, interviste e saggi. Per fare un solo esempio, nell’ottobre del 1984 un’edizione speciale del magazine chiamata The North nacque su suggestione del discorso del politico canadese John Diefenbaker sulla sua Visione del Nord, e dal radio documentario The Idea of North realizzato da Glenn Gould per la CBS nel 1967.
Nell’autunno scorso, la copertina di Border Crossings era dedicata all’artista indigeno Kent Monkman. Abbiamo incontrato la Walsh alla premiazione del Sobey Art Award e le abbiamo subito chiesto se la scelta di Monkman fosse dovuta alla celebrazione della Confederazione del Canada. “Non è stato questo il motivo, perché le popolazioni indigene non l’hanno celebrata in alcun modo, così come non era importante per la rivista. Il focus era sulla personale di Monkman, ‘Shame and Prejudice: A Story of Resilience’, all’Art Museum dell’Università di Toronto, mostra che sarà in tour in Canada fino al 2020. In modo straordinariamente efficace, la sua personale riesce a mostrare intollerabili abusi istituzionalizzati compiuti nel Paese attraverso l’arte. Certo, negli ultimi anni in Canada vi è finalmente il dovuto riconoscimento della cultura indigena, in tutte le sue forme. Oltre alla National Gallery of Canada, anche a Winnipeg, dove vivo, la Winnipeg Art Gallery ha sostenuto la creazione dell’Inuit Art Centre – fondato per collezionare e custodire più di 13mila opere d’arte Inuit antiche e contemporanee. Quando sarà ultimato, porterà il mondo a Winnipeg, come raccontiamo nell’articolo pubblicato su Border Crossings”.
Ma perché scegliere di vivere e fondare una rivista d’arte contemporanea a Winnipeg invece che a Toronto o a Montréal? “La geografia del Canada è vasta, con una popolazione diffusamente raggruppata lungo il 49° parallelo, che è il confine tra il Canada e gli Stati Uniti”, risponde la direttrice. “Una terra scarsamente popolata, il cui territorio, che tocca due oceani sulle coste orientale e occidentale – l’Atlantico e il Pacifico – è estremamente vario, così come la sua popolazione, composta da immigrati e indigeni. È un Paese composto da diverse regioni, ognuna con le proprie peculiarità, e questo aspetto è sempre difeso con orgoglio, perché – come affermava il critico letterario canadese Northrop Frye in ‘The Bush Garden. Essays on the Canadian Imagination’, ‘il centro è dove sei tu’. Un dictum teoretico condiviso da molti canadesi. E poi la presenza dell’‘elefante’ del sud, gli Stati Uniti, ora sfortunatamente governati da un uomo volgare, stupido, capriccioso e pericoloso, serve come specchio culturale, come barriera per connotare il nostro immaginario. Per tornare alla tua domanda, l‘essere basati a Winnipeg permette al magazine di avere contemporaneamente un punto di vista locale, nazionale e internazionale”.
L’ultima domanda che le facciamo, anche se è terribilmente riduttiva, è se esiste una specificità dell’arte canadese. “Forse ciò che la contraddistingue è la sua inventività, e il fatto che non è guidata dal mercato. Nessun artista si astiene dal ricevere un prezzo decente per una sua opera, o declina l’opportunità di essere incluso nella collezione di un museo, ma non è il mercato, con i suoi infiniti coinvolgimenti e incessanti richieste, che spinge la produzione artistica canadese, a parte alcune eccezioni ovviamente. È invece la mancanza del mercato a permettere agli artisti di avere un’indefinibile e specifica inventività”.
‒ Lorenza Pignatti
http://bordercrossingsmag.com/
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #41
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