Fotografi d’arte. Johnny Ricci
Il suo studio di fianco al Teatro dal Verme, dietro corso Magenta a Milano, è pieno di oggetti tra i più diversi: ci sono immagini appoggiate, apparentemente, senza cura, materiali per la fotografia, cavalletti, obiettivi e libri, tanti libri. Il tutto in un solo locale con annessa la camera oscura. Si tratta di un open space diviso, appunto, da librerie. Il suo lavoro, che condivide da anni con la fotografa Annalisa Guidetti, si svolge tra lo studio, le gallerie e gli atelier degli artisti. Ecco dunque un nuovo capitolo della storia “fotografi d’arte”, iniziata con Paolo Mussat Sartor e proseguita con Enrico Cattaneo e Giorgio Colombo.
I genitori volevano chiamarlo Johnny, ma in pieno fascismo, nel 1935, era proibito dare un nome straniero a un figlio. All’anagrafe il suo nome è Giovanni, ma nessuno lo ha mai chiamato così. Johnny Ricci è nato in un piccolo paese del Friuli, dove il padre, militare, era stato trasferito. Passa i suoi primi anni a La Spezia e quindi a Turate, nel varesotto, dove frequenta il liceo scientifico. Nel 1954 il padre muore e il giovane si trasferisce a Milano con la madre e due sorelle. Johnny è un uomo ironico, intelligente, un lettore infaticabile.
Com’è iniziata la tua storia con la fotografia, lunga ormai una sessantina d’anni?
Sono arrivato alla fotografia perché mi piaceva. Nel 1951, avevo sedici anni, uno dei miei cugini aveva una macchinetta che si chiamava Rondinella Ferrania, un medio formato per fotoamatori, uscita alla fine degli Anni Quaranta. La guardavo con ammirazione, finché lui me l’ha regalata. Non me ne separavo mai, me la portavo a scuola e fotografavo le aule e i compagni, che mi prendevano per matto. Qualche anno dopo, mentre stavamo traslocando dal varesotto a Milano – i mobili erano già sul camion –, mio padre ha avuto un infarto ed è morto. Detestavo l’idea di fare lo studente lavoratore, per cui ho deciso che mi sarei cercato un posto. Ho preso l’elenco del telefono e ho trovato il numero di un’agenzia fotografica in via Moscova, il titolare era Vittorio Cera, che si era messo in proprio dopo avere fatto parte della Publifoto. Gli ho detto, per convincerlo a prendermi con sé, che volevo imparare a fare il fotografo e che ero disposto a lavorare sodo. Avevo diciannove anni, ma ne dimostravo dodici. Ho iniziato con la gavetta: pulivo per terra, sistemavo le cose sugli scaffali.
Avevi il tempo di fare fotografie?
Agli altri che lavoravano lì ho subito detto: “Ragazzi, se mi insegnate a fare le foto, a capire dove sbaglio, lavorerò di sabato, di domenica, a Natale, per le feste”. Nemmeno a dirlo, hanno subito accettato. Facevo le foto che loro reputavano noiose. Del resto io non amavo fotografare lo sport e lo lasciavo a loro, che ne erano felici. Se non si ha passione per una cosa, non la si capisce. Mi lasciavano andare al Centro Culturale Pirelli in corso Venezia e al Centro di ricerche teatrali I Rabdomanti. Mi piaceva frequentare quel giro di musica, di teatro. Col tempo ho iniziato a farmi un’idea di come volevo fotografare. Non volevo farlo con il flash, ma con la luce naturale: avevo le mie fantasie, che sono rimaste nel tempo.
È da Cera che hai iniziato a conoscere gli artisti?
No, sono stato in quell’agenzia per quattro anni, poi sono andato a lavorare da un grafico, con il quale facevamo copertine di dischi, manifesti. Quindi ho lavorato per un’importante agenzia di pubblicità. Avevo tre assistenti, ma poi è andata male e finalmente nel 1963 mi sono messo in proprio. Lavoravo in una cella francescana in piazza del Carmine. Avevo là studio e casa. Usavo le finestre per diffondere le luci, c’era una pelle d’orso per terra su cui dormivo. Tutti i mobili avevano le ruote per potere velocemente trasformare gli ambienti.
In quel momento hai iniziato a fotografare l’arte?
Mi facevano sorridere alcuni lavori che vedevo sui giornali, con titoli del tipo: “Migneco mentre dà l’ultima pennellata”, con il quadro già incorniciato. Guardando i quadri, non ho mai considerato il bello e il brutto, perché per me la pittura è un linguaggio. Frequentavo Brera, il Giamaica, dove si creavano amicizie e inimicizie. Ho conosciuto Piero Manzoni, al quale ho fatto un servizio che reputo molto importante. Tra le altre, gli ho scattato una foto, nel suo studio, accanto alle settanta scatolette di merda d’artista. Era un uomo intelligente e simpaticissimo. Il primo che ha esposto le sue cose è stato Luca Scacchi, che ha comprato una serie di scatolette e le ha esposte nella sua galleria, lo Studio d’Arte. Figurati che, per quella benedetta scatoletta, ci fu un’interpellanza parlamentare: era considerato uno scandalo.
In che ambienti lavoravi in quel periodo?
Fotografavo le mostre, mi interessava coglierne l’atmosfera. Nel frattempo facevo anche moda e pubblicità. Quando mi davano un’attrice da fotografare, spesso la portavo nell’atelier di un artista amico per ambientare la foto. In quel periodo si usava fotografare le attrici a casa, dietro i fornelli: dovevano pur sempre rappresentare un modello di donna da sposare.
In quegli anni Milano era una città molto importante per l’arte.
Quando ho preso studio in via Verdi, accanto a me c’era il Gruppo T con Anceschi, Boriani, De Vecchi, Colombo. Ho lavorato parecchio per loro. A Carla Lonzi, sempre più vicina al femminismo, avevo trovato uno studio sopra il mio.
Con chi avevi un rapporto più stretto?
Tra le persone più significative che ho conosciuto per il mio percorso umano e professionale c’è sicuramente Luciano Fabro. Andavamo entrambi al Giamaica e lui mi ha invitato a vedere la sua mostra nella galleria di fianco, quella di Zita Vismara. Era la sua prima personale. La galleria era piccola, con un soppalco, ma già si vedeva che si trattava di un fuoriclasse. Con lui c’è stato un vero e proprio confronto, che penso abbia arricchito entrambi. Anche con Dadamaino ero molto amico, giravamo per gallerie. Era una donna intelligente e buonissima, però non la mandava a dire a nessuno: diceva sempre quello che pensava, a chiunque aveva davanti. Anche se si trattava di galleristi o critici di fama. Manzoni inscatolò la merda d’artista nella villetta di Dada, dalle parti di viale Zara. Con Fernando de Filippi, poi, condividevamo uno studio in piazza Castello.
Sono stati anni straordinari per Milano.
La recessione era finita. Tutto si stava riprendendo. Io lavoravo soprattutto per gli artisti. Ugo Mulas era il fotografo ufficiale delle gallerie. La mia fama era: “Hai un problema? Vai da Ricci che te lo risolve”. Mi piaceva sperimentare, trovare nuove soluzioni. Un giorno sono stato chiamato da Schubert a fotografare una mostra di sculture di de Chirico. Lo aveva già chiesto ad altri, ma le foto non funzionavano. Con la scultura ci vuole coraggio: se ti spaventi sei finito. Per fare le foto ho stravolto la disposizione delle statue. Poi il maestro ha guardato il mio lavoro e non ha avuto niente da dire: era come se mi avessero dato una laurea.
Perché ci vuole coraggio?
Bisogna trovare un punto di vista che riassuma tutti quelli possibili. Le migliori fotografie delle opere di Medardo Rosso se l’è fatte lui stesso. Le sue sculture sono accenni di luce, con la quale Medardo dialogava. Nelle sue foto c’è la poesia dell’opera.
È così anche per Brancusi. Ma tornando al tuo lavoro milanese: com’è andata negli Anni Settanta, con i grandi mutamenti politici e sociali?
Non ho più frequentato Brera. Ho lavorato meno per l’arte. Poi ho ripreso negli Anni Ottanta, ho iniziato a lavorare per gallerie come quella di Valeria Belvedere, in via Senato. Ha fatto delle mostre molto raffinate, per esempio con Nagasawa, un altro artista che amo fotografare.
Sei ancora parecchio attivo. Cos’è cambiato nel corso degli anni?
Principalmente la tecnica. Ora utilizzo il digitale e operare con una persona molto più giovane di me come Annalisa Guidetti, la mia socia, capace di muoversi con disinvoltura con il computer, è fondamentale. Lei era l’assistente di galleria di Simona Bordone. Mi ha chiesto se poteva lavorare con me mezza giornata per imparare la professione. Mi ha convinto perché mi ha detto che se la cavava bene con l’informatica ed era automunita, e io non guido l’automobile. Col tempo è nato fra noi un sodalizio imprescindibile.
Oggi pochi giovani fanno il vostro lavoro. Non sono tanti quelli che vogliono riprodurre le opere. È una professione che ha ancora senso?
Certo che ha senso! Però molti credono di diventare protagonisti fotografando le opere degli altri, e sbagliano di grosso. Invece il nostro mestiere è una sorta di servizio. Tutti hanno talento, basta capire il proprio, grande o piccolo che sia, per utilizzarlo nel migliore dei modi.
Sei una persona schiva, è difficile vederti in giro per gallerie.
In genere vado solo alle mostre degli amici. Non ho mai accettato di esporre le mie fotografie. A me piace risolvere i problemi, mi piacciono le sfide di luce, di inquadratura. Più volte sono riuscito a riprodurre opere apparentemente impossibili da documentare. La chiave del mio lavoro è la semplicità. Certo, mi rendo conto sempre più che è un cammino difficile, ma è quanto dà un senso al mio operare.
Angela Madesani
con la collaborazione di Greta Valente
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #32
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